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Fate degli insegnanti gli eroi della ripresa

Valentina Chindano e Francesco Luccisano

La pandemia ha aggravato i mali del nostro sistema educativo. E’ il momento di mettere in campo un pensiero ambizioso sul docente, sul suo ruolo e sulla sua crescita. E non è solo una questione di soldi. Idee per la scuola

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Medici e infermieri sono stati gli eroi della pandemia. Il governo di Mario Draghi dovrebbe lavorare affinché gli insegnanti siano gli eroi della ripresa. Per farlo non basteranno più risorse. Serviranno soluzioni organizzative e strutturali. Serviranno riforme, a partire da una carriera docente che non appiattisca il percorso professionale di chi forma le nuove generazioni. La pandemia ha fatto male alla scuola, per almeno due ragioni. La prima è sostanziale: ha aggravato tutti i mali esistenti del nostro sistema educativo. Ha accentuato l’abbandono dei più vulnerabili, ha bloccato per un anno i test invalsi, ha acuito il problema della gestione del personale (per cui ci troviamo con classi troppo numerose anche se abbiamo più docenti per studente di tutti i grandi paesi occidentali). La seconda ragione è reputazionale: mentre il giudizio degli italiani sul sistema sanitario cresceva, spinto dallo spirito di sacrificio di medici e infermieri, non altrettanto è successo con la scuola. Il numero di giorni di scuola persi tra i più alti in Europa, le polemiche sugli effetti della Didattica a distanza, le dure reazioni alle proposte di prolungare l’anno scolastico, hanno fatto perdere l’occasione di rilanciare la reputazione degli insegnanti nella società italiana. 

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Medici e infermieri sono stati gli eroi della pandemia. Il governo di Mario Draghi dovrebbe lavorare affinché gli insegnanti siano gli eroi della ripresa. Per farlo non basteranno più risorse. Serviranno soluzioni organizzative e strutturali. Serviranno riforme, a partire da una carriera docente che non appiattisca il percorso professionale di chi forma le nuove generazioni. La pandemia ha fatto male alla scuola, per almeno due ragioni. La prima è sostanziale: ha aggravato tutti i mali esistenti del nostro sistema educativo. Ha accentuato l’abbandono dei più vulnerabili, ha bloccato per un anno i test invalsi, ha acuito il problema della gestione del personale (per cui ci troviamo con classi troppo numerose anche se abbiamo più docenti per studente di tutti i grandi paesi occidentali). La seconda ragione è reputazionale: mentre il giudizio degli italiani sul sistema sanitario cresceva, spinto dallo spirito di sacrificio di medici e infermieri, non altrettanto è successo con la scuola. Il numero di giorni di scuola persi tra i più alti in Europa, le polemiche sugli effetti della Didattica a distanza, le dure reazioni alle proposte di prolungare l’anno scolastico, hanno fatto perdere l’occasione di rilanciare la reputazione degli insegnanti nella società italiana. 

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Per non sprecare un’altra occasione, occorre dare dinamismo e responsabilità alla professione docente. Serve fare in modo che diventare insegnante non sia più la terza scelta di un laureato. Dove l’accesso alla professione insegnante è facile come da noi, questa spesso diventa l’ultima spiaggia a cui ricorrere e la prima alternativa da abbandonare appena trovato qualcosa di meglio. La scarsa considerazione che la società ha verso gli insegnanti deriva anche dal fatto che in Italia la maggior parte delle persone crede che tutti possano insegnare. Ad oggi, il sistema di assunzione e crescita dei docenti dovrebbe essere totalmente ripensato, per il bene dei docenti stessi ma anche per l’istituzione che la scuola rappresenta. Basta alzare gli stipendi? No. Il governo, prima dell’atto di indirizzo di gennaio che ha aperto positivamente alla carriera docente, proponeva di farlo a pioggia sulla base della sola anzianità e del grado di scuola. Il risultato sarebbe misero: le paghe, per quanto grande sia l’investimento, salirebbero di poco, dovendosi spalmare su quasi 800.000 dipendenti. E come sempre si premierebbero ugualmente meritevoli e non, formati e ignoranti, faticatori e assenteisti.

 

Serve un colpo di reni. Serve uscire da un unicum: solo la scuola italiana è un’organizzazione con un dirigente e cento impiegati; solo nella scuola italiana un insegnante per crescere in retribuzione deve limitarsi a invecchiare (con gli scatti d’anzianità) o deve smettere di insegnare (facendo il preside). Il risultato è sotto gli occhi di tutti, nelle tabelle che annualmente lo studio Education at Glance dell’Oecd ci offre. I docenti italiani guadagnano poco in ingresso, ma pochissimo anche a seguire, perché non hanno progressione di carriere. Qualche dato: a seconda del grado di istruzione, un insegnante italiano inizia a guadagnare tra 22 e 28 mila euro lordi l’anno, e per avere un aumento di stipendio del 50 per cento impiega almeno 35 anni di servizio. In Germania già entro i primi 10 anni lo stipendio può aumentare del 16,1 per cento. Nei Paesi Bassi gli stipendi iniziali possono salire del 76 per cento nei primi 15 anni e l’aumento si attesta del 105 per cento negli anni successivi. Anche in Francia i salari sono in progressione più elevati: lo stipendio iniziale per un docente è di 26 mila euro lordi l’anno (mediamente più bassi di quelli italiani), ma a fine carriera si può arrivare a guadagnare fino a 46 mila euro.

 

Per crescere così non basta invecchiare: serve formarsi e partecipare alla crescita dei propri studenti e della propria scuola. L’assetto ideale di una carriera docente italiana non può nascere da un articolo di giornale, ma deve essere alimentato da un confronto che il prossimo ministro avrà il dovere di aprire, e i sindacati di alimentare. Ma che non può rimanere chiuso nelle stanze di un ministero. Deve nutrirsi delle esigenze delle famiglie e degli studenti, e essere guidato dalle voci della ricerca educativa. Qui ci limitiamo a fissare qualche paletto. Primo, la selettività, sia in ingresso sia nella crescita. Per rendere attrattiva la carriera, non serve una crescita lenta per tutti, ma la possibilità di premiare chi fa di più. Serve creare i quadri della scuola, una porzione di insegnanti che abbiano voglia di prendersi più responsabilità didattiche, formative, gestionali, e che quindi possano ambire a maggior retribuzione. Secondo paletto, la formazione continua: la carriera dovrà misurare e premiare gli insegnanti che continuano lungo tutta la carriera a migliorare le loro competenze educative. Rendere obbligatoria la formazione in servizio, come già fatto con la Buona Scuola di Renzi e riproposto nella bozza di Recovery Plan, non basta. Senza carriera la formazione diventa esercizio burocratico, o nella migliore delle ipotesi una semina speranzosa che solo pochi coglieranno.

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Terzo paletto, l’impatto effettivo sulla scuola di appartenenza. Il nostro sistema soffre enormemente dell’eccessiva mobilità dei docenti. Va invece premiata, anche economicamente, la fedeltà a una scuola (specie se complessa) e la capacità di muoverne i risultati formativi. Per un insegnante la continuità in una determinata classe è un fattore determinante che spinge a prendersi le proprie responsabilità, sia nei confronti dei propri studenti sia nei confronti dei genitori. L’occasione di mettere in campo un pensiero ambizioso sul docente del ventunesimo secolo è oggi a portata di mano. Il via possono darlo i sindacati, mettendo sul tavolo del negoziato sul rinnovo del contratto una proposta coraggiosa. Serve la vivacità intellettuale di rinunciare allo schema classico degli aumenti a pioggia. I nostri ragazzi hanno subito i problemi di una classe docente non formata, non valutata e comprensibilmente demotivata. E’ il momento di dare loro, in pochi anni, una classe docente scelta, misurata e pagata coerentemente all’alto ruolo che le si assegna in un’economia della conoscenza.

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