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Scuole aperte whatever it takes. E brava Azzolina, chi l’avrebbe mai detto?

Claudio Cerasa

Giusto ripartire da qui, perché si deve scaricare il meno possibile sui più giovani il peso della pandemia e perché in questi mesi studenti, insegnanti, presidi e persino genitori hanno dato il meglio di sé. E un ministro può tradire la cattiva politica del suo partito

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Azzolina, chi lo avrebbe mai detto? Tra le grandi differenze registrate in tutta Europa tra la gestione della prima ondata e la gestione della seconda ondata vi è una questione molto delicata e molto controversa che contraddistingue il vero tratto di discontinuità tra la primavera passata e l’autunno presente. Quel tratto di discontinuità non ha a che fare solo con un tema di carattere sanitario – oggi, seppure con molti problemi, siamo in grado di convivere con circa 30 mila contagi al giorno, in primavera i contagi al giorno erano circa 4 mila – ma ha a che fare con un tema di carattere culturale che coincide con una delle parole in grado di evocare il futuro quasi quanto il sogno dei vaccini: la scuola. La stragrande maggioranza dei paesi europei che ha scelto di riadottare delle forme più o meno severe di lockdown – Francia, Austria, Germania, Irlanda, Scozia – ha deciso anche di lasciare aperte le scuole dell’infanzia, le scuole primarie e le scuole equivalenti alle nostre medie. E i paesi che hanno adottato questa scelta non lo hanno fatto solo per questioni legate ai contagi tutto sommato ridotti che si sono registrati in questi mesi nelle scuole ma lo hanno fatto per questioni legate a una volontà politica interessante da studiare: provare a mettere un intero paese al servizio della formazione dei più giovani. 

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Azzolina, chi lo avrebbe mai detto? Tra le grandi differenze registrate in tutta Europa tra la gestione della prima ondata e la gestione della seconda ondata vi è una questione molto delicata e molto controversa che contraddistingue il vero tratto di discontinuità tra la primavera passata e l’autunno presente. Quel tratto di discontinuità non ha a che fare solo con un tema di carattere sanitario – oggi, seppure con molti problemi, siamo in grado di convivere con circa 30 mila contagi al giorno, in primavera i contagi al giorno erano circa 4 mila – ma ha a che fare con un tema di carattere culturale che coincide con una delle parole in grado di evocare il futuro quasi quanto il sogno dei vaccini: la scuola. La stragrande maggioranza dei paesi europei che ha scelto di riadottare delle forme più o meno severe di lockdown – Francia, Austria, Germania, Irlanda, Scozia – ha deciso anche di lasciare aperte le scuole dell’infanzia, le scuole primarie e le scuole equivalenti alle nostre medie. E i paesi che hanno adottato questa scelta non lo hanno fatto solo per questioni legate ai contagi tutto sommato ridotti che si sono registrati in questi mesi nelle scuole ma lo hanno fatto per questioni legate a una volontà politica interessante da studiare: provare a mettere un intero paese al servizio della formazione dei più giovani. 

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L’Italia, come sappiamo, si è contraddistinta nella prima fase della pandemia per essere stata una delle poche nazioni europee ad aver tenuto chiuse le scuole per mesi e oggi l’Italia si sta contraddistinguendo per essere uno dei molti paesi europei intenzionati a difendere fino a che sarà possibile l’apertura delle scuole. E per quanto possa essere difficile da accettare, il merito di questa scelta va in buona parte attribuito a uno dei ministri più criticati durante la prima fase della pandemia, il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, che dopo aver inutilmente passato l’estate a occuparsi insieme con il commissario Arcuri delle rotelle dei banchi, oggi all’interno del panorama spesso desolante del governo appare come uno dei pochi ministri interessati a scaricare il meno possibile sui più giovani il peso di questa pandemia. “In questo momento – ha detto la scorsa settimana Azzolina – gran parte della comunità scientifica ha più volte affermato che i rischi nella scuola sono veramente minimi e sono molto calcolati, grazie al lavoro che è stato fatto dalla nostra comunità scolastica. A scuola ci sono regole molto rigide: stare a scuola significa sicuramente stare in un luogo molto protetto dove le regole vengono rispettate, fuori dalla scuola non so quanto questo accada”.

 

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La questione a cui fa appello il ministro in fondo è intuitiva ed è grosso modo questa: tenere aperte le scuole, prima ancora che un tema di carattere culturale, è un tema di carattere sanitario, e non ci vuole molto a capire che, al di là del numero di contagi registrati nelle scuole, più un paese chiude e meno senso ha chiudere anche le scuole. Durante la presenza a scuola, in fondo, come ha ricordato con saggezza su questo giornale Agostino Miozzo, coordinatore del Cts, gli studenti hanno l’obbligo della mascherina, del distanziamento, dell’igiene e hanno anche educatori che li aiutano a comprendere il senso di queste misure di prevenzione a protezione di sé stessi e degli altri, inclusi i loro cari, e impedire l’insegnamento in presenza per alcune fasce di età in assenza di un lockdown vero e generale, cosa che Miozzo non auspica e neppure noi, prevede il rischio di avere ragazzi che, qualora la Dad non sia rigorosamente applicata, passino il loro tempo all’aperto, in luoghi in cui le possibilità di contagio sono infinitamente maggiori. Se poi, insiste Miozzo, il tema della chiusura delle scuole è quello di lasciare i ragazzi delle superiori a casa a causa del rischio derivante dal trasporto pubblico, sarebbe sufficiente fare quello che troppe scuole non fanno ancora, ovverosia “posticipare l’ingresso e l’uscita da scuola dei liceali di una o due ore, cosa che consentirebbe di non incidere sui picchi di traffico del trasporto locale”.

 

 

Seppure con molte difficoltà, seppure con molte inefficienze, seppure con molti problemi, la scuola italiana in questi mesi è riuscita sorprendentemente a tirare fuori il meglio degli insegnanti, il meglio dei presidi e forse persino il meglio dei genitori – tenere fuori dalla scuola i genitori costringendoli a fidarsi degli insegnanti è la più grande rivoluzione culturale mai registrata nella scuola negli ultimi decenni – e il tema della straordinaria flessibilità mostrata in questi mesi dagli operatori scolastici va collegato non solo alla bravura mostrata fino a oggi da presidi e insegnanti – capaci più dei sindacati e anche più dei genitori e dei politici di declinare al meglio l’autonomia scolastica e di spiegare al meglio agli alunni come sia possibile adattarsi a un mondo che cambia – ma anche a un altro dossier interessante presentato venerdì scorso da una importante agenzia dell’Unione europea, la European Commission’s science and knowledge service. Un dossier che, rispetto al mondo della scuola, ha illuminato un dato importante di questa pandemia: la capacità degli studenti e degli insegnanti di trasformare i problemi del lockdown in un’opportunità di crescita. E per quanto possa essere difficile crederlo, il sondaggio realizzato dall’Ue in undici paesi europei durante il primo lockdown racconta una verità interessante da approfondire: tra i paesi in cui i genitori hanno notato una grande capacità della scuola e dei bambini di adattarsi al nuovo mondo l’Italia, pur avendo un gap digitale forte rispetto a molti altri stati europei, spicca tra i paesi con i genitori più soddisfatti e con i bambini che hanno mostrato atteggiamenti particolarmente positivi verso le attività di apprendimento online (qui la ricerca).

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La scuola ha mostrato di adattarsi ai cambiamenti del paese con una velocità e una flessibilità difficili da immaginare fino a qualche tempo fa. E la sorpresa diventa doppia perché ad aver contribuito almeno parzialmente a questa nuova stagione di flessibilità è stata un ministro appartenente a un partito che ha sempre fatto dell’immobilismo l’unica forma di legalità consentita. Combattere per avere le scuole aperte significa naturalmente correre un rischio, il rischio che qualcosa possa andare storto, ma accettare di correre un rischio è la negazione di un principio populista ancora molto diffuso anche nel grillismo in base al quale l’unico modo per non sbagliare qualcosa, per non rischiare, è semplicemente non fare nulla, far cadere la penna sul tavolo, non decidere e fermare tutto.

 

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Le Olimpiadi non si fanno perché è troppo rischioso, gli appalti non si velocizzano perché velocizzarli comporta un rischio, la burocrazia non si snellisce perché avere meno controllo comporta un rischio troppo alto, la giustizia non si semplifica perché magari qualcuno poi la fa franca e così via. Accettare il rischio che qualcosa possa andare storto significa anche mettersi in gioco e provare a trovare non solo capri espiatori ma anche qualche soluzione e se vogliamo nei prossimi mesi la vera sfida delle scuole non sarà capire cosa fare con i banchi a rotelle ma sarà capire in che modo trasformare la scuola in un modello per provare a governare la pandemia con ordine e senza troppa isteria. Per farlo, a proposito di rischio, varrebbe la pena di ascoltare il suggerimento sempre di Miozzo, che proprio su questo giornale ha spiegato in che modo la scuola potrebbe diventare un modello per il resto del paese: “Il ‘rischio calcolato’ del contagio scolastico potrebbe essere adeguatamente monitorato con la disponibilità di effettuare ai ragazzi tamponi rapidi per identificare i possibili contagi, isolarli, e consentire agli altri di continuare le lezioni. Purtroppo è difficile dire che la scuola non è pericolosa, perché ci sono studi che sostengono che l’aumento dei contagi avviene anche in ambito scolastico, anche se non è chiaro se il contagio è prescolastico o post scolastico. Il punto però è un altro: non è vedere se la scuola è pericolosa o meno ma è attivare tutte quelle risorse necessarie a identificare, monitorare, isolare tempestivamente i positivi. Essere in grado di fare tamponi a tappeto in tempo reale e dare le corrette indicazioni. La scuola è un luogo di socialità e di formazione ma è anche un luogo molto controllato dove i rischi comunque si riducono. L’Italia, forse, dovrebbe ripartire da qui”. Azzolina, chi lo avrebbe mai detto?

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