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Il nostro tirocinio di follia

Date tempo a noi prof., dobbiamo costruire un nuovo modo di insegnare

Stefania Auci

Il ritorno a scuola nel silenzio delle aule. La normalità ha bisogno di tempo per diventare tale

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In questi ultimi mesi, nuovi gesti si sono affiancati a quelli che formavano la routine delle mie (delle nostre) giornate. Il mobile all’ingresso di casa mia, fino a qualche tempo fa affollato da foto incorniciate in mezzo alle quali s’insinuava uno svuotatasche, adesso ospita, asettico e vagamente inquietante, una confezione di mascherine, una di guanti di plastica e flaconi di disinfettante. Prendere una mascherina, un paio di guanti e un flacone prima di uscire è diventata per tutta la famiglia una cosa meccanica, come mettersi le scarpe o afferrare la borsa, o lo zaino. La nuova normalità.

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In questi ultimi mesi, nuovi gesti si sono affiancati a quelli che formavano la routine delle mie (delle nostre) giornate. Il mobile all’ingresso di casa mia, fino a qualche tempo fa affollato da foto incorniciate in mezzo alle quali s’insinuava uno svuotatasche, adesso ospita, asettico e vagamente inquietante, una confezione di mascherine, una di guanti di plastica e flaconi di disinfettante. Prendere una mascherina, un paio di guanti e un flacone prima di uscire è diventata per tutta la famiglia una cosa meccanica, come mettersi le scarpe o afferrare la borsa, o lo zaino. La nuova normalità.

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Ma la normalità ha bisogno di tempo per diventare tale. E qualche giorno fa, quando sono uscita di casa e, dopo più di sei mesi di assenza, sono entrata nell’Istituto alberghiero di Palermo in cui insegno, ho capito di aver avuto sì tanto tempo per immaginare quel momento, ma pochissimo per dargli una parvenza di realtà. Avevo percorso con la memoria quei corridoi decine di volte, recuperando i suoni e gli odori: le grida dei ragazzi sulle scale, le porte che sbattevano, il trillo della campanella, l’aroma di qualche pietanza che proveniva dai laboratori di cucina o della sala-bar. E invece ho trovato ad aspettarmi il silenzio e il sentore invadente di disinfettante. Mi sono ritrovata a camminare da un’aula all’altra, a passare davanti alle grandi cucine deserte, ascoltando solo l’eco dei passi. E’ stato come rivedere il volto di una persona cara dopo una lunga malattia, ritrovarne i lineamenti noti ma alterati dalla sofferenza.

  

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Quando ci si confronta con spazi comuni – corridoi, atri, palestre, nel mio caso persino la sala professori – il disorientamento si amplifica, diventa una specie di versione rovesciata del Modulor di Le Corbusier: un’architettura pensata per avere al centro l’essere umano si trasforma in un luogo in cui l’individuo non ha più ragione di essere se non come elemento di un sistema in equilibrio precario. Contano soltanto la distanza imposta dai cartelli, i punti segnati sul pavimento per “mantenere la distanza di sicurezza”, le frecce che indicano la direzione di entrata e quella di uscita. L’altro – il bidello, il collega, l’alunno – diventa quasi un estraneo di cui diffidare, quasi un nemico da cui guardarsi. I passi contati tra noi e gli altri, come in un duello.

 

E quando ci si scrolla di dosso la sensazione di diffidenza, quando si prova a fare il proprio lavoro – a insegnare – il disorientamento non si attenua. E non è tanto il fatto che siamo comunque tenuti a ripetere mille volte come stare in classe, come mantenere la giusta distanza, quando mettere la mascherina e come usare il gel disinfettante. E neppure che non si possa neanche pensare – per il momento – a fare un’assemblea d’istituto, a organizzare gite scolastiche o a riprendere una ricreazione “libera”, cioè nei corridoi e non in aula (seduto ognuno al proprio banco). No, è un disorientamento che balena negli sguardi dei ragazzi, e che rivela una strana mescolanza di emozioni: dal fastidio per le continue raccomandazioni sul comportamento da tenere alla noia, dall’insofferenza alla “disperazione furibonda e renitente” per dirla con Leopardi. Anche prima era così, si potrebbe dire. Gli adolescenti sono inquieti e provocatori per natura.

  

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Ma la mancanza di contatto quotidiano con i compagni e con gli insegnanti, la privazione improvvisa dell’esperienza della scuola come luogo in cui realizzarsi e in cui si può essere se stessi, insieme con l’effetto straniante della didattica a distanza hanno finito per rendere i ragazzi più adulti e più immaturi nello stesso tempo: hanno attraversato un momento “storico”, ne hanno percepito l’assoluta incertezza, magari ne hanno anche assorbito l’angoscia, e hanno sperimentato l’incapacità degli adulti di fare i conti con le loro paure. E adesso – sembrano chiedersi – cosa dovremmo fare? Dovremmo recuperare questa normalità così anomala, così, solo perché ci ritroviamo in un ambiente familiare? Non possiamo, ci vuole tempo.

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E tempo chiediamo anche noi insegnanti. Lo chiediamo a tutti – agli alunni confusi, ai genitori che vorrebbero far tornare al suo posto almeno questo tassello della loro vita – e anche a noi stessi. Anche qui, non soltanto perché il collegio docenti o il consiglio di istituto saranno ancora per un po’ una manciata di caselle sul monitor del nostro computer. E neanche perché quel flusso di chiacchiere e di scambi che rendeva la sala professori un luogo molto più importante di quanto si creda sarà precluso o per lo meno limitato. Chiediamo tempo perché sappiamo di dover costruire un nuovo modo di insegnare. Un modo che non tradisca l’essenza del nostro lavoro – il passaggio della conoscenza, la capacità di far appassionare alla propria materia, di aiutare la nascita dello spirito critico –, né le sue modalità – dalle semplici parole a tutte le varie forme di linguaggio non verbale – e che, nel contempo, esplori nuovi sentieri e tracci un percorso comune, condiviso e condivisibile, sbagliando forse, perdendo del tempo, ma comunque mettendosi in gioco. “Se si vive con i pazzi, bisogna fare il proprio tirocinio di follia”, dice Alexandre Dumas nel Conte di Montecristo. Ecco, lasciateci il tempo di fare il nostro tirocinio di follia. Anche davanti all’occhio cieco della videocamera di un computer.

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