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Meno sindacati, più scuola

La pandemia ha costretto la scuola a fare passi verso il futuro. Ma cosa vuol dire innovare? E cosa vuol dire combattere contro il conservatorismo sindacale? Un girotondo di idee

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Un sindacato con la testa sulle spalle, ha scritto ieri il direttore del Foglio, avrebbe trasformato il pit stop generato dalla pandemia in una grande occasione per occuparsi finalmente del diritto allo studio degli studenti e per offrire agli insegnanti e ai ragazzi strumenti e competenze per fare quello che potrebbe essere necessario quando la scuola riaprirà: fare dell’insegnamento a distanza e della didattica d’emergenza non un’attività legata allo spirito volontaristico degli insegnanti ma un valore aggiunto e integrativo della scuola. La pandemia ha costretto il mondo della scuola a fare passi decisi verso il futuro ma come può fare la scuola passi in avanti se è ostaggio di un sindacato interessato più alla tutela dei propri iscritti che alla tutela della scuola? Abbiamo coinvolto nella nostra riflessione alcuni osservatori competenti su questo tema (servendoci anche di alcuni amici che animano il gruppo “M&M - Idee per un Paese migliore”) e ne è venuto fuori questo piccolo girotondo.

  

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La frattura tra scuola reale e scuola percepita

“Lo stato sembra indicare agli insegnanti la strada ideale da seguire distillando poi queste dichiarazioni in normative bizantine”

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Lo scollamento fra insegnanti e sindacati su cui ha puntato il dito Claudio Cerasa nella prima pagina di ieri è forse sintomo di una frattura più profonda, quella fra scuola reale e scuola percepita. Se quasi tutti gli insegnanti hanno bellamente ignorato lo sciopero della ventitreesima ora, quello platonicamente proclamato dai sindacati per l’ultimo giorno di scuola, è perché vedono ormai la propria concreta attività in contrasto con le linee ideologiche, talvolta desuete, caparbiamente seguite dalle sigle che dovrebbero rappresentarli. Questa frattura causa sgradevoli ambiguità. Da un lato gli insegnanti maturano la sensazione che del proprio effettivo lavorio quotidiano importi ben poco ai sindacati, i quali spendono invece una mole ingente dei propri sforzi in battaglie di retroguardia, come ad esempio quella attuale sulla sanatoria dei precari o quella di qualche anno fa contro le famose “deportazioni” di docenti al nord: pare che la massima ambizione dei sindacati sia mettere toppe all’apparenza egualitaria della scuola, anziché cogliere lo spirito della direzione in cui si sta evolvendo e contribuire a renderla il più possibile efficiente e, diciamolo, felice. Dall’altro lato lo stato sembra indicare agli insegnanti la strada ideale che la scuola deve seguire (didattica inclusiva! sicurezza! coinvolgimento del territorio!) distillando poi queste dichiarazioni eclatanti in normative bizantine che sta alle singole scuole – ossia alla singola iniziativa di presidi e vicepresidi capaci, di insegnanti volenterosi – tradurre in italiano e trasformare, con pragmatismo e buon senso, in attività concreta affinché la macchina non si fermi. Quest’implicita fiducia cieca, questo sottintendere che alla fine gli insegnanti si arrangeranno in qualche modo (come per la didattica a distanza), sembra la controprova non di un disinteresse da parte dello stato, bensì di una timidezza preoccupata di non scontentare nessuno, una strategia da viandante che si finge morto fino a che l’orso non è andato via. Ma se non se ne andasse mai?

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Antonio Gurrado

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Superare un blocco: bloccarsi per paura di sbagliare

Sono tanti i temi che l’articolo del direttore affronta. Concordo sul fatto che uno dei grossi problemi della scuola italiana sia quello di non essere concepita e organizzata sulle esigenze dell’alunno ma su altre mille, presunte, necessità. In primis quelle degli insegnanti. I sindacati hanno esasperato ideologicamente questa situazione creando le mostruose distorsioni che oggi fiaccano il nostro sistema d’istruzione. Centro dell’azione educativa è il discente e l’organizzazione scuola – dall’orario scolastico, sino al reclutamento, passando per i percorsi didattici – deve strutturarsi su questa verità e sull’unicità, di biblica memoria, dell’alunno. Il problema del riaprire o no le scuole però non mi sembra secondario. Un articolo dell’Economist del 2 maggio titolava così: “Open schools first”. Con un gruppo di docenti abbiamo provato a raccontarlo in una newsletter mensile nata proprio ieri dal titolo “La classe non è acqua” (https://bit.ly/3dRXTcg). Aprire o non riaprire non è una questione partitica ma nasconde una posizione di fondo nel modo di approcciarsi alla realtà (politica, cultura, vita): bloccarsi per paura di sbagliare. Ma questa non è mai la soluzione. La soluzione è sempre partire da quel che accade. E qui concordo nuovamente con Cerasa. Quanto determinante sia “l’azione” di un docente ora è chiaro a tutti. “Quanta passione – cito ancora la newsletter – per l’altro ci sia dietro ogni gesto, anche virtuale”. Quindi benissimo implementare la preparazione digitale dell’insegnante e le modalità di insegnamento a distanza. Ottimo sarebbe stato aggiornare e formare i docenti anche sulle loro discipline. Perché la scuola ha bisogno di passione e mestiere.

Mario Leone

 

Nella ricostruzione c’è spazio per un altro sindacato

In uno dei suoi ultimi editoriali Claudio Cerasa ha toccato un nervo scoperto: il rapporto tra sindacati e scuola. E’ evidente che la formazione sia fondamentale per un qualsiasi paese che abbia l’ambizione di avere un futuro. Quando cerchiamo di concepire il futuro, però, restiamo spesso prigionieri di grumi di potere che proprio sulla scuola stanno creando contraddizioni con il proprio stesso ruolo. Possono essere i sindacati tra le vittime della discontinuità che l’epidemia ha prodotto. Si sta creando, anzi, lo spazio per un sindacato di tipo diverso, adeguato a un secolo nuovo. Gli Stati generali di Conte dovrebbero tenerne conto, quando cercheranno idee nuove. Che i sindacati siano entrati – sulla scuola – in contraddizione con sé stessi, è dimostrato dallo sciopero di lunedì 8 giugno che, come richiamato da Cerasa, ha, del resto, visto il coinvolgimento di un timido 0,49 per cento degli insegnanti. La scelta di aver riaperto i parrucchieri e non la scuola la dice lunga sulle priorità che il paese propone. La vicenda è, del resto, solo la punta dell’iceberg di un sistema che spende in pensioni quattro volte e mezzo più di quanto investiamo in educazione e che, in questa maniera, si sta letteralmente bruciando il futuro. Il think tank Vision, sulla base dei dati Ocse-Pisa e della Banca mondiale, dimostra chiaramente come l’unica scelta di politica economica efficace per un paese che vuole sicuramente crescere nel medio-lungo periodo sia investire nelle competenze dei propri quindicenni. A vedere le prese di posizione di questi mesi sembrano proprio i sindacati essere diventati l’ostacolo all’attuazione di quel principio di eguaglianza e di diritto/dovere allo studio che è alla base della Costituzione dalla quale i sindacati stessi traggono la propria legittimità. Ciò apre contraddizioni importanti che possono, letteralmente, mettere il sindacato contro la propria stessa natura. E del resto, come è possibile che la scuola sia il comparto più sindacalizzato (70 per cento contro il 30 per cento tra i metalmeccanici secondo le stime Vision sui dati delle principali sigle sindacali nazionali) e allo stesso tempo quello con gli insegnanti meno pagati d’Europa? Quanta forza rimane a un sindacato che nasce dalle lotte studentesche e operaie che portarono allo Statuto del 1970, e che si trova, ora, oggettivamente contro gli interessi di milioni di studenti e di genitori-lavoratori? Il modello sociale che intravedeva lo Statuto dei lavoratori ha mostrato che i 50 anni (compiuti il 20 maggio scorso) si fanno sentire tutti. Viviamo in un’altra realtà, nella quale l’innovazione – anche tecnologica – detta i tempi della modernità e tutte le buone intenzioni e i valori che alcune realtà esprimevano (come appunto i sindacati) sono rimasti incompiuti. Nel nostro secolo, il lavoro non diminuisce ma, riducendosene la domanda, le imprese lo acquisiscono a minor costo. Una delle conseguenze è che siamo in un mondo nel quale la quota di ricchezza nazionale assorbita dal lavoro diminuisce a favore di quella del capitale. Secondo Vision, sulla base dei dati Ilo, nelle quattro principali economie europee – Italia, Uk, Germania e Francia – tra il 1983 e il 2018 la percentuale dei lavoratori sindacalizzati è in discesa costante. E inoltre, sempre secondo Vision, sembrerebbe che un terzo degli iscritti ai sindacati siano pensionati. Così riesce abbastanza difficile capire come possa davvero un sindacato garantire la difesa efficace dei “lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”. E’ proprio a scuola però che un modello sta andando in crisi. Tornare ad avere coscienza di sé deve essere un imperativo, e comprendere come quegli insegnanti che lavorano e producono più di quello che gli viene richiesto non sono da ammonire, ma da prendere come esempio perché hanno ben compreso lo spirito che dovrebbe avere un settore strategico come quello dell’istruzione. Non si tratta di semplici scelte economiche, che poi nel lungo periodo sono anche fallimentari, ma delle questioni etiche alle quali non possiamo sottrarci se non vogliamo somigliare sempre di più a quelle macchine che producono per noi. Una nuova struttura di sindacato, nel settore della scuola, sembra necessaria per traghettare il nostro paese nel nuovo millennio in maniera efficace.

Riccardo Scarfato, Associate - Vision Think Tank

 

Che cosa vuol dire provare ad avere scuole aperte

“Una buona notizia: le risorse ci sono e hanno un nome suggestivo: Next Generation Eu. La comunità si ritrova partendo dalle scuole”

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Prime buone notizie dalla pandemia. La prima è che, come ricordato ieri dal Foglio, la scuola è diventata improvvisamente importante. Un tema di conciliazione e di lavoro, soprattutto femminile, ma anche di giustizia sociale e di speranza nel futuro. La seconda è l’impegno appassionato di tanti docenti che, entrando virtualmente nelle case, hanno smentito ampiamente l’immagine del dipendente pubblico legato agli adempimenti e invece rilanciato la sostanza del tema formativo ed educativo. La terza è che i bambini non sono tutti uguali e a età diverse corrisponde un pensiero educativo specifico. Le linee del ministero sui Legami educativi a distanza per i più piccoli hanno sottolineato la necessità di costruire il domani proprio partendo dall’infanzia, che solo con Dlg 65/2017 che ha riconosciuto per la fascia 0-6 un percorso di sostegno, ancora non sufficiente, coinvolgendo le scuole paritarie e i soggetti diversi gestori. L’ultima buona notizia è che le risorse ci sono e hanno un nome suggestivo: “Next Generation Eu”. La ripresa della fiducia dei cittadini parte dai territori. Come succede, lo sappiamo bene, dopo il terremoto: la comunità si ritrova e si riconosce partendo dalle scuole. Così è avvenuto in Abruzzo, così è avvenuto in Emilia. Anche oggi serve un piano straordinario. Che valorizzi le competenze degli enti locali e di tutta la “comunità educante”. Le associazioni, il terzo settore, le scuole. E il mondo del lavoro. Abbiamo sentito parlare di scuola nelle biblioteche e nei musei. Di outdoor education. Semplici ragioni geometriche ci dicono che non è la soluzione al problema sanitario. Ma il percorso didattico potrà rivoluzionarsi e le “scuole aperte” di cui da tempo parliamo anche a Milano potranno diventare realtà, ma le responsabilità devono essere chiare: l’istruzione è il fondamento stesso della democrazia e non potrà essere delegata, a rischio di accrescere le differenza tra grandi e piccoli, tra centro e periferia, tra nord e sud. Il tema sanitario per gli ambienti dell’educazione va affrontato a livello nazionale, per non creare ambiguità. Le risorse vanno previste per il futuro. Per l’edilizia scolastica, perché non si arretri dai programmi già avviati per il rinnovamento degli ambienti di apprendimento. Per il sostegno all’infanzia, perché la povertà educativa non perpetui la povertà economica; le disuguaglianze non possono essere trasmesse con il codice genetico. Per valorizzare gli insegnanti, quelli bravi, che non potranno continuare a giustificare anche tutti quelli che preferiscono restare protetti e non mettersi in gioco. Non si torna indietro, ma si può e si deve fare un passo avanti.

Laura Galimbertiassessora all’Educazione e Istruzione al comune di Milano

 

L’innovazione, senza retorica, è l’anticorpo giusto per la scuola

Servono “una formazione continua all’innovazione come motore della professione docente, un’idea non povera della tecnologia”

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Se vi è un beneficio dell’emergenza Covid, è stato indubbiamente quello di aver reso la didattica scolastica trasparente alle famiglie italiane. Didattica a distanza e lockdown hanno dato una vista privilegiata di ciò che prima era spesso chiuso nelle mura della didattica in classe. Il risultato di questa osservazione è una evidente disparità tra un buon numero di docenti che mette in pratica da anni un rinnovamento didattico fortemente arricchito dalle tecnologie, e un numero ancora piuttosto elevato di docenti lontani anni luce da una didattica moderna ed efficace. Eppure negli ultimi anni non sono mancate le innovazioni di policy, né le risorse. Dal 2015 in ogni singola scuola è avvenuto un cambio organizzativo, con l’introduzione di un team per l’innovazione coordinato da un animatore digitale, che ogni anno ha avuto la possibilità di progettare l’innovazione delle proprie pratiche. Sono state date risorse per strumenti e formazione attraverso, per citarne alcuni, il Piano nazionale scuola digitale, il Piano formazione docenti e la Carta del docente. L’opportunità negli ultimi cinque anni è stata colta, ma solo in parte: questo ha causato negli ultimi mesi di emergenza una corsa frettolosa e spesso un po’ maldestra alla formazione sulle tecnologie didattiche, con un parziale ostracismo dei sindacati al grido di “docenti costretti al digitale”.

 

Sono gli stessi sindacati però a non aver colto l’opportunità di promuovere i finanziamenti per l’innovazione e la formazione, fondamentali per collocare la professione docente nel 21esimo secolo in un’ottica di crescita professionale.

 

Si sarebbe invece dovuta cogliere con forza l’opportunità di spingere sulla formazione e sulla crescita del corpo docente, caratteristica essenziale di un sistema educativo in salute. Questa resistenza all’innovazione si è portata dietro un ulteriore problema: un’idea pericolosamente antica della tecnologia, sviluppata nel dibattito pubblico e sindacale. La tecnologia di per sé non porta innovazione. Usare un device solo come se fosse un telefono, o attendersi che “fare scuola” significhi semplicemente un numero “adeguato” di videolezioni, tradisce un malinteso forte. Non si tratta di tecno-entusiasmo, né di tecno-scetticismo: serve evitare che l’innovazione della didattica sia assoggettata alle funzioni “povere” della tecnologia, e che il corpo docente sia assopito in una comfort-zone che non è concessa a nessuna professione nel paese. Accompagnare i docenti per non subire il cambiamento digitale e sfruttare in pieno le potenzialità degli ambienti di apprendimento aumentati dalla tecnologia diventa quindi necessario. In questa idea di arricchimento progressivo della didattica, serve un ulteriore elemento: uno stretto legame con le evidenze di efficacia di questo arricchimento. Scienze cognitive e neuroscienze, ad esempio, hanno fatto passi da gigante, spinte da forti evidenze sui meccanismi dell’apprendimento efficace. La didattica del 21esimo secolo passa anche da questo. Una formazione intenzionale, continua, esperienziale che sia un percorso di ricerca continua all’innovazione didattica come motore della professione docente. Un’idea non povera della tecnologia e della sua capacità di arricchire l’educazione. Un movimento intenzionale a favore dell’evidence-based learning, ovvero alla connessione tra evidenze scientifiche ed efficacia degli apprendimenti. Senza questi elementi, il nostro sistema educativo continuerà a produrre quello che Invalsi, senza troppo candore, ha definito “dispersione scolastica implicita”. In parole più semplici, studenti senza futuro.

Damien Lanfrey e Donatella Solda

  

Non si cambia scuola senza cambiare il modello di insegnanti

Claudio Cerasa, nel suo editoriale dell’11 giugno, coglie due elementi importanti: 1) dopo un inizio promettente, nel quale si è provato a sfruttare l’emergenza per disegnare una scuola diversa per la ripartenza, si è ripiegato (non solo per responsabilità dei sindacati, ma anche della politica) su richieste e proposte che ricalcano sostanzialmente le rivendicazioni e le battaglie di sempre e nel solito dibattito sulla necessità di nuove assunzioni; 2) la scuola non merita di essere rappresentata così. Il primo aspetto è una conseguenza del secondo e non varrebbe la pena tornarci, se non per sottolineare una criticità. La richiesta di nuove assunzioni è reazione talmente pavloviana, che ci si dimentica a volte di fondarla su elementi concreti, ma in questo caso la dimenticanza è clamorosa: quei docenti in gran parte del centro-nord non ci sono. Non ci sono, quindi, dove è più alto il numero di studenti per classe e maggiore il rischio di una nuova chiusura in caso di ritorno del virus. Già oggi, infatti, le graduatorie (anche quelle dei precari) sono in gran parte esaurite e si ricorre a persone che non sono in nessuna graduatoria (la cosiddetta Mad, messa a disposizione), per la primaria anche a laureandi. Se la scuola avesse una rappresentanza, sindacale e politica, all’altezza, si discuterebbe meno (e meglio), di tutto questo e molto di più (per limitarsi alle politiche per il personale) di carriere, di formazione iniziale e in servizio, delle caratteristiche della professione docente (e dirigente), di valutazione. Si discuterebbe di una scuola che ha, rispetto a venti o trenta anni fa, finalità in parte diverse e certamente più ampie. Il riferimento temporale non è casuale: la scuola di (quando va bene) trent’anni fa è la scuola che hanno fatto quelli che ne parlano, quelli che la governano e quelli che la rappresentano. In alcuni casi l’unica che hanno conosciuto. Vale per tutte le componenti, non solo per gli insegnanti. Per quel che riguarda i docenti, c’è un elemento in più: nessuno porta avanti una riflessione su cosa fondare (rifondare?) la propria professione. Senza questa riflessione, il “recupero del ruolo sociale del docente” resterà un auspicio. Le poche associazioni professionali sopravvissute all’età dell’oro culminata nella conferenza sulla scuola voluta nel 1990 dall’allora ministro Mattarella, non sono quasi mai presenti nel dibattito pubblico, se non per accodarsi alle richieste sindacali. Invece è proprio questa la voce che potrebbe garantire quel salto di qualità così necessario. Chi ha avuto responsabilità di governo sa quanto sia pesata sull’ultima stagione di riforme la mancanza di una interlocuzione con corpi intermedi che fossero portatori di una visione, anche alternativa, ma comunque solida. Il ministro Coppino, relazionando al re Vittorio Emanuele II, raccomandava di “non mutare né troppo, né spesso” le norme sull’istruzione, perché “la durata occorre a formare le consuetudini, senza cui non valgono le leggi”. Nessuna riforma potrà mai diventare consuetudine se non camminerà sulle gambe della comunità che si aggrega attorno alle nostre scuole. Tutte le grandi innovazioni sono nate così. Dalle richieste di una minoranza, certo, ma le avanguardie sono sempre minoranza. Una minoranza che non rinuncia a organizzarsi e a portare il proprio contributo di riflessione e – non scandalizzi il ricorso a una parola desueta – di lotta.

Marco Campione

 

Cambiare la scuola è urgente, ma non con il modello del sei politico

L’elenco sarebbe lungo, probabilmente molto più di quanto sia emerso dalle cronache della pandemia. L’insegnante di matematica di Orbassolo, che già nei primi giorni di lockdown ha tenuto lezione su Facebook, quella di Prato che ha riunito i suoi bambini in un parco leggendo loro delle favole. Non so se queste insegnanti hanno partecipato allo sciopero di lunedì scorso (è statisticamente piuttosto improbabile…): quello che so è che gran parte del nostro sistema di istruzione e formazione si regge sullo spirito di servizio e sulle qualità personali di insegnanti e dirigenti come loro, che sono in gran parte migliori dei loro sindacati e anche di gran parte delle classi dirigenti di questo Paese. Sarebbe facile oggi prendersela solo con i sindacati: chi ha provato a introdurre elementi di riforma e meritocrazia nell’istruzione, conosce bene il potere di blocco dei “lavoratori della conoscenza” della Cgil, giusto per fare un esempio. Occorre però in un momento come questo un surplus di onestà intellettuale: la scuola è la fucina di futuro della nostra società e mai come in questo momento il livello del dibattito pubblico su queste tematiche è apparso così drammaticamente inadeguato. I nostri giovani hanno perso – causa Covid – metà anno scolastico; molti di loro vivranno come una pura formalità gli esami di fine ciclo; tappe importanti del processo formativo sono venute meno e non torneranno.

 

Una stagione in parte menomata a fronte della quale la mitica società civile – che è composta anche dai genitori – è apparsa indifferente, più attenta alla ripartenza del campionato di calcio che della scuola; la politica dal canto suo ha saputo al massimo dividersi su temi collaterali, impugnando la bandiera della prudenza piuttosto che quella del rientro a scuola a ogni costo, o litigando sulle poco decorose modalità del concorso per l’eterna infornata dei precari. L’emergenza coronavirus dunque ha messo a nudo anche la scarsa rilevanza che collettivamente il paese attribuisce al nostro sistema educativo. E ciò stride con il recupero di immagine e considerazione del tema delle competenze. L’epoca breve del grillismo di lotta, quello per il quale i professori, gli scienziati erano anch’essi parte della “casta”, è stata chiusa dall’ultimo battito di ali un pipistrello della provincia di Wuhan. Non prima però di averci regalato un grillismo di governo che ha quasi sposato il buon vecchio “sei politico” e non ha saputo andare oltre un esame a risposta aperta per una nuova stabilizzazione a scapito del merito. Ancora non ha saputo programmare né un’idonea riapertura a settembre, né una affidabile organizzazione per lo svolgimento degli esami di maturità. Non è un caso dunque se anche nella scelta della data per la celebrazione della prossima tornata elettorale (quella che doveva tenersi in primavera), il governo ha ben volentieri seguito l’indicazione dei tecnici (per l’appunto dei professori) collocando i comizi elettorali nella data più ingombrante possibile per la riapertura dell’anno scolastico. Tutto complotta contro il futuro dei nostri figli. Sarebbe ora di parlarne.

Mariastella Gelminicapogruppo di Forza Italia al Senato ed ex ministro dell’Istruzione

 

Ricostruire la scuola con il modello della maestra di Prato

“Inadeguato il livello del dibattito pubblico su questi temi”. “La scuola dovrà essere ‘diffusa’ nella città: nuovi spazi più che il plexiglas”

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La scuola, come abbiamo denunciato fino allo sfinimento, è stata la prima a chiudere e sarà l’ultima a riaprire. In un paese che tenta di evadere dal lockdown, nel difficile tentativo di liberarsi dalle conseguenze psicologiche di una chiusura totale di oltre due mesi, la scuola è quella che tornerà a fare la scuola soltanto a settembre, dopo i bar, gli stabilimenti balneari, le discoteche. Come se dalle scuole non dipendesse tutto della vita di un paese: la solidità di una comunità, il suo equilibrio, le relazioni sociali, la crescita stessa di una nazione. Come se potessimo fare a meno delle scuole. Talmente non si può fare a meno delle scuole che sono tornati i maestri “di strada”: in una versione aggiornata ai tempi del Covid abbiamo visto in questi mesi insegnanti che si chiamano maestra Francesca, una che prende i suoi bambini e li porta a fare lezione al parco pur di dare continuità alla sua classe o che si chiamano prof. Cristina e continuano a fare didattica online nonostante il contratto scaduto. Roba da far gridare uno zelante sindacalista, che infatti ha gridato, ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato. Perché la scuola non è qualcosa che puoi impedire di farla: è pane quotidiano delle famiglie, è giornata, orologio, è bussola e lavoro dei ragazzi. E’ risorsa inestimabile per la crescita equilibrata e paritaria di una comunità, è ascensore sociale e demografico, è essenziale alla crescita e allo sviluppo dei cittadini di domani. Ci siamo presi insulti quando dicevamo che le scuole andavano riaperte prima della fine dell’anno, appena la curva del contagio lo avesse reso possibile: adesso la maggioranza degli italiani ci dà ragione. Adesso stiamo portando avanti una battaglia che farà infuriare magari qualche altro sindacalista impegnato a difendere gli insegnanti dalla loro stessa passione, quella che abbiamo visto nelle ore passate online con gli studenti, in un balzo in avanti tecnologico che fino a ieri sembrava irrealizzabile. Una battaglia che dice una cosa molto ma molto semplice: per riaprire la scuola a settembre non dovrete guardare l’orologio, né il luogo. La scuola dovrà essere flessibile, con buona pace di tutti: gli orari dovranno essere ampi, per consentire agli alunni di turnare sulle classi e gli stessi luoghi dove fare lezione dovranno moltiplicarsi in una sorta di estensione della scuola oltre il perimetro consueto. La scuola dovrà essere “diffusa” nella città: se vogliamo il distanziamento tra studenti più che il plexiglas ci vogliono nuovi spazi. Spazi da riqualificare e costruire dentro le scuole, con i cantieri aperti a burocrazia zero grazie a un nostro provvedimento che conferisce ai sindaci il potere dei commissari, e spazi da reperire nelle città: teatri, cinema, sale comunali e parchi, per tornare all’esempio della maestra Francesca di Prato, finché la stagione lo consentirà. Tutto ci serve tranne gli scioperi al tempo del Covid, al primo posto adesso c’è solo il diritto allo studio: molti ragazzi, soprattutto i più fragili per diversi motivi, hanno perso quasi un anno. Adesso sono i loro diritti quelli che vengono prima.

Davide Faraonecapogruppo di Italia viva al Senato ed ex sottosegretario all’Istruzione

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