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Il futuro (da) remoto dell’università

Maurizio Crippa

L’e-learning oltre il Covid, il destino della universitas, gli studenti

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“Il mondo cambia e noi cambiamo con il mondo”

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“Il mondo cambia e noi cambiamo con il mondo”

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(Albus Silente, preside di Hogwarts)

  

Milano. “Luogo di studi aperto a tutti”, è in sintesi la miglior trasposizione della parola medioevale universitas. Una comunità, una corporazione di maestri o scolari, o per aggiornare a oggi un network, in cui professori e studenti condividono la ricerca del sapere. E nei casi più luminosi convivono negli stessi college, nello stesso campus. Se c’è un luogo iconico al mondo di questa secolare ed eletta comunità di menti (ma l’espressione “città delle guglie sognanti” appartiene a The other place), è l’Università di Cambridge. Perché la conoscenza vera, il deep learning, nella cultura occidentale è molto più della semplice istruzione. Per la maggior parte degli studenti italiani (e di altri paesi meno benedetti) l’immagine dell’università sono aule grigie e sovraffollate, abbandono didattico e adesso il minaccioso riflesso vuoto di un computer. Cambridge e altri atenei sono invece il luogo fondativo, e sognato da migliaia di giovani nel mondo, di un sapere che mette insieme lo studio e la “frequenza” di aule e biblioteche.

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Ma Cambridge nel prossimo anno accademico non sarà più il luogo aperto a tutti (Oxford punta invece a riaprire a settembre). Sarà un luogo chiuso. L’università ha annunciato che per il protrarsi dell’emergenza Covid tutte le attività didattiche si svolgeranno da remoto, potenziando quanto si sta già facendo e si fa in molti atenei nel mondo. Assieme alla California State University è il primo ateneo ad aver fatto questa scelta radicale. Le ragioni sono chiare. Troppi rischi, trattandosi di una università a fortissima internazionalizzazione non si sa come si potrà garantire la sicurezza per i trasferimenti. Inoltre, oltre alle lezioni, la vita di college. Ma c’è evidentemente un’altra ragione, che Cambridge condivide con gli altri migliori atenei mondiali e di cui è antesignana: la gestione dell’insegnamento e l’accesso agli strumenti di studio e alle biblioteche in distance learning sono avanzatissimi. Con risultati consolidati. Esiste poi un fattore di fondo, che il lockdown globale ha soltanto accelerato (molto accelerato). Al pari del lavoro in smart working, le possibilità offerte dall’insegnamento digitale sono vantaggiose in molti aspetti. Gianmario Verona, rettore dell’Università Bocconi (uno degli atenei più internazionalizzati in Italia) spiega ad esempio che, già in èra pre Covid, l’e-learning era una delle strade fruttuose che il suo ateneo perseguiva per il futuro. E oggi, dopo tre mesi di remotizzazione forzata, dice che “si è confermato che in alcuni settori dell’insegnamento – ad esempio per le discipline di base, la trasmissione di contenuti tecnico-descrittivi – la didattica digitale funziona divinamente”. Liberando spazi per altre forme di insegnamento in presenza. Ma non è così per tutto, ci sono molti problemi da affrontare. “Basta pensare alla non semplice gestione delle lezioni o degli esami in livestreaming: se hai studenti a Savona e in Nuova Zelanda, gli orari e il tempo-docente sono inconciliabili”. 

 

Verona fa due esempi del perché la didattica a distanza sarà un punto chiave per il periodo Covid, ma complessa da gestire: “Ci saranno studenti, soprattutto dall’estero, che non potranno venire. E ci saranno quelli che pur essendo qui non potranno entrare in aula. Se ad esempio il distanziamento sarà posto a un metro, per i corsi più frequentati dovremo raddoppiare le aule (e le lezioni), con un metro e mezzo triplicheranno, con due è impossibile”. Dunque passare al total e-learning come fatto a Cambridge è un modo per guardare avanti. Anche se molto dipende dalla qualità del servizio: la video lezione registrata in molti casi è il minimo garantito, mentre in altri il lavoro da remoto con le piattaforme apre poi lo spazio affinché le lezioni in presenza diventino momento di approfondimento. “Ma sono consapevole che nessun sistema a distanza possa sostituire la comunicazione diretta, e nemmeno la vita del campus, che è parte integrante della formazione”. In effetti gli atenei italiani si stanno orientando a un sistema ibrido, come confermato pochi giorni fa dalla Conferenza dei rettori. Il cui presidente, il rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta, ha sottolineato: “Non ci stancheremo mai di sottolineare che l’università è una comunità fatta di menti, di persone e di relazioni”. La Cattolica ha lanciato per il prossimo anno la sua “la filosofia di #eCatt”, spiegandola così: “Tutto il possibile in presenza, tutto il necessario da remoto”.

 

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In ogni caso, il Covid sta accelerando un cambiamento profondo in una modalità del sapere che è secolare. Un salto quantico. Vale anche per l’organizzazione sociale del mondo universitario. Cosa accadrebbe, con la sparizione digitale degli studenti, alle tante e prestigiose città universitarie, che tuttora vivono attorno a quella community, ai college e ai campus? Cambridge, Oxford, Heidelberg, Salamanca sono cittadine da centomila abitanti, che ospitano ognuna oltre ventimila studenti, di cui un quarto stranieri. Vale per Padova, Siena, Perugia. Ma vale più ancora per il cambio di prospettive che la remotizzazione causerebbe agli studenti. La socialità è un aspetto decisivo, tanto più in contesti di eccellenza e internazionali. Se uno studente indiano vince una borsa di studio per Cambridge, frequentarla “su internet” da una periferia asiatica o avere la possibilità di trascorrerci anni di condivisione fa una differenza enorme. Inoltre, il network di grandi atenei mondiali è uno dei meccanismi privilegiati di costruzione di una élite cosmopolita, in un sistema aperto e duraturo. Un tempo Oxbridge era “solo” la fucina della classe dirigente della Gran Bretagna, ora lo è del mondo. Su Skype, si fa più difficile. Ma il rettore della Bocconi insiste sul modello ibrido, e non soltanto per praticità: “Crediamo fortemente in quell’aspetto di social networking che è parte dell’università, essenziale alla conoscenza. Non ritengo che la didattica a distanza debba essere soltanto uno strumento emergenziale, avrà sempre più parte nel futuro, ma non può in alcun modo sostituire la trasmissione umana del sapere”.

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