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Cattivi scienziati

Qualche verità sull'uso eccessivo di antibiotici negli allevamenti italiani

Enrico Bucci

L'Italia è al terzo posto in Europa per consumo di antibiotici rispetto alla carne prodotta. Un rischio tanto per il nostro paese quanto per le comunità confinanti

A seguito delle sue dichiarazioni televisive circa l’uso di antibiotici negli animali di allevamento e il pericolo che questo costituisce, Roberto Burioni si è trovato al centro di una fitta sassaiola verbale, proveniente da numerose associazioni con diretti interessi nell’industria zootecnica italiana. Si tratta di una reazione ovvia, e naturalmente è lecito tutelare i propri interessi diretti, anche quelli economici; tuttavia rimane il fatto che, a fronte di incontrovertibili dati Ema circa il consumo di antibiotici nelle nazioni europee normalizzato rispetto alla carne prodotta, l’Italia, almeno nel 2021 risultava terza dopo Cipro e Polonia, e i dati disponibili nei rapporti precedenti indicano come questa non sia un’eccezione. Questi numeri necessitano di una spiegazione, perché per chi, come me, non è del settore, è necessario comprendere come mai il consumo veterinario di molecole quali gli antibiotici sia così tanto elevato in Italia, rispetto ad altre nazioni, anche tenendo conto del tipo di animali allevati; le spiegazioni, come i fattori confondenti, possono essere molte, ma il consumo in tonnellate fatto nel nostro paese a fronte della carne prodotta è un dato incontrovertibile, che porta ad ulteriori considerazioni, come mi proverò ad illustrare di seguito.

 

Molte volte, abbiamo già mostrato come, a livello microbico, l’informazione genetica sia rapidamente condivisa, in una sorta di “world wide web” fondata sullo scambio veloce di pezzi di Dna e sulla selezione di quelli utili da parte delle cellule ricettrici, a partire anche da organismi molto lontani filogeneticamente, spazialmente e persino temporalmente (con acquisizione di tratti di Dna provenienti da cellule vecchie di milioni di anni, i quali per condizioni particolari abbiano passato la prova del tempo). Adesso, un nuovo tassello si aggiunge, uno che fa immediatamente comprendere come la selezione di tratti di Dna dovuta a condizioni localizzate può letteralmente volare da un angolo all’altro del globo. È stato infatti appena pubblicato un lavoro che, a partire da dati raccolti in Francia, ha dimostrato come campionando le nuvole, e precisamente l’acqua in esse presente, è possibile recuperare una notevole quantità di cellule batteriche. Questo fatto, per chi segue queste pagine, non è particolarmente nuovo; abbiamo visto già in precedenza come esistono addirittura batteri adattati ad utilizzare le nuvole come mezzo di trasporto e disseminazione su lunga distanza. In particolare, le analisi dei ricercatori hanno mostrato come i campioni contenevano in media circa 8 mila batteri per millilitro di acqua, arrivati nelle nuvole attraverso diversi processi in grado di trasformare in aerosol gli ambienti in cui vivono solitamente a terra. Le concentrazioni trovate variavano notevolmente, da 330 a più di 30 mila batteri per millilitro di acqua di nuvola; inoltre, tra il 5 per cento e il 50 per cento di questi batteri risultavano integri, e dunque potenzialmente vivi.

 

Il punto cruciale del nuovo lavoro è però un altro: misurandone la concentrazione di 29 tipi diversi, le nuvole contenevano, in media, 20.800 copie di geni di resistenza agli antibiotici per millilitro di acqua. Inoltre, nuvole di diretta provenienza oceanica e nuvole di tipo continentale sono risultate ciascuna contenere un profilo diverso di resistenza agli antibiotici. Questo dato, se ulteriormente confermato da studi successivi, è davvero significativo: implica infatti un modo di diffusione della resistenza agli antibiotici molto più efficace ed ubiquitario di quanto sin qui sospettato. Questo meccanismo di diffusione è tale da comportare un’ancora maggiore armonizzazione delle pratiche nei diversi paesi: se Dna batterico, non importa se in cellule vive o morte, può diffondere le resistenze (e altri tratti più o meno pericolosi) ai quattro angoli del globo per via aerea, questo significa che quanto si fa in India, ad esempio, è significativo per paesi anche molto distanti. A maggior ragione, il grande uso di antibiotici documentato in Italia (considerando, in questo caso, la quantità assoluta di antibiotici utilizzata per gli animali) può mettere a rischio anche tutti quei paesi che, nell’Unione Europea, facciano un uso molto più moderato di antibiotici; e lo stesso, naturalmente, vale per paesi come la Polonia o altri grandi consumatori di tale tipo di farmaci.

 

Dunque, ricapitoliamo: a partire dai dati Ema, è possibile identificare un alto consumo di antibiotici per uso veterinario in certi paesi, fra cui l’Italia. Questo uso indubitabilmente è connesso alla selezione di resistenze nelle specie batteriche più svariate, per una semplice e ben consolidata legge di natura; a causa poi di meccanismi di diffusione su lunga distanza del Dna di qualunque tipo di batterio, e specificamente, come dimostrato nello studio qui discusso, di sequenze in grado di conferire resistenza agli antibiotici, l’uso da parte dei paesi che consumano maggiormente antibiotici è proporzionalmente quello che mette a maggior rischio non solo quei paesi, ma l’intera comunità delle nazioni ad essi confinanti (come minimo). Ed è molto, molto difficile immaginare come le scelte veterinarie di un certo paese, fatte per garantire al massimo la filiera dell’allevamento e l’economia di quel paese, possano poi giustificare eventuali danni arrecati in paesi che di quella filiera e di quelle ricadute economiche non beneficeranno.

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