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cattivi scienziati

La lavagna genetica

Enrico Bucci

Il Dna non codificante ha una funzione fondamentale: quella di aumentare l’informazione trasportabile dai nostri genomi, o, per dirla con gli ingegneri, quella di aumentare la capacità di canale dell’informazione che può fluire lungo l’evoluzione di una data specie

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Nell’articolo di ieri ho fugacemente accennato a certe regioni del nostro genoma che non codificano attualmente per proteine, affermando che la dizione “Dna spazzatura” originariamente utilizzata per riferirsi a tali regioni fu a suo tempo avventata.

 

La vulgata e i libri di testo vorrebbero che il termine "Dna spazzatura" sia stato coniato nel 1972 da Susumu Ohno come parte di un suo irrintracciabile lavoro sul ruolo della duplicazione genica e genomica. In realtà, una definizione rinvenibile in letteratura scientifica occorse ben prima e proprio 60 anni fa, in un articolo di Ehret e De Haller, dove si scrive testualmente: “Sebbene le prove attuali rendano plausibile l'idea che tutto il materiale genetico sia Dna (con la possibile eccezione dei virus a Rna), non ne consegue che tutto il Dna sia materiale genetico competente (da cui Dna ‘spazzatura’)”

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Il termine quasi sicuramente non fu inventato da questi autori, ma divenne popolare a sufficienza negli anni Sessanta da poter essere utilizzato senza troppe spiegazioni e fu poi via via formalizzato in seguito, fino ad arrivare alla definizione moderna che possiamo sintetizzare in questo modo: il “Dna spazzatura” è quella frazione del genoma di un organismo che non esercita funzioni riconoscibili ed è per questo privo di qualsivoglia valore adattativo ai fini della selezione naturale.

 

Ora, questa definizione apparentemente chiara è invece problematica da molti punti di vista, per le ragioni che illustrerò di seguito.

 

Innanzitutto, bisogna chiedersi cosa si intenda per funzione riconoscibile, a cominciare dall’aggettivo. Le funzioni riconosciute e quindi riconoscibili nel DNA aumentano man mano che la biologia molecolare accresce le nostre conoscenze: già nel 2012, il consorzio ENCODE (Encyclopedia of Dnae Elements) ha dimostrato che moltissimo di quello che prima era considerato Dna “spazzatura” umano, localizzato fra le sequenze che codificano per proteine, in realtà ha funzioni regolatorie di tipi diversi. Pur non dando origine a proteine, cioè, ne controlla la quantità che viene prodotta, così come controlla alcune funzioni biologiche essenziali dal punto di vista della struttura e della meccanica del genoma. Non solo: molte delle parti di Dna che non danno origine a proteine, sono tuttavia la sorgente per numerose molecole di Rna con funzioni diverse, essenziali e specializzate, come sappiamo dalla scoperta dei cosiddetti microRna e lncRna.

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Inoltre, le funzioni biochimiche come quelle descritte, siano già note o ancora da scoprire, non esauriscono i possibili ruoli di una sequenza di Dna non codificante (la dizione che oggi correttamente usa anche Wikipedia). Ricordando l’ultimo esempio che citavo ieri su queste pagine, il Dna non codificante ha natura composita, e contiene, fra le altre cose, i “fossili” di antichi geni inattivati, geni che possono essere anche stati fatti a pezzi e che possono provenire dalle specie progenitrici di un certo organismo oppure anche da Dna esogeno integrato, ottenuto dai regni viventi più disparati spesso con la mediazione di qualche virus. Quando qualche mutazione accidentale porta alla riattivazione di questi “fossili”, i geni che ne risultano si trovano ad operare in un ambiente completamente diverso da quello originario, e possono essere essi stessi molto modificati a causa di eventi di ricombinazione con altre regioni di Dna inattivo: il risultato è l’emersione di fenotipi nuovi, che possono eventualmente essere favorevoli e quindi fissati nella popolazione dalla selezione naturale.

   

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Non solo: fin dagli anni ’80, è noto che i genomi di un organismo, che noi di solito intendiamo come entità coese di geni che collaborano fra loro e sono sottoposte nel loro insieme agli effetti della selezione naturale, in realtà contengono elementi cosiddetti “egoisti”, ovvero sequenze genetiche che sono capaci di aumentare le proprie probabilità di replicazione a spese del resto del genoma, anche quando questo non ha effetti positivi per l’organismo o quando pesa negativamente. Questi elementi, che a buon diritto possono considerarsi parassitici, in realtà sono stati implicati anche direttamente nel processo di speciazione, e rappresentano quindi una componente in grado di portare a radiazioni adattative degli organismi biologici.

   

A questo punto, potremmo considerare il concetto originario di “Dna spazzatura” come una definizione limite, al netto di tutte le conoscenze attuali e future circa il funzionamento in un dato organismo di quelle sequenze e circa il loro funzionamento nel tempo, lungo una data linea evolutiva, e immaginare che esista qualche sequenza di Dna che per ragioni intrinseche non sia in grado di avere mai alcuna funzione rilevabile, né ora né mai. È possibile che tali sequenze esistano?

   

Possiamo qui far ricorso alla teoria dell’informazione sensu Shannon: ogni stringa di Dna di una certa lunghezza aggiunta ad un genoma aumenta la capacità di supporto per l’informazione contenibile in quel genoma, e questo, in generale, rappresenta una funzione biologica. Un po’ come un hard-disk ancora vergine, una stringa di Dna completamente priva di ogni significato può però servire per riservare uno spazio utile a “scrivere” un messaggio genetico senza danneggiare i geni preesistenti. I meccanismi in grado di introdurre mutazioni, delezioni, inserzioni, assemblamenti di porzioni diverse e rimescolamenti di ogni tipo sono costantemente all’opera sul nostro Dna, e proprio quelle regioni in cui la “scrittura” di nuove sequenze non comporta danni immediati sono quelle ideali per acquisire nuova informazione, dato tempo a sufficienza.

  

Il Dna non codificante quindi, anche al netto di ogni funzione oggi nota e meno nota, ne ha una fondamentale: quella di aumentare l’informazione trasportabile dai nostri genomi, o, per dirla con gli ingegneri, quella di aumentare la capacità di canale dell’informazione che può fluire lungo l’evoluzione di una data specie.

 

Il Dna considerato un tempo spazzatura è, in breve, la lavagna bianca su cui si può generare da zero la massima variabilità genetica con il minimo vincolo, e poi, quando le condizioni e le mutazioni occorse lo permettono, nuovi fenotipi e nuove specie.

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