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Cattivi Scienziati

Perché la ricerca col telescopio Webb è un buon investimento

Enrico Bucci

A cosa vale lo sforzo della comunità scientifica? Per inventare nuove soluzioni, per migliorare sempre, e soprattutto per soddisfare la sete di curiosità insita nell'uomo. Dallo spazio alla vita quotidiana 

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Di fronte all’entusiasmo dell’intera comunità scientifica, anche di campi molto distanti dall’astronomia, e di una gran quantità di pubblico, manifestatosi con l’arrivo delle prime immagini dal nuovo osservatorio spaziale James Webb, è giunta, attesa quanto inevitabile, la perenne domanda che è formulata ai ricercatori: a che vale tutto questo sforzo? Non solo l’impiego di risorse – uomini, tempo, denaro – ma più in generale il concentrare l’attenzione della nostra mente collettiva, e della comunità scientifica in particolare, su problemi come quelli cui si cercherà di rispondere con la nuova macchina: a che vale? Senza nemmeno considerare il corollario di benaltrismo che spesso accompagna questa domanda – abbiamo cose ben più importanti ed urgenti, per distrarre risorse e usarle in imprese come queste – credo valga la pena di rispondere ancora una volta alla domanda principale: perché lavorare su problemi di nessuna rilevanza pratica o ricaduta immediata, come la costruzione di un gigantesco e costoso strumento per fotografare il cosmo nelle frequenze dell’infrarosso? Esiste una prima risposta che potremmo definire di tipo utilitaristico: perché portare la nostra tecnologia agli estremi richiesti dalla ricerca scientifica, consente di inventare nuove soluzioni, introdurre nuovi processi e sperimentare proposte avanzatissime in maniera molto più libera dai vincoli economici imposti dal mercato alle aziende, come è facile intuire. Le novità che così possono essere trovate, inventate, migliorate finiscono sempre – sempre - per avere ricadute interessanti sulla tecnologia che usiamo tutti i giorni, non fosse altro che per la definizione dei limiti oltre i quali non è possibile spingersi.

 

Per fare un esempio: il Cronidur30 è un materiale sviluppato per soddisfare le richieste provenienti dai progettisti delle pompe di carburante dello Shuttle. Resiste alla corrosione molto più dei normali acciai, ed oggi è impiegato largamente in coltelli e lame di ogni tipo, comprese quelle chirurgiche, ove le sue superiori prestazioni sono evidenti. Le innovazioni originariamente progettate per i veicoli spaziali, inclusi i sistemi muscolari artificiali, i sensori, i rivestimenti e alcune particolari schiume sintetiche, rendono oggi le protesi artificiali che si usano per sostituire gli arti umani più funzionali, durevoli, confortevoli e realistiche. Alcune delle tecnologie oggi presenti nelle pompe di insulina dei pazienti diabetici, materiali che hanno trovato applicazioni nelle tute antincendio dei pompieri, materiali antisismici derivati dagli antishock usati nelle missioni spaziali, cellule fotovoltaiche molto migliori, il tipo di mini-telecamere oggi presenti nei nostri cellulari e mille altre sono le applicazioni derivate da un iniziale investimento di forze e risorse economiche in ricerca spaziale. Questa risposta utilitaristica, però, non corrisponde alla motivazione reale che spinge vaste comunità umane ad impiegare i propri anni migliori e a moltiplicare gli sforzi per riuscire a visualizzare una galassia situata a 13 miliardi di anni luce da noi.

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Una risposta che io reputo più sincera è un’altra, e credo che valga la pena di sottoporla all’apprezzamento dei lettori di questa pagina. Ci siano pochi dubbi circa il fatto che Homo sapiens è un vero e proprio “cercatore di conoscenza”. Tutti i più significativi passaggi evolutivi, culturali e tecnologici negli esseri umani (anche quelli di specie diverse dalla nostra) sono stati strettamente legati al miglioramento della capacità di trovare, ingerire, elaborare e trasferire la conoscenza. Data l'importanza centrale della ricerca della conoscenza per la natura umana - catturata dal nome stesso Homo sapiens e incarnata dalla visione degli esseri umani come “informativori” proposta ormai 40 anni fa - non dovrebbe sorprendere che, se analizziamo la cosa da un punto di vista evoluzionistico, vi siano molte teorie e le prime evidenze circa il fatto che il comportamento esploratorio, e la corrispondente motivazione ad acquisire nuove conoscenze, siano tratti sottoposti alla selezione naturale, sia nell’uomo che in altri animali. La selezione naturale prima, e quella culturale e sociale poi, hanno cablato dentro tutti gli esseri umani la curiosità necessaria a scoprire cose nuove, di cui per definizione non può esser noto lo scopo; e così si cerca conoscenza per soddisfare una motivazione interna, indipendentemente dalla ricompensa che potrebbe arrivare sotto forma di un utilizzo concreto di tale conoscenza.

 

Davvero gli esseri umani, più o meno spiccatamente e naturalmente con molte differenze individuali, cercano il sapere per sé stesso; il comportamento esploratorio che serviva a controllare il nostro ambiente, oltre che inventarsi soluzioni e schemi mentali che grazie alla novità presentassero qualche vantaggio, è parte della nostra specie, e ha come conseguenza accessoria questa sete che spinge ad esplorare il cosmo in ogni direzione, ad ogni scala dimensionale, in ogni tempo e sotto ogni possibile prospettiva investigabile. Vorrei però aggiungere ancora qualcosa sulla motivazione che spinge almeno alcuni di noi a rincorrere la conoscenza senza requie. Si tratta della soddisfazione di una sorta di senso estetico, di un intimo sentimento che pervade il ricercatore quando esplora un risultato in grado di spiegare quello che vede o disegnare ciò che non vede, per esempio nel passato o nel futuro. Questo sentimento è probabilmente proprio la manifestazione del modo in cui la selezione naturale ha operato su di noi, e possiamo averne un esempio sommo nella formulazione di qualche nuovo teorema matematico: in questo caso, l’esplorazione è rivolta ad un territorio di pure idee, ad uno spazio solo formale, se così vogliamo definirlo, ma la bellezza del risultato ottenuto, per chi è in grado di spingersi in quel territorio, è intatta.

 

Io sono un biochimico, ed esploro i miei territori mentali: quando la descrizione del comportamento dell’ultimo e più insignificante dei protoni di una molecola è in grado di spiegarmi l’interazione fra un pigmento ed un recettore che porterà l’occhio di un insetto a riconoscere il fiore su cui si nutrirà, oppure quando l’apparizione di una riga su uno spettro infrarosso viene posta in connessione con la presenza nello spazio profondo di quelle molecole da cui la vita ha preso inizio, ecco in casi come questi, io posso provare le stesse sensazioni che provo ad ascoltare una bella esecuzione di una sinfonia amata, o nello scoprire un mosaico romano di bellezza inconsueta o un bellissimo quadro di un artista che non conoscevo. Nessuno, immagino, mi chiederà a cosa è servito dipingere quel quadro o comporre quella sinfonia, anche quando – pensiamo alla moschea blu di Instanbul – i costi e gli sforzi necessari per ottenere quell’opera sono stati immensi; perché, alla fine, e vale per gli scienziati, gli artisti, il pubblico e tutta la collettività che persegue la conoscenza e il bello in sé stessi, “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.

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