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La libertà dell’uomo è salva, gli algoritmi non sono in grado di prevedere tutto

I limiti apprezzabili della nostra civiltà ipertecnologica

Sergio Belardinelli

L'intelligenza artificiale sta diventando sempre più efficace nel misurare le situazioni di rischio. Ma (anche se facciamo fatica ad accettarlo) l'incertezza è un'altra cosa e non c'è macchina che potrà mai risolverla. Per fortuna

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La tecnologia sta cambiando il nostro “senso comune”, quella sorta di sesto senso, come lo chiamava Hannah Arendt, che ci fa da guida nella nostra precomprensione della realtà. Se ieri, per fare un esempio, le contingenze della nostra vita dipendevano principalmente dal fato, da Dio o dalla natura, oggi siamo indotti a pensare che dipendano da noi. Più attuale di Kant, con la sua definizione dell’agire basato sull’intenzione, e di Weber, con le sue “conseguenze inintenzionali”, sembra essere diventato Edipo che si assume la responsabilità anche di ciò che fa senza volerlo.

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La tecnologia sta cambiando il nostro “senso comune”, quella sorta di sesto senso, come lo chiamava Hannah Arendt, che ci fa da guida nella nostra precomprensione della realtà. Se ieri, per fare un esempio, le contingenze della nostra vita dipendevano principalmente dal fato, da Dio o dalla natura, oggi siamo indotti a pensare che dipendano da noi. Più attuale di Kant, con la sua definizione dell’agire basato sull’intenzione, e di Weber, con le sue “conseguenze inintenzionali”, sembra essere diventato Edipo che si assume la responsabilità anche di ciò che fa senza volerlo.

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Niente di strano dunque che persino la pandemia da coronavirus venga fatta dipendere da scelte sbagliate compiute dall’uomo. La tecnologia ci ha resi così potenti, ma anche così incapaci di convivere con l’incertezza, che ormai qualsiasi cosa succeda dev’essere per forza imputabile a qualcuno, come se fossimo veramente “padroni” e quindi responsabili di tutto ciò che accade e del nostro futuro. L’aspirazione positivista di poter scoprire le leggi che regolano le società e prevederne gli eventi, più o meno come le leggi fisiche consentono di prevedere gli eventi fisici, sembra oggi sul punto di essere soddisfatta dai cosiddetti big data e dai potentissimi algoritmi che sono in grado di utilizzarli “creativamente”.

 

Ma, detto in tutta franchezza, è una prospettiva che non mi convince né mi attrae. Preferisco di gran lunga la prospettiva che tiene ferma la specificità, diciamo pure l’unicità, dei fenomeni sociali, al fine di comprenderli (almeno un po’), non di prevederli. Ciò non significa ovviamente che non consideri importante, anche nel mondo sociale, la ricerca di regolarità statistiche, il calcolo dei rischi connessi a certe decisioni e cose simili. Semplicemente ritengo che in questo mondo, almeno finché continueranno a esserci gli uomini, la loro libertà e i limiti della loro conoscenza, ci sarà sempre un elemento imponderabile di imprevedibilità.

 

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Le scienze sociali, oltre a spiegare e comprendere, potranno anche sforzarsi di prevedere; ciò è comprensibilissimo; da sempre gli uomini cercano di farlo. Ma, nonostante i big data e la potentissima “intelligenza” delle macchine, sulla previsione penderà sempre, aggiungerei per fortuna, la spada dell’incertezza. Ciò che voglio dire è che non esiste un algoritmo per gestire l’incertezza. Esistono invece algoritmi per gestire i rischi; algoritmi che diventano sempre più efficaci nell’aggiornare le proprie previsioni man mano che aumentano le informazioni disponibili. Ma, come hanno insegnato, tra gli altri, Gerd Gigerenzer e Niklas Luhmann e, prima di loro, Frank Hyneman Knight, incertezza e rischio non sono la stessa cosa. La prima riguarda infatti ciò che non è misurabile, il secondo riguarda invece, per dirla con Knight, un’“incertezza misurabile” ossia qualcosa che, a rigore, “non è un’incertezza affatto”.

 

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Se dunque si guarda al futuro, il mondo dell’incertezza è infinitamente più ampio di quello dei rischi e per questo assai difficile da padroneggiare con qualsiasi algoritmo. La situazione nella quale viviamo oggi, diciamo pure, la nostra civiltà ipertecnologica, ha senz’altro trasformato e continua a trasformare in rischi una miriade di situazioni che fino a ieri appartenevano all’ordine dell’incertezza. Non escludo che esistano algoritmi che consentono di fare previsioni precise in diversi campi. Le previsioni del tempo, ad esempio, stanno facendo progressi straordinari; consentono di stabilire con quasi assoluta precisione (quasi!), se in un gran premio di Formula Uno alla Ferrari o alla Mercedes conviene partire con le gomme da pioggia o con quelle da asciutto. Ma, per fare un esempio, benché si investano risorse ingenti in tal senso, non è prevedibile con la stessa precisione quale sarà il valore dell’euro sul dollaro tra dieci mesi. Se questo fosse possibile, gli economisti sarebbero gli uomini più ricchi del mondo.

 

  

So bene che le intelligenze artificiali e la loro capacità di sfruttare l’enorme quantità di dati disponibili stanno disegnando in proposito scenari del tutto nuovi. L’uso sempre più raffinato della rete da parte di certi soggetti economici, politici o d’altro tipo fa supporre che si possano prevedere i comportamenti degli individui in ordine ai consumi, alle preferenze elettorali e cose simili. Ritengo tuttavia che il paradigma hayekiano circa l’impossibilità che l’uomo conosca tutte le variabili di tutti i possibili eventi che possono accadere nella società resti tutt’ora valido. Almeno me lo auguro, visto che, proprio come insegna von Hayek, se esistessero uomini capaci di questo tipo di conoscenza, non ci sarebbe più nulla da fare per la nostra libertà.

 

Abbiamo proiezioni, calcoli, algoritmi, che però non sono in grado di contenere tutte le variabili. Sebbene dunque sia comprensibile che gli uomini cerchino in tutti i modi di trasformare l’incertezza in un rischio, dobbiamo riconoscere che l’impresa è destinata in molti casi al fallimento. E quand’anche fossimo così fortunati (fortunati?) da avere successo, faremmo comunque sempre bene a domandarci se in questo successo non si riverberi piuttosto la cosiddetta “illusione del tacchino”. Per chi non la conoscesse, mi riferisco all’illusione del tacchino americano che col passare del tempo si convince della bontà del padrone, semplicemente perché tutti i giorni questi gli porta da mangiare. Nel giorno del Ringraziamento quest’illusione si rivelerà fatale, ma il tacchino non poteva saperlo prima.

 

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