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Siamo troppo occupati a parlare di "fuga di cervelli" per riuscire a trattenerli

Luca Roberto

I ricercatori italiani sono i migliori. Dei 327 vincitori dei fondi di ricerca assegnati dall'European Research Council, 47 sono italiani, la quota maggioritaria a livello Ue. Ma solo una minima parte di questi lavora nelle università italiane

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La Commissione europea ha reso noti i progetti di ricerca che a livello europeo sono stati premiati dai cosiddetti Consolidator grants dell'European Research Council. Sono rivolti ai ricercatori che abbiano maturato un esperienza di almeno 7 e non più di 12 anni dopo il dottorato, e la notizia è che su 327 vincitori, 47 sono italiani, la quota maggioritaria a livello comunitario.

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La Commissione europea ha reso noti i progetti di ricerca che a livello europeo sono stati premiati dai cosiddetti Consolidator grants dell'European Research Council. Sono rivolti ai ricercatori che abbiano maturato un esperienza di almeno 7 e non più di 12 anni dopo il dottorato, e la notizia è che su 327 vincitori, 47 sono italiani, la quota maggioritaria a livello comunitario.

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Un bel risultato, se non fosse che se si guarda ai paesi di destinazione di questi fondi, l'Italia è solo il nono paese (al primo posto ci sono Germania e Regno Unito, con oltre 50 progetti a testa). Questo perché di quei 47, solo 17 lavorano con università e istituti di ricerca italiani. Per il resto gli altri 30 sono espatriati all'estero pur di costruirsi una carriera accademica.

  

Tra i progetti finanziati in Italia, due borse di ricerca dal valore ciascuna di un paio di milioni di euro andranno all'Istituto italiano di tecnologia di Genova, per la costruzione di un plantoide per contrastare i cambiamenti climatici, due alla Bocconi di Milano, tra cui uno studio sulle dinamiche antitrust nel campo delle piattaforme digitali. E altre due a finanziare il lavoro di due ricercatrici, entrambe impegnate in progetti a carattere storico, dell'Università Roma Tre. Tra le altre realtà accademiche premiate ci sono le Università di Parma, Torino, Bologna, Padova, Verona, Roma Tor Vergata, l’Istituto nazionale di fisica nucleare, l’Istituto europeo di oncologia, la Ri-MEd Foundation, e il San Raffaele di Milano. Ma, come detto, i circa due terzi dei ricercatori italiani svilupperanno i loro studi all'estero. 

  

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Se da un lato questo garantisce un prestigio di cui l'Italia dovrebbe rallegrarsi, dall'altro rappresenta la più evidente delle contraddizioni di un paese che spesso si perde attorno alla retorica sulla fuga di cervelli. Avere la più alta percentuale di ricercatori premiati con un finanziamento a livello europeo è emblematico delle competenze che spesso questi ultimi riescono ad acquisire, anche all'interno dei confini nazionali e grazie all'alto livello dell'istruzione universitaria. Se però non si mettono questi stessi ricercatori nelle condizioni di poter lavorare nelle decine di università più prestigiose a livello nazionale, non si fa altro che alimentare un mito destinato a scomparire: e cioè che basti lamentarsi del fatto che questi professionisti siano costretti ad andare all'estero per incentivarli a rimanere.

 

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Si è molto parlato nelle ultime settimane del posto riservato alla ricerca da parte delle istituzioni europee. Dopo che la Commissione europea aveva deciso di tagliare del 15 per cento le risorse del Next Generation Eu dedicate alla ricerca di base, il presidente dell'Erc Jean-Pierre Bourguignon aveva lanciato un allarme al Foglio. “Il minore impegno sulla ricerca di frontiera rischiamo di pagarlo a caro prezzo in futuro, quando ci sarà un’altra crisi che nessuno sa quando arriverà né come affrontare. È forse qualcosa difficile da comprendere in questo momento in cui siamo impegnati a risolvere i problemi di oggi o al massimo di domani, ma verranno anche altri giorni dopo”, aveva detto. Discorso ancor più valido per il nostro paese, da sempre impegnato a stracciarsi le vesti contro la fuga di cervelli e incapace di porvi un rimedio davvero credibile.

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