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Gli integralisti dell’ecologismo

Chicco Testa

Salvare il pianeta significa innovare e guardare avanti, non rottamare gli ultimi 50 anni di benessere. Riflessioni sui danni creati dal catastrofismo ambientalista. Un libro

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La natura è una grande macchina che produce vita e morte. Fa nascere e fa morire. Tutto: dal piccolissimo al grandissimo. Dai batteri alle galassie. Si nasce e si muore ed è solo una questione di tempo. Ottant’anni e rotti per un uomo o una donna occidentali (in media), 4,5 miliardi di anni (da adesso) per il Sole (tanto per fare un esempio). Da questa macchina abbiamo molto da imparare e molto da capire. Ma non è una macchina né giusta, né buona, né bella. Questi sono giudizi e proiezioni umani. La natura di noi non si cura. Va avanti e basta. E quando la si usa per giustificare comportamenti, giudizi e valori si producono errori e talvolta tragedie. La lunga storia della specie umana è contraddistinta invece dagli sforzi continui per superare i limiti imposti dalla natura. E’ un lungo viaggio dal naturale all’artificiale. E lo abbiamo fatto grazie alla nostra intelligenza e soprattutto alle tecnologie sempre nuove di cui disponiamo.

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La natura è una grande macchina che produce vita e morte. Fa nascere e fa morire. Tutto: dal piccolissimo al grandissimo. Dai batteri alle galassie. Si nasce e si muore ed è solo una questione di tempo. Ottant’anni e rotti per un uomo o una donna occidentali (in media), 4,5 miliardi di anni (da adesso) per il Sole (tanto per fare un esempio). Da questa macchina abbiamo molto da imparare e molto da capire. Ma non è una macchina né giusta, né buona, né bella. Questi sono giudizi e proiezioni umani. La natura di noi non si cura. Va avanti e basta. E quando la si usa per giustificare comportamenti, giudizi e valori si producono errori e talvolta tragedie. La lunga storia della specie umana è contraddistinta invece dagli sforzi continui per superare i limiti imposti dalla natura. E’ un lungo viaggio dal naturale all’artificiale. E lo abbiamo fatto grazie alla nostra intelligenza e soprattutto alle tecnologie sempre nuove di cui disponiamo.

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Abbiamo scoperto in questi mesi che un virus ha dimensioni che si misurano in nanometri (milionesimi di millimetro), che si riproducono solo infettando una cellula e che esistono fin dalla comparsa delle prime cellule viventi. Si sono evoluti insieme a queste cellule, da cui poi, in un processo durato miliardi di anni, si sono sviluppate forme di vita più complesse, compresa la specie umana. Per sconfiggerli dobbiamo  fare qualche cosa “contro natura”. Se vogliamo con una forzatura considerare contro natura la legittima aspirazione di ogni individuo e della specie umana a sopravvivere e continuare a riprodursi. Il che è  anche un comportamento perfettamente naturale. Così facendo, però, ostacoliamo il naturale corso delle cose. Virus e batteri selezionano le specie viventi. Fanno strage degli individui più deboli. Questa è la specie umana. Naturale per un verso nel suo desiderio di vivere e riprodursi, innaturale, se così possiamo dire, quando interviene nei meccanismi naturali per difendersi o per usarli per la propria utilità, come fa da molti millenni l’agricoltore che addomestica piante e animali per cibarsene, e come fa con forza assai maggiore l’uomo contemporaneo che ha inventato numerose tecnologie che lo proteggono da molte minacce naturali e ne potenziano le facoltà. 


Non sarà certo tornando indietro verso un ipotetico e irrealizzabile stato di natura che risolveremo i nostri problemi. Stiamo verificando in questi giorni che cosa significa la decrescita. Il coronavirus ha anche portato alla luce antichi tic culturali che attraversano le varie famiglie ideologiche italiane. Secondo  stravaganti teorie, il mondo non si è ammalato ora. Il mondo era ammalato prima e l’epidemia non è altro che la conseguenza di queste antiche malattie preesistenti. Onestamente la situazione che stiamo vivendo non mi rende più critico rispetto al passato. Il coronavirus non aiuta a risolvere i problemi. Li aggrava. E invece, in molti commentatori emerge un disprezzo per il mondo che c’era che può essere spiegato solo con un furore ideologico che ottenebra la mente. La vita in queste settimane è peggiorata per tutti e ancor più per le fasce più deboli. Poveri, anziani, famiglie numerose dotate di abitazioni insufficienti. Eppure mai tante volte il binomio crisi/opportunità è stato citato come in questa e lunga fase. Ma l’idea che i cambiamenti positivi avvengano attraverso le crisi non è né particolarmente vera né particolarmente attraente. A me risulta il contrario. Che è durante i periodi di crescita economica e di benessere che si migliora e le innovazioni aumentano la qualità della nostra vita. Com’è avvenuto negli ultimi settant’anni della nostra storia.

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Questo libro parla bene della plastica, dei grattacieli, degli ogm, del 5G e persino del nucleare. E però è un libro a favore dell’ambiente. In questo libro il lettore troverà varie volte l’espressione “ambientalista collettivo”. L’ambientalista collettivo è impregnato da un insieme di manifestazioni, credenze, comportamenti, emozioni, facile informazione, esagerazioni, stereotipi culturali e spesso fake news mai verificate, che travalicano dalle pagine dei notiziari, dalle tv, dai vari social network e dalle chiacchiere fra amici e conoscenti in uno zibaldone confuso in cui problemi grandi e piccoli vengono sovrapposti senza gerarchie né valutazioni critiche. Luoghi comuni che vengono trasmessi e ripetuti sui media tradizionali e sui social senza che nessuno verifichi seriamente come stanno le cose. Si individuano bersagli su cui scatenare la propria furia, si mettono a punto ricette semplicistiche e controproducenti in un gran miscuglio dagli effetti positivi quasi nulli. In realtà dovrebbe essere condivisibile il fatto che non esista un “Ambientalismo” con la “A” maiuscola. E nemmeno ambientalisti depositari delle Sacre Scritture. Ci sono invece tante politiche ambientali diverse discusse, ridiscusse e da sottoporre, come tutte le teorie, ai criteri di falsificabilità. Cioè, alla possibilità di essere dimostrate fallaci. E che dovrebbero essere misurate non sulla quantità di fede ortodossa o sul furore ideologico con cui si manifestano, ma solo dal punto di vista dell’efficacia. Se non è così, non siamo in presenza di politiche ambientali, ma di dogmi religiosi. Non c’è un solo ambientalismo, ma tanti e diversi fra di loro. Alcuni molto, molto dannosi.


E’ percorribile per esempio la strada di una drastica limitazione o addirittura di un’inversione di marcia della crescita economica come antidoto ai problemi ambientali che dobbiamo affrontare?
Proprio le recessioni di questi anni, prima quella del 2007-2013 e poi quella del 2020 ci hanno consentito di verificare sul campo le conseguenze disastrose della decrescita e di una recessione economica prolungata. Per una semplice ragione: le recessioni hanno effetti devastanti sul tessuto sociale, creano milioni di disoccupati, aumentano la povertà e riducono la coesione sociale. Qualcuno forse può gioire (è quello che in effetti è successo) per qualche miglioramento ambientale conseguente al rallentamento delle attività economiche e della mobilità. Ma se il mondo riprende a crescere la situazione ex ante si ripristina in breve tempo, come è successo dopo la crisi del 2007-2013. E se questo non succede le preoccupazioni ambientali passano in secondo piano, messe fuori scena da pressanti preoccupazioni economiche. La decrescita e la povertà sono i veri nemici da combattere. Ed è necessario incorporare nella soluzione dei problemi ambientali anche la soluzione dei problemi sociali. 
All’inizio dell’Ottocento solo il 6 per cento della popolazione mondiale viveva al di sopra della soglia di povertà. Sessanta milioni di persone su circa un miliardo. Oggi, al di sopra della soglia si colloca il 90 per cento della popolazione. Sempre nel 1820, solo il 17 per cento della popolazione risultava dotato di una qualche forma di educazione. Oggi è l’86 per cento. Il 43 per cento moriva entro i primi cinque anni di vita, quasi la metà. Oggi è il 4 per cento. Sono risultati spettacolari che sono peraltro alla base dell’aumento demografico, anche se i tassi di natalità si sono drasticamente abbassati. Si muore di meno durante l’infanzia e si vive più a lungo. Nel 1820, solo l’1 per cento della popolazione era governato da una democrazia. Oggi, secondo l’Ocse, è il 56 per cento.

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Due personaggi fra di loro diversissimi hanno impresso un’accelerazione impressionante alla diffusione delle preoccupazioni ambientali. Papa Francesco, un empatico gesuita a capo della chiesa cattolica, e Greta Thunberg, un’adolescente svedese, dall’aspetto mite e indifeso. Hanno lanciato messaggi potentissimi amplificati enormemente dai media di tutto il mondo. Hanno contribuito, si dice, alla crescita della coscienza ambientalista e questo sarebbe un fatto positivo in sé. Non sono sicuro di essere completamente d’accordo. Non sottovaluto affatto la spinta che essi hanno determinato, ma è la direzione di questi messaggi che non mi convince e ho constatato troppe volte come messaggi animati dalle migliori intenzioni, ma rivolti nella direzione sbagliata, finiscano per essere controproducenti. 
Di Greta non condivido la disperazione contenuta nel suo messaggio. Una sorta di condanna  definitiva del mondo contemporaneo, che dimentica completamente gli enormi benefici che gli ultimi cinquant’anni hanno portato alla specie umana. Come appartenente alle generazioni precedenti, preferisco la bellissima frase rivolta da Obama a un gruppo di studenti  durante il suo mandato presidenziale: “Con tutte le sfide che abbiamo di fronte, tutti i problemi, se aveste potuto scegliere un qualsiasi momento della storia dell’umanità in cui nascere, senza sapere quale sarebbe stata la vostra posizione, chi sareste stati, avreste dovuto scegliere questo. Il mondo è meno violento di quanto non sia mai stato. Più salubre che mai. Più tollerante che mai. Meglio nutrito che mai. Cose terribili succedono ogni giorno in giro per il mondo, ma le linee di tolleranza e di progresso sono evidenti”. Il messaggio di Obama sfida le nuove generazioni ad andare oltre utilizzando tutto quanto le generazioni precedenti lasciano in eredità, che non è solo eredità negativa. Quello di Greta appare come un urlo disperato che, preso alla lettera, conduce a una regressione senza fine.

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Un’altra voce potente che in questi anni ha contribuito a richiamare l’attenzione sui problemi ambientali è stata quella di Papa Francesco. Nella dottrina cattolica il primato dell’uomo sul resto del pianeta è sempre stato un assunto fondamentale. Da questo punto di vista una correzione che suggerisse la necessità di un approccio responsabile e consapevole era da tempo attesa. Ma Francesco va ben oltre, mettendo in campo un cattivo trattato di sociologia. E un cattivo trattato di cosmologia. Un po’ Greenpeace, un po’ Onu, un po’ Naomi Klein, un po’ teologia della liberazione. Persino un po’ di New Age. Gli ultimi cinquant’anni della storia umana ridotti a un cumulo di errori. Una descrizione dei poveri del mondo che dimentica completamente il ruolo di potenza industriale conquistato dalla Cina e di altre parti dell’ex Terzo Mondo, descritto come luogo incontaminato. Quando invece è oggi uno dei luoghi più inquinati della Terra. E una cosmologia che contrappone la natura, dono di Dio, a un uomo accecato dall’egoismo. Il Creato come astratta idealizzazione che dimentica la storia evolutiva del pianeta e gli immensi pericoli che ancora la natura riserva alla specie umana. Magari proprio a cominciare dai virus. La personalizzazione della natura, che appare quasi dotata di “anima”. Anziché il giusto richiamo forte alla responsabilità dell’uomo, una sorta di panteismo, quasi pagano, estraneo alla tradizione teologica della chiesa cattolica. Persino alcuni secoli dopo il processo a Galileo e la riabilitazione, avvenuta solo nel 1992, nella sua enciclica “Laudato si’” vi è ancora una condanna del metodo scientifico sperimentale che viene definito come “una tecnica di possesso, dominio, trasformazione”. Di conseguenza, secondo Francesco, “l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano diventando invece dei contendenti”. Le cose? La guerra con le cose? Si tratta di un linguaggio magico, sia dal punto di vista teologico sia da quello scientifico. Natura e ambiente usati come sinonimi, quando non lo sono per niente. La natura è una realtà sconfinata per dimensioni fisiche e temporali, dotata di dinamiche ancora non del tutto comprese. L’ambiente a cui ci riferiamo riguarda una realtà parziale e a noi molto più vicina.


Dovremmo avere più fiducia nel futuro e in noi stessi. Nella nostra specie. Rimuovendo prima di tutto dal nostro orizzonte quel catastrofismo pessimista che ci impedisce di decidere razionalmente, e ci fa inseguire soluzioni propagandistiche, e placebo per i nostri sensi di colpa. I tempi di nascita e di propagazione delle innovazioni tecnologiche si stanno sempre più accorciando e stanno incorporando la sostenibilità ambientale e un basso consumo di risorse naturali. Abbiamo a disposizione un set di tecnologie potentissime che potrebbero nell’arco di qualche decennio modificare profondamente i nostri assetti produttivi e la nostra vita sociale. Un mix di innovazioni nate in parte come miglioramento di specifiche attività produttive e in misura ancora più rilevante come sviluppo autonomo e continuo della rivoluzione informatica. Intelligenza artificiale, tecnologie dell’informazione, internet delle cose, combustibili puliti, agricoltura di precisione, biotecnologie, nanotecnologie, nuovi materiali.


La politica ambientale è piena di buone intenzioni, ma dovrebbe essere giudicata non da esse, ma dalla capacità di ottenere risultati positivi e misurabili. Insieme potrebbero portarci a realizzare un salto decisivo in quella che molti ritengono la strada maestra della sostenibilità ambientale: il disaccoppiamento fra crescita economica, miglioramento del benessere e consumo di risorse naturali. Già oggi consumiamo in proporzione alla ricchezza prodotta molte meno risorse naturali rispetto alle civiltà preindustriali. Ma possiamo fare molto meglio. 

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