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Si fa presto a dire scienza

Mattia Ferraresi

Il populismo ha svilito il sapere per esaltare il dogma. Ma nell’emergenza globale del Covid-19 è emerso il divario tra le aspettative mirabolanti dell’opinione pubblica (e dei governi) e la vera scienza, che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo sulle mascherine. Un confronto a più voci

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La pandemia ha mostrato il divario fra la scienza e La Scienza. La prima è l’umile esercizio della conoscenza della realtà secondo metodi specifici; la seconda è la sua parodia magica e onnisciente che abita nella coscienza collettiva. L’una e l’altra normalmente si confondono, abbracciate come sono nel grande fraintendimento epistemologico e comunicativo dei nostri tempi, ma le circostanze straordinarie che il mondo si trova ad attraversare hanno in qualche modo contribuito a distinguere e separare. E’ di moda dire che la crisi è un’opportunità, dunque tanto vale allinearsi al luogo comune e cogliere l’occasione per fare qualche precisazione attorno allo statuto della scienza e alle esorbitanti pretese di alcuni suoi presunti seguaci. Nell’affrontare la minaccia globale di un nuovo virus si è visto con rara chiarezza che la scienza, con la minuscola, è fatta di congetture. Il suo dibattito si articola in ipotesi competitive, faticose verifiche sperimentali, approssimazioni, certezze provvisorie, cambi di paradigma, scontri metodologici, fragili verità che appena conquistate vengono immediatamente rimesse in discussione. Per la scienza, la falsificazione di una teoria è un momento felice, perché escludere con un ragionevole grado di certezza una strada sbagliata significa fare un piccolo passo verso una strada giusta. Anzi, una strada più giusta. E’ il regno dell’incerto e del discutibile, abitato da metodologie fra loro in tensione e anche da ampi spazi dove incertezza e mistero dominano. In alcuni ambiti, gli scienziati possono arrivare ad essere certi dell’incertezza e a dimostrare l’indimostrabilità, occorrenza notevole e vertiginosa. La scienza è orientata innanzitutto alla descrizione dei fenomeni, non alla previsione di quello che verrà, ed è ancorata all’ignoranza autocosciente di Socrate: non solo “non so”, ma “so di non sapere”. Lo scienziato che ammette di non sapere non tradisce la sua vocazione scientifica, la compie.

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La pandemia ha mostrato il divario fra la scienza e La Scienza. La prima è l’umile esercizio della conoscenza della realtà secondo metodi specifici; la seconda è la sua parodia magica e onnisciente che abita nella coscienza collettiva. L’una e l’altra normalmente si confondono, abbracciate come sono nel grande fraintendimento epistemologico e comunicativo dei nostri tempi, ma le circostanze straordinarie che il mondo si trova ad attraversare hanno in qualche modo contribuito a distinguere e separare. E’ di moda dire che la crisi è un’opportunità, dunque tanto vale allinearsi al luogo comune e cogliere l’occasione per fare qualche precisazione attorno allo statuto della scienza e alle esorbitanti pretese di alcuni suoi presunti seguaci. Nell’affrontare la minaccia globale di un nuovo virus si è visto con rara chiarezza che la scienza, con la minuscola, è fatta di congetture. Il suo dibattito si articola in ipotesi competitive, faticose verifiche sperimentali, approssimazioni, certezze provvisorie, cambi di paradigma, scontri metodologici, fragili verità che appena conquistate vengono immediatamente rimesse in discussione. Per la scienza, la falsificazione di una teoria è un momento felice, perché escludere con un ragionevole grado di certezza una strada sbagliata significa fare un piccolo passo verso una strada giusta. Anzi, una strada più giusta. E’ il regno dell’incerto e del discutibile, abitato da metodologie fra loro in tensione e anche da ampi spazi dove incertezza e mistero dominano. In alcuni ambiti, gli scienziati possono arrivare ad essere certi dell’incertezza e a dimostrare l’indimostrabilità, occorrenza notevole e vertiginosa. La scienza è orientata innanzitutto alla descrizione dei fenomeni, non alla previsione di quello che verrà, ed è ancorata all’ignoranza autocosciente di Socrate: non solo “non so”, ma “so di non sapere”. Lo scienziato che ammette di non sapere non tradisce la sua vocazione scientifica, la compie.

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Illustrazione di Makkox


 

Non è in questo modo, tuttavia, che si presenta La Scienza. La cugina maiuscola è una rappresentazione su sagoma cartonata che assomiglia solo per sommi capi all’originale. E’ una sua versione semplificata fino allo sfiguramento. La Scienza è rapida, univoca, rigida, i suoi metodi sono chiari e condivisi, il suo potere di individuare, descrivere e trasformare la realtà non è soltanto enorme, ma viene esercitato secondo meccanismi che sono quasi del tutto privi di frizioni e incoerenze. Le sue conclusioni vanno accettate con trasporto fideistico. Le nozioni validate da La Scienza sono presentate al mondo come irrefutabili, e la dimensione comunicativa non è accessoria per una pratica che ha come orizzonte ultimo quello della persuasione: la scienza descrive, spiega; La Scienza convince. Espressioni tratte dal registro giornalistico come “cosa dice la scienza” o “la parola alla scienza” testimoniano l’equivoco: ci appella alla scienza ma si intende in realtà La Scienza, quella che con voce unica pronuncia parole definitive su un determinato argomento. La fallibilità è un tratto soltanto accidentale, una dimensione temporanea e necessariamente superabile. La sua massima è: oggi non sappiamo, domani sapremo. Il suo oggetto è l’ignoto, vale a dire ciò che ancora non è noto, il che esclude l’incertezza come fatto strutturale nell’attività di ricerca.

 

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Alla Scienza, cosa fondamentale, è attribuita una sconfinata capacità predittiva: ci si aspetta che possa predire il futuro in modo quasi infallibile, secondo una logica lineare espressa in modo efficace dall’algoritmo, l’onnipresente strumento che elabora scenari futuri sulla base di elementi presenti. La Scienza è il perno della stagione del grande tecno-entusiasmo elaborato negli anni Zero divenuto sistema negli anni Dieci, il periodo in cui molti nella Silicon Valley sono arrivati ad annunciare perfino la fine della teoria scientifica, mandata in soffitta dall’avvento del puro dato: “Con abbastanza dati, i numeri parlano da sé”, scriveva nel 2008 l’allora direttore di Wired, Chris Anderson. Quel tipo di visione si è rapidamente sedimentata nella coscienza collettiva, diventando la koiné del nostro tempo.

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La scienza è il regno dell’incerto e del discutibile, abitato da metodologie fra loro in tensione. Il momento felice della falsificazione. La Scienza, la cugina maiuscola, è una versione semplificata: è rapida, univoca, rigida, i suoi metodi sono chiari e condivisi


 

Quando il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, ha chiesto alla comunità scientifica, tramite un’intervista al Corriere della Sera, “di darci certezze inconfutabili e non tre quattro opzioni per ogni tema” non ha detto soltanto una sciocchezza epistemologica da seconda metà dell’Ottocento, ma ha dato voce a un sentimento di frustrazione popolare intorno a una scienza che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo sull’efficacia delle mascherine. Boccia aveva in mente La Scienza, non la scienza, e non gliene si può fare una colpa. La voce inconfutabile de La Scienza è quella più richiesta nei salotti televisivi, nei consigli di amministrazione, nei governi che vogliono di pezze d’appoggio firmate da “esperti” per prendere decisioni, nei consessi internazionali, nelle redazioni, nei comizi, nelle discussioni pubbliche in cui “tre o quattro opzioni” vengono presto a noia.

 

Il testo del patto trasversale per la scienza che nel gennaio 2019 ha messo d’accordo Beppe Grillo e Matteo Renzi è un esempio perfetto di questa concezione del discorso scientifico: “Tutte le forze politiche italiane si impegnano a sostenere la Scienza come valore universale di progresso dell’umanità”, esordisce un documento in cui il sapere scientifico emerge come nozione monodimensionale, l’apoteosi della semplificazione. Fatalità della grammatica, gli estensori hanno scelto la maiuscola.
La lunga stagione del populismo ha svilito la scienza, ma ha dato enorme vigore a La Scienza. Da Donald Trump al Movimento 5 Stelle fino a Vladimir Putin e Jair Bolsonaro, la contestazione del sapere scientifico e delle competenze – e delle élite a queste associate – ha esaltato, per necessità di contrasto, il dogmatismo de La Scienza. Lo spettro minaccioso di un fronte Anti Scienza ha rafforzato la percezione che fosse urgente gettarsi con rinnovato ardore religioso sulla Scienza, attività che ha avuto come effetto quello di ricalcare con un pennarello indelebile i preesistenti confini di un mondo rozzamente diviso fra pro vax e no vax, esseri razionali e ingeritori di idrossiclorochina, credibili e cialtroni, adepti dell’evidenza e ubriachi della superstizione, illuminati e cavernicoli. Chi non crede all’inconfutabile verità della Scienza è automaticamente un demente che vorrebbe curare il cancro con le tisane. Su questo sfondo non stupisce che un ministro della Repubblica, facendosi involontariamente portavoce dello Zeitgeist, abbia fatto alla scienza una richiesta totalmente assurda.

 


L’opinione pubblica, abituata alla semplificazione de La Scienza, ha scoperto che nel perimetro dove si muovono gli scienziati accreditati, con cattedre importanti e carriere costellate di ricerche rigorosamente riviste tra pari, ci sono scuole di pensiero fra loro in aspro conflitto 


 

Nell’emergenza globale del Covid-19 gli scienziati si sono contraddetti, accapigliati, scontrati e all’occorrenza anche denunciati su tutto, dalle mascherine ai tamponi, dai test sierologici all’origine del nuovo coronavirus, dalle modalità di trasmissione all’estensione del contagio, dalla carica virale degli asintomatici ai presunti segni di indebolimento del virus. Comitati scientifici di mezzo mondo hanno offerto valutazioni anche radicalmente contrastanti sull’evoluzione dell’epidemia e così gli stati, e perfino i singoli enti locali, hanno disposto piani d’intervento tra loro molto diversi. Casi oggi considerati virtuosi, come lo stato di Washington e il Veneto, sono il frutto di strategie che violavano apertamente le indicazioni del Centers for disease control and prevention, dell’Istituto superiore di sanità e dell’Organizzazione mondiale della sanità, gli apparenti garanti di un qualche consenso scientifico.

 

Questo articolato dibattito, che dal vivace è scivolato spesso nel feroce, è perfettamente normale per la scienza, ma è uno scandalo imperdonabile per La Scienza, che rifugge la complessità. L’opinione pubblica, abituata alla semplificazione de La Scienza, ha scoperto così che nel perimetro dove si muovono gli scienziati accreditati, con cattedre importanti e carriere costellate di ricerche rigorosamente riviste tra pari, ci sono scuole di pensiero fra loro in aspro conflitto. Nel campo dell’epidemiologia, ad esempio, hanno piena cittadinanza scienziati che lavorano con le simulazioni basate su modelli matematici, come l’inglese Neil Ferguson dell’Imperial College, eroe della previsione pandemica, e clinici rigorosamente devoti al metodo evidence-based che non si affidano ai modelli astratti in assenza di studi randomizzati su pazienti reali, come John Ioannidis di Stanford. Quest’ultimo ha scritto che la risposta alla pandemia è stata “un fiasco”, perché basata su “dati totalmente inaffidabili”. Anche all’interno di queste scuole metodologiche non mancano i disaccordi, gli errori marchiani, le felici coincidenze. I modellisti a volte elaborano modelli buoni, a volte no. Gli studi di Ferguson e dei suoi colleghi hanno anticipato con buona approssimazione quello che poi si è verificato, e i devoti de La Scienza lo hanno portato in trionfo; ma Ferguson era lo stesso che nel 2005, sviluppando modelli sull’influenza aviaria, prevedeva la morte di 200 milioni di persone. Alla fine di quell’anno, i morti per H5N1 erano 74, e l’intera epidemia ha fatto qualche centinaio di vittime. L’esperto britannico è un luminare o un cialtrone? Ecco un dilemma buono per La Scienza, pessimo per la scienza. Ferguson è, più semplicemente, uno scienziato.

 

Dalle nostre parti, dove anche alla virologia riesce di prendere la china della commedia all’italiana, il dissenso fra scienziati è passato dalle denunce contro i “virologi della domenica” a “questi li ascriviamo alla categoria dei pagliacci”. Qualche esperto in camice ha anche spiegato ai cattolici gli effetti della transustanziazione sul R0. Gli scienziati sono umani, e questo si sapeva, ma anche Gli Scienziati lo sono, e questo era invece un po’ meno chiaro. Capire chi, in questo conflitto globale delle interpretazioni, ci ha indovinato e chi invece ha toppato ha forse una qualche rilevanza ai fini della circostanza particolare (e drammatica) che il mondo sta vivendo; ma la questione dello statuto della scienza, dei suoi limiti, dei suoi ideali autentici, del suo rapporto con La Scienza che vive nelle aspettative dell’opinione pubblica, è anche più gravida di implicazioni e conseguenze. Per affrontarne alcune occorre interrogare non solo gli scienziati, ma anche i filosofi, che si occupano della sofia, oltre che dell’episteme. Il Foglio ha raccolto le riflessioni di alcuni osservatori.

 


“Forse l'idea più importante della scienza è la negazione: il limite delle condizioni di verità, il pensiero dell’altro, la comprensione dei limiti di ogni frammento di conoscenza. Altra cosa, invece, è la lettura esterna, che trasforma la scienza in una sorta di Prometeo contemporaneo” (Zalamea)


 

Il matematico colombiano Fernando Zalamea, professore alla Universidad Nacional de Colombia, dove si occupa fra le altre cose di filosofia della matematica, non crede che la scienza uscirà da questa situazione più debole. Al contrario, la sua immagine sarà rafforzata. “E’ naturale che la scienza proceda per tentativi ed errori, lo ha sempre fatto. Ma ora questo processo è stato molto più osservato dall’opinione pubblica e il suo metodo è risultato attraente. Perfino la matematica, apparentemente così chiara e sicura, procede spesso per correzione degli errori (è il metodo delle congetture, con cui avanza la conoscenza scientifica). Dopo i naturali dubbi iniziali nella risposta al Covid-19, quando verranno messi a punto i vaccini, la scienza sarà vista, in maniera esagerata, ovviamente, come la ‘salvezza’ dell’umanità. Un discorso molto diverso riguarda invece l’appropriazione, oppure la sfida, della scienza da parte della politica, i cui effetti sono particolarmente disastrosi. Le politiche di Trump sono un esempio di incompetenza che rimarrà nella storia”. Allo stesso tempo, dice Zalamea, “la scienza ha acquisito terribili componenti dogmatiche, conseguenze di un neopositivismo ‘duro’ e del metodo analitico, che frammentano la conoscenza”. Continua Zalamea: “La logica che sta alla base del neopositivismo e dei dogmi analitici è classica, binaria: si applica la legge dell’‘essere o non essere’. La realtà della scienza, invece, non è dogmatica, è sempre in evoluzione, ed è governata esternamente da una logica dinamica, non binaria. Il pensiero contemporaneo deve cambiare la logica: questo il ‘buon senso’ non l’ha ancora capito”.

 

La pandemia può essere l’occasione per una riflessione della scienza sui suoi limiti? “Penso che i limiti della scienza siano molto chiari”, dice Zalamea, “almeno dai teoremi di incompletezza di Gödel in matematica. A maggior ragione le altre scienze ‘esatte e naturali’ sono ben consapevoli dei loro limiti. In effetti, forse l’idea più importante della scienza è la negazione: il limite delle condizioni di verità, il pensiero dell’altro, la comprensione dei limiti di ogni frammento di conoscenza. Altra cosa, invece, è la lettura esterna che è stata fatta del metodo scientifico e che trasforma la scienza in una sorta di ‘Prometeo contemporaneo’”.

 

Il filosofo Giovanni Maddalena, professore di Filosofia della comunicazione all’Università del Molise, spiega che la smisurata fiducia nel potere delle scienze naturali di spiegare e risolvere è figlia di una più generale idea della conoscenza che si è affermata nel discorso pubblico negli ultimi decenni. “La conoscenza è intesa sempre e solo come conoscenza analitica. Non siamo mai usciti dal modello di Kant: una certezza si ottiene soltanto attraverso modelli meccanici, e non attraverso modelli organici.

 


“Una concezione della conoscenza ideologica, che resiste alla falsificazione” (Maddalena). L’imprevedibilità di fenomeni come il Covid-19. Il “nuovo scientismo” che proietta sulla natura un’idea meccanicista. La priorità delle scelte su come e dove si dirige la ricerca scientifica, una questione politica


 

Purtroppo la scuola italiana ha perpetuato questa concezione di fine Ottocento e inizio Novecento, pagando un debito altissimo alla tradizione idealista, che separava le scienze dello spirito dalle scienze naturali. Questa divisione è sopravvissuta, e non ci permette di capire che tutto ha un potere conoscitivo. Tutta la scienza ha bisogno di cognizioni etiche, estetiche, di fiducia, di comunità e così via. Il modello analitico non tiene conto di tutto questo”.

 

Se è un’idea parziale, perché ha attecchito così in profondità? Perché “funziona”, cioè dà risultati sperimentali pratici? “Certamente questa idea della ragione ha avuto successo anche perché ha trovato una sua dimensione realizzativa, che è espressa nel paradigma della macchina. Poi la capacità di costruire macchine ha prodotto anche dei disastri devastanti, ma questo tendiamo a dimenticarlo. Ma io credo che, più profondamente, la tradizione filosofico-culturale che si è imposta nell’ambito scientifico abbia vinto perché permette a chi la pratica di evitare di mischiarsi con i problemi della metafisica, dell’estetica, della morale, dell’antropologia. Il modello analitico permette di spiegare alcune cose senza infilarsi in questioni troppo complicate. Studiare la scienza seriamente, invece, apre problemi umani profondi che difficilmente si vogliono affrontare. Anzi, sono problemi che dall’illuminismo in poi abbiamo deciso di non affrontare, se non in ambiti separati e minoritari”. Secondo Maddalena, l’effetto del grande caos scientifico che durante la pandemia è arrivato anche alle orecchie dei più scientisti sarà “nullo”, perché “questa concezione della conoscenza è ideologica, quindi resiste alla falsificazione. Gli scienziati hanno fatto ciò che fanno normalmente, cioè lavorare nel mondo delle ipotesi, ma si è vista una inquietante discrepanza fra le aspettative delle persone e un metodo che, in realtà, è estremamente fallibile”.

 


“La conoscenza storica permette l’azione, ma non la predizione, come invece dicono le promesse roboanti di una certa tecnoscienza” (Longo). L’esperienza di questi mesi “ci ha insegnato più sul nostro bisogno di certezze che non sui limiti della scienza” (Bagnoli)


 

Il matematico ed epistemologo Giuseppe Longo, professore alla Ecole Normale Supérieure di Parigi e alla Tufts University di Boston, spiega che la rappresentazione della scienza “è ferma alla concezione della meccanica classica che è stata valida da Galileo a Laplace, e dunque al paradigma di osservazione, esperimento, teoria e predizione che funzionava in quel modello. Ma basta un po’ di non-linearità per capire che, individualmente, fenomeni come il Covid-19 sono imprevedibili”. C’è chi dice però che era stato tutto previsto, come lo spiega? “L’idea della ‘epidemia di epidemie’ circola dal 1993 e se guardiamo alla serie storica delle patologie vediamo che c’è stata un’intensificazione negli ultimi decenni, a causa della deforestazione, dell’agricoltura intensiva e altre pratiche che creano le condizioni per la comparsa di nuove malattie. Ma questo non significa che possiamo prevedere qualcosa di preciso. La conoscenza storica permette l’azione, ma non la predizione, come invece dicono le promesse roboanti di una certa tecnoscienza che, armata di una visione semplicistica della natura e finanziata in maniera sproporzionata, sostiene di poter programmare e prevedere ogni cosa. Nel 2001, quando è stato sequenziato il genoma, il direttore del National cancer institute americano ha detto che entro il 2015 il cancro sarebbe stato sconfitto, e invece l’incidenza dei tumori è aumentata. Poi è stata la volta degli studi sul cervello, sull’intelligenza artificiale, sui big data e così via. Adesso ci saranno grandi investimenti sulle epidemie, fra qualche anno ce ne dimenticheremo e poi saremo colti da tutt’altro”. Longo parla di un “nuovo scientismo” che proietta sulla natura un’idea meccanicista: “Si tratta di una gravissima distorsione della scienza, ma è questa, purtroppo, l’immagine prevalente che arriva al pubblico”. In un breve paper che ha scritto a proposito del Covid-19, Longo ha notato un paradosso: questa concezione semplicistica della natura, brandita in nome della scienza, finisce per eliminare la scienza stessa: “Per convenienza economica di corto respiro, spesso di pochi, si impone una negazione della storia della vita, della costruzione evolutiva degli ecosistemi, della loro specificità e diversità, che è la causa principale delle attività che li distruggono. Spesso questa negazione trova la sua giustificazione in un nuovo scientismo, che elimina la scienza”, scrive.

 

Secondo la filosofa Carla Bagnoli, professoressa di Filosofia teoretica all’Università di Modena e Reggio Emilia, l’esperienza di questi mesi “ci ha insegnato più sul nostro bisogno di certezze che non sui limiti della scienza”. Dice Bagnoli: “Al netto delle dichiarazioni avventate, le differenze tra esperti sono spesso un elemento propulsivo della ricerca scientifica, non una debolezza. Il processo di indagine scientifica non è sempre lineare e non ci si può aspettare che le scoperte avvengano a comando, dove e quando ci si aspetta delle certezze. L’incertezza e la vulnerabilità sono condizioni costitutive dell’agire umano e devono essere gestite con intelligenza pratica. Dobbiamo, per necessità, agire in condizioni di incertezza e possiamo farlo avvalendoci di strategie intelligenti. Gli scienziati hanno svolto il loro compito quando, quasi venti anni fa, al tempo della Sars-Cov-2, hanno messo a punto modelli epidemiologici sulla base dei quali hanno delineato scenari allarmanti. L’allarme non è stato accolto. Il ritardo delle istituzioni governative è stato fatale nei casi di rischio biologico, con le conseguenze che sappiamo. Mi sembra questo il punto fondamentale che impone di guardare non solo al modo in cui l’emergenza viene affrontata, ma soprattutto al modo in cui vengono stabilite le priorità di lungo corso. E’ sulla questione delle priorità che vedo contrapporsi visioni radicalmente opposte a proposito del da farsi, non tanto su come e se mettere a frutto i ritrovati della scienza, ma su come garantire le basi di una convivenza giusta e democratica. Parlando di priorità non mi riferisco solo alle scelte riguardo alla sanità pubblica ma anche alle scelte che indirizzano la ricerca scientifica su certi obiettivi piuttosto che altri. La questione della priorità delle scelte su come e dove si dirige la ricerca scientifica è una questione politica e, come abbiamo constatato a più riprese, una questione politica di vitale importanza”.

 

Crede che le attese riguardo al potere della scienza siano la testimonianza di un generalizzato atteggiamento neopositivista? “Non credo sia sensato parlare di un ritorno del neopositivismo, ma di certo c’è un doppio fraintendimento alla base di certe aspettative riguardo alle scienze. Il primo fraintendimento riguarda la natura della ricerca scientifica, che ha i suoi tempi, tempi per raccogliere dati sufficienti ad elaborare ipotesi plausibili, confrontarle, controllarle secondo i protocolli, etc. La scienza ci restituisce certezze per certi versi instabili, che sono continuamente al vaglio della comunità scientifica. Ma ciò non è segno di malfunzionamento; anzi, è garanzia di affidabilità e di apertura al miglioramento. Nonostante i tempi lunghi e le dinamiche della scoperta scientifica, la scienza non è arrivata in ritardo: è dalla epidemia Sars-Cov2 del 2003 che gli scienziati sono in allerta riguardo alla probabilità di pandemia. Il secondo fraintendimento riguarda la distribuzione delle responsabilità specifiche. Gli scienziati identificano il rischio e lo quantificano, ma sta ai politici gestire il rischio in modo intelligente equo e in modo rispettoso della convivenza democratica. È la loro prima responsabilità. La responsabilità di garantire la sicurezza e l’accesso alla sanità, nel caso di rischio biologico. Le scelte su come gestire il rischio sono etiche e politiche. Sono scelte nell’allocazione delle risorse, ma non solo. Sono anche scelte strategiche su che cosa conta di più e deve essere protetto, scelte su che cosa è meglio investire, dato che le risorse sono scarse. Buone scelte strategiche mettono in condizioni di costruire le difese di una comunità in largo anticipo, e di non arrivare impreparati di fronte ad una emergenza ingestibile se non a costi enormi. Le buone strategie sono informate da principi di giustizia ed equità; sono quelle che minimizzano le scelte tragiche. Gli stati che sono arrivati più impreparati all’emergenza subiscono scelte dissennate riguardo alla distribuzione delle risorse e alla sanità pubblica: sono quelli in cui il rischio sociale è più alto e nel quale la ricostruzione troverà ostacoli importanti, proprio per la carenza di strutture cooperative e di una cultura della solidarietà”.

  


“Ogni teoria vive sempre sotto assedio, e oggi le teorie hanno una vita più breve rispetto al passato, e dunque non c’è nulla di male nel vedere gli scienziati che si contraddicono: tentano di imparare, di capire” (Antiseri). “Affidarsi eccessivamente ai dati”, l’errore paradossale della Svezia (Angner)


 

La pandemia potrebbe essere l’occasione per riaffermare invece i limiti dello statuto della scienza? Risponde Bagnoli: “Il punto nevralgico del problema non mi sembra lo statuto della scienza, ma i nodi della filiera che legano la ricerca scientifica alla società civile. In questi ultimi mesi, abbiamo consultato tutti spasmodicamente siti dedicati al coronavirus, in cerca di rassicurazioni, più che di risposte. La scienza non è sempre rassicurante: a volte ci profila scenari che spaventano. Le rassicurazioni devono venire prima di tutto dalle istituzioni, che devono garantire una gestione responsabile della sanità pubblica. Ma ci vuole anche una cultura della responsabilità personale. Quando si parla di scienza, al singolare, si intende le scienze naturali. Ma proprio il tipo particolare di emergenza generato dalla pandemia fa risaltare che le scienze sociali, politiche e umanistiche sono altrettanto importanti. Le strategie più efficaci nel contrasto della pandemia sono state il distanziamento fisico e i dispositivi di protezione come la mascherina. Osservare le regole di distanziamento e indossare la mascherina sono comportamenti sociali cooperativi normati, non sono nuove scoperte scientifiche. Si tratta di risorse sociali fondamentali per la capacità di risposta all’emergenza. La capacità di interazione cooperativa, la solidarietà, la sensibilità verso le fragilità dell’altro, la capacità di assumersi le proprie responsabilità rispetto alla comunità sono le risorse che abbiamo attivato. La dedizione dei medici, infermieri e operatori sanitari e sociali è stata esemplare e, aggiungo, paradigmatica, perché mette a fuoco proprio le virtù di responsabilità personale e sociale necessarie per contrastare il rischio pandemico. Certo, si tratta di una coordinazione normata: la cittadinanza è stata opportunamente vincolata da decreti restrittivi e da sistematiche operazioni di nudging. Ma c’è stato un adattamento e un adattamento pronto. Ritengo che il richiamo alla responsabilità individuale sia stato corretto, poiché per la natura pandemica dell’emergenza, siamo tutti agenti vulnerabili e potenziali portatori di contagio. E’ un’esperienza spiazzante sapere di costituire una minaccia per l’altro, di poter mettere a repentaglio la vita dei propri genitori, semplicemente con un abbraccio. Ma abbiamo imparato in poco tempo a rivedere abitudini e atteggiamenti, per il bene di tutti. Credo che questa esperienza, sebbene sofferente e costrittiva, abbia creato una consapevolezza e un senso di comunanza anche dove non c’erano; e, soprattutto, un senso di appartenenza ben diverso da quello fondato su identità e confini nazionali. Questo senso allargato di comunità sarà una risorsa determinante per ripartire. Il contributo delle scienze sociali, politiche e umanistiche per la ricostruzione è essenziale e spero che le istituzioni di governo possano e vogliano avvalersi anche di queste competenze: si tratta di ridisegnare un futuro e un nuovo patto intergenerazionale”.

 

Il filosofo Dario Antiseri cita Karl Popper, di cui è uno degli interpreti più noti: “Razionale non è un uomo che vuole avere ragione ma un uomo che vuole imparare: dai propri errori e da quelli altrui”. Spiega Antiseri: “Con il coronavirus si è affacciato un problema nuovo, e la scienza lo affronta andando per tentativi, sempre tenendo conto che la soluzione giusta non è una soluzione vera in termini assoluti. Ogni teoria vive sempre sotto assedio, e oggi le teorie hanno una vita più breve rispetto al passato, e dunque non c’è nulla di male nel vedere gli scienziati che si contraddicono: tentano di imparare, di capire”. Antiseri nota una duplice tendenza nel mondo in cui la scienza è percepita nel dibattito pubblico: “Da una parte c’è l’atteggiamento di chi si affida all’oroscopo per sapere qualcosa del futuro e non crede agli articoli scientifici. Penso ai no vax, ad esempio. Ma dall’altra c’è anche un’idea magica della scienza, come se questa potesse essere una pratica che risolve tutti i problemi in maniera definitiva. Sono entrambi atteggiamenti sbagliati. Dobbiamo eliminare l’idea che la scienza o risolve i problemi per sempre oppure non vale niente. Questo atteggiamento dogmatico della scienza si può correggere, a mio avviso, con forti iniezioni di storia della scienza”.

 

Erik Angner, professore di Filosofia pratica all’Università di Stoccolma, introduce l’idea di “umiltà epistemica”, atteggiamento per cui gli scienziati dovrebbero sempre tenere presente che “il metodo scientifico si muove nel campo del provvisorio e non coincide con l’intero spettro della razionalità umana”. Ci sono molti ambiti in cui la ragione opera al di fuori della metodologia scientifica, dice Angner, riconoscendo che la sensibilità contemporanea è caratterizzata da una fiducia smodata nella conoscenza scientifica. Si prende la parte per il tutto. “La colpa è anche degli scienziati, che tendono a esagerare le loro capacità di capire e prevedere”, dice. La pandemia è un caso di scuola: “Fino a questo momento, e verosimilmente fino alla produzione di un vaccino, non è stata adottata nessuna vera misura medico-scientifica per contenere il contagio. Le soluzioni fin qui tentate sono tutte nell’ambito delle scienze comportamentali, dunque si tratta di uno sforzo della ragione più ampio della mera dimensione scientifica, e in particolare della scienza di laboratorio. Per decidere come affrontare il problema si deve tenere conto delle persone che si vogliono proteggere prioritariamente, della libertà che si è disposti a sacrificare, dei danni sociali ed economici che certe misure comportano, e via dicendo. Si deve tenere conto, cioè, di valori, non solo di dati”.

 

La Svezia che non ha preso la strada del lockdown, ma quella del distanziamento sociale soltanto suggerito fino all’immunità di gregge, e nelle ultime settimane ha toccato picchi di mortalità superiori a molti fra i paesi più colpiti, è additata spesso come esempio di stato che ha assunto una posizione antiscientifica. La faccenda è più complicata, nota Angner: “In un certo senso, la Svezia ha adottato in realtà la posizione più scientifica, avendo seguito un approccio evidence-based, fondato cioè sulle prove sperimentali. Il problema è che gli scienziati svedesi hanno fissato uno standard troppo rigoroso per definire cosa costituisce una ‘evidenza’ accettabile, e così hanno scartato i modelli matematici e altre ipotesi congetturali. Paradossalmente, l’errore è stato quello di affidarsi eccessivamente ai dati”.

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