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I danni collaterali della sovraesposizione mediatica (e non) degli esperti

Piero Vietti

Abbiamo assistito a liti social tra virologi, frecciatine via stampa tra immunologi, prese di distanza tra epidemiologi nei talk. "Abituati a scrivere su riviste specializzate, sono stati catapultati su mezzi mai frequentati", dice Aldo Grasso

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Roma. E’ difficile trovare una categoria in cui catalogare molte uscite che diversi esperti del coronavirus (virologi, immunologi, infettivologi, medici in generale) hanno fatto in questi due mesi di emergenza. Trattati come oracoli infallibili fin dall’inizio, hanno coperto più o meno tutto il ventaglio di possibilità sugli effetti del virus, dal banale raffreddore all’apocalisse. Senza arrivare alle “certezze inconfutabili” che qualche giorno fa il ministro Boccia chiedeva alla comunità scientifica senza le quali la politica non avrebbe potuto decidere, tutti noi ci siamo abbeverati a tweet, interviste e ospitate in tv degli esperti certi che la loro parola sarebbe stata quella definitiva. Così non è stato, anzi, con il passare dei giorni abbiamo assistito a liti social tra virologi, frecciatine via stampa tra immunologi, prese di distanza tra epidemiologi nei talk-show. Per uno che parlava di picco dei contagi ce n’era sempre almeno un altro che diceva di no, “la salita è ancora lunga”, per un esperto che consigliava le mascherine eccone un altro ribadire la loro inutilità, a un professore possibilista sulle riaperture delle attività commerciali faceva eco un ricercatore che invitava a tenere tutto chiuso fino a fine anno. “Questi esperti fanno parte di una categoria ignorata da tutti prima dell’emergenza – dice al Foglio il critico televisivo del Corriere della Sera Aldo GrassoSi sono trovati improvvisamente sulla scena pubblica con responsabilità enormi, molti sono stati fagocitati dal medium: abituati a parlare scrivendo su riviste specializzate, sono stati catapultati dal loro ruolo su mezzi mai frequentati. In molti casi ci siamo accorti che anche gli esperti sono come tutti gli altri: hanno iniziato a parlare come si parla nei talk-show e nel salotto di Barbara D’Urso”. Prima della pandemia si conosceva solo Roberto Burioni, oggi ciascuno ha il suo virologo del cuore per cui fa il tifo sui social. “Ognuno vuole il suo spazio – continua Grasso – quindi sono portati a dare opinioni diverse, a litigare pubblicamente”.

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Roma. E’ difficile trovare una categoria in cui catalogare molte uscite che diversi esperti del coronavirus (virologi, immunologi, infettivologi, medici in generale) hanno fatto in questi due mesi di emergenza. Trattati come oracoli infallibili fin dall’inizio, hanno coperto più o meno tutto il ventaglio di possibilità sugli effetti del virus, dal banale raffreddore all’apocalisse. Senza arrivare alle “certezze inconfutabili” che qualche giorno fa il ministro Boccia chiedeva alla comunità scientifica senza le quali la politica non avrebbe potuto decidere, tutti noi ci siamo abbeverati a tweet, interviste e ospitate in tv degli esperti certi che la loro parola sarebbe stata quella definitiva. Così non è stato, anzi, con il passare dei giorni abbiamo assistito a liti social tra virologi, frecciatine via stampa tra immunologi, prese di distanza tra epidemiologi nei talk-show. Per uno che parlava di picco dei contagi ce n’era sempre almeno un altro che diceva di no, “la salita è ancora lunga”, per un esperto che consigliava le mascherine eccone un altro ribadire la loro inutilità, a un professore possibilista sulle riaperture delle attività commerciali faceva eco un ricercatore che invitava a tenere tutto chiuso fino a fine anno. “Questi esperti fanno parte di una categoria ignorata da tutti prima dell’emergenza – dice al Foglio il critico televisivo del Corriere della Sera Aldo GrassoSi sono trovati improvvisamente sulla scena pubblica con responsabilità enormi, molti sono stati fagocitati dal medium: abituati a parlare scrivendo su riviste specializzate, sono stati catapultati dal loro ruolo su mezzi mai frequentati. In molti casi ci siamo accorti che anche gli esperti sono come tutti gli altri: hanno iniziato a parlare come si parla nei talk-show e nel salotto di Barbara D’Urso”. Prima della pandemia si conosceva solo Roberto Burioni, oggi ciascuno ha il suo virologo del cuore per cui fa il tifo sui social. “Ognuno vuole il suo spazio – continua Grasso – quindi sono portati a dare opinioni diverse, a litigare pubblicamente”.

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All’estero, dice Lorenzo Pregliasco, direttore di YouTrend, “questa ricerca spasmodica dell’esperto c’è molto di meno”. Il fatto che da settimane veniamo bombardati da previsioni e opinioni dei virologi “ha contribuito a creare la confusione che c’è oggi. C’è poi un grande equivoco: nell’immaginario comune il dibattito scientifico non esiste, si crede che la scienza dia la soluzione, ma non è così. Esserci appoggiati con questa aspettativa alle parole degli esperti è stato un errore, basta vedere le continue contraddizioni che da una settimana all’altra ci sono sulle misure di contenimento e i comportamenti da tenere”.

 

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Eppure sembra che senza esperti non si possa capire il mondo. “L’esaltazione della figura dell’esperto ha le sue ragioni d’essere nel fatto che la ragione è lo strumento fondamentale per l’azione umana, e deve esserlo – dice Pier Paolo Bellini, sociologo della comunicazione presso l’Università del Molise – Qui però subentrano due problematiche fondamentali: la scienza è a sua volta una modalità di conoscenza, che ha come privilegio quello della replicabilità dei procedimenti, delle metodologie e dei risultati in misura statisticamente superiore agli altri metodi di conoscenza. L’esperienza umana è sezionabile scientificamente, cioè a tavolino, ma non di fatto. Quello che afferma in maniera assoluta una prospettiva disciplinare deve essere necessariamente relativizzata da un’altra. Per capirci: se continuiamo così non moriamo di virus, però moriamo di fame”.

 

Ancora Aldo Grasso: “Dopo due mesi di dichiarazioni le uniche certezze che abbiamo sono tre: lavarsi le mani, stare a casa, mantenere la distanza. Sono consigli di buon senso, su tutto il resto, dalle mascherine ai test, ci sono contraddizioni a seconda di chi parla”. Nessuno scandalo, è la scienza, ma se la politica prima di prendere decisioni aspetta che essa dia una risposta infallibile si finisce poi a moltiplicare le task force infarcendole di esperti. “Il disastro più grosso, dopo quello comunicativo, che un giorno andrà studiato, è la politica che aspetta una risposta univoca dalla scienza prima di muoversi”, dice ancora Grasso. La politica, aggiunge Bellini, “dovrebbe avere la consapevolezza e il coraggio di organizzare la vita civile in una prospettiva inclusiva”, che tiene conto anche di altre variabili. Dovrebbe avere, dice, “un ‘bernoccolo dell’umano’, tanto rispettoso di quello che la scienza mette a disposizione quanto coraggioso nel considerare quello che non potrà mai essere approcciato con i metodi della replicabilità”.

 

Quello del tweet anti Trump di Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute per l’emergenza Covid, è il caso più eclatante di esperto che si sente in dovere di dire la sua su tutto, anche su ciò che non gli compete. Ci sono medici e ricercatori che in questo periodo sono ospiti fissi delle tv o editorialisti di giornali nonostante alcune loro uscite fuori luogo sulla gravità del virus. “Nel dibattito italiano e sulle decisioni non si capisce chi suggerisce cosa e in che forma – conclude Pregliasco – La tracciabilità dei pareri che informano le decisioni pubbliche è difficoltosa, ma in tutto questo gli esperti sentono il bisogno lo stesso di parlare”. Aumentando la confusione, tra i balbettii della politica.

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