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Vaccini e green pass, la Danimarca riapre. È davvero un rischio ragionato?

Giovanni Rodriquez

La variante Delta circola e i contagi sono aumentati, ma il governo danese ha deciso di ritornare a una quasi totale normalità avendo vaccinato quasi l’intera categoria dei soggetti a rischio

Come procedono le cose in Danimarca dal punto di vista epidemiologico? Circa un mese fa raccontavamo il successo del modello adottato da questo Paese con l’introduzione di un “corona passport”, ossia qualcosa di molto simile al green pass, già a partire dallo scorso aprile. Anche qui, come sta avvenendo nel resto d’Europa, il numero dei contagi sta risalendo trainato dalla variante delta. Ad agosto si viaggia ormai ad una media di circa 900 casi al giorno, dato ancora contenuto ma ben più alto dei 151 casi registrati a fine giugno. Restano però molto limitati i decessi, in tutto se ne sono registrati 3 nei primi 10 giorni di agosto.

L’incremento dei casi è coinciso anche con la riapertura degli uffici, in attesa che dal prossimo lunedì riaprano anche le scuole con la didattica in presenza. Nelle prossime settimane è quindi già atteso un aumento significativo dei nuovi casi giornalieri. Il venir meno progressivo delle restrizioni con la ripresa delle attività lavorative e didattiche comporterà un tasso di infezione più alto. Questo, per le autorità danesi, è un rischio calcolato. La decisione è stata presa alla luce dell’alto tasso di vaccinazione che è intorno al 74 per cento per chi ha ricevuto almeno una dose di vaccino e di oltre il 60 per cento per chi ha completato l’intero ciclo.

Inoltre, è ben oltre il 90 per cento il tasso di copertura vaccinale tra i più anziani e fragili, ossia tra chi è più a rischio ospedalizzazione e morte in caso di Covid. E proprio questo è il ‘cuore’ della scommessa danese: quasi l’intera categorie dei soggetti a rischio è protetta dal vaccino, quindi potrebbe non essere un disastro se bambini e ragazzi a scuola rischiassero di infettarsi. A quel punto i loro nonni avrebbero infatti meno probabilità di contrarre il Covid in forma severa e di finire ricoverati in ospedale o peggio ancora morire.

La strategia è però rischiosa perché sappiamo che nessun vaccino può offrire un’efficacia del 100 per cento nel prevenire il contagio e l’ospedalizzazione e, soprattutto, non sappiamo ancora quanto sia duratura la sua protezione. Inoltre, in questo modo verrebbe meno la capacità di mantenere bassa la circolazione del virus. I vantaggi di un’incidenza bassa sono quelli di avere bassi livello di mortalità e morbilità; protezione nei confronti di chi non è ancora protetto o non può ricorrere al vaccino; abbassare il rischio di comparsa e diffusione di nuove varianti; ridurre il rischio di avere un elevato numero di forza lavoro in quarantena o isolamento, compresi gli operatori sanitari; e garantire che le scuole ed i servizi per l'infanzia possano rimanere aperto ed in presenza anche durante la prossima stagione autunno-inverno, quando anche l’influenza stagionale farà la sua comparsa. 

Al contrario, anche per i motivi che spiegavamo in precedenza, un'alta incidenza potrebbe ancora mandare in sovraccarico gli ospedali e le unità di terapia intensiva di alcuni paesi, con le ricadute che ormai conosciamo anche per i soggetti affetti da altre patologie. Va infine sempre tenuto conto che parliamo di una pandemia globale e che nessun Paese può ‘salvarsi’ da solo. E allora l'insufficiente copertura vaccinale in molti paesi europei, le attuali incertezze sulla vaccinazioni dei più giovani e il tempo necessario per la completare l’immunizzazione degli adolescenti nei Paesi che hanno già avviato le vaccinazioni per queste fasce d’età sono tutti elementi che suggeriscono l’utilità di una strategia comune, europea, votata al mantenimento di un basso livello di incidenza. Almeno fino a che tutto il  continente non abbia raggiunto alti livelli di copertura. Fino a quel momento, l'obiettivo dovrebbe essere quello di ridurre al minimo i costi in termini sia di vite che economici per l'Europa ed il resto del mondo.

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