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Il Foglio salute

Dopo un anno di Covid-19 possiamo essere ottimisti: c’è luce in fondo al tunnel

Giuliano Rizzardini

Cosa abbiamo imparato combattendo la pandemia e quali sfide ci attendono

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I primi due casi di Covid in Italia sono stati confermati il 30 gennaio del 2020 e riguardavano due turisti provenienti dalla Cina, ma è dalla sera del 20 febbraio dello stesso anno, quando a Codogno si è registrato il primo focolaio, che il virus è entrato prepotentemente nelle vite di tutti noi. Ed era solo l’inizio. 
A quasi un anno da quel giorno abbiamo visto cambiare lo scenario sanitario mondiale come non avremmo mai voluto. Abbiamo dovuto fare conoscenza col Covid, comprenderne i meccanismi, le modalità e le intenzioni. Abbiamo purtroppo contato le vittime, troppe vittime, fatto i conti con una nuova gestione della quotidianità e ci siamo chiesti più volte il senso di quello che stava e che sta accadendo, comprendendo sempre più a fondo quanto possiamo essere fragili.
Ma ci siamo anche rimboccati le maniche, abbiamo dato fondo a ogni risorsa per poter fornire un servizio ai pazienti che non fosse solo di presa in carico, ma che tenesse conto anche della relazione con i famigliari costretti a stare lontani dai propri cari che si trovavano ospedalizzati. Nei casi peggiori siamo stati l’ultimo volto che le persone hanno visto, l’ultima voce che hanno sentito, l’ultimo conforto che hanno trovato.

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I primi due casi di Covid in Italia sono stati confermati il 30 gennaio del 2020 e riguardavano due turisti provenienti dalla Cina, ma è dalla sera del 20 febbraio dello stesso anno, quando a Codogno si è registrato il primo focolaio, che il virus è entrato prepotentemente nelle vite di tutti noi. Ed era solo l’inizio. 
A quasi un anno da quel giorno abbiamo visto cambiare lo scenario sanitario mondiale come non avremmo mai voluto. Abbiamo dovuto fare conoscenza col Covid, comprenderne i meccanismi, le modalità e le intenzioni. Abbiamo purtroppo contato le vittime, troppe vittime, fatto i conti con una nuova gestione della quotidianità e ci siamo chiesti più volte il senso di quello che stava e che sta accadendo, comprendendo sempre più a fondo quanto possiamo essere fragili.
Ma ci siamo anche rimboccati le maniche, abbiamo dato fondo a ogni risorsa per poter fornire un servizio ai pazienti che non fosse solo di presa in carico, ma che tenesse conto anche della relazione con i famigliari costretti a stare lontani dai propri cari che si trovavano ospedalizzati. Nei casi peggiori siamo stati l’ultimo volto che le persone hanno visto, l’ultima voce che hanno sentito, l’ultimo conforto che hanno trovato.

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Ci hanno chiamato eroi, ma non lo siamo. Siamo persone e siamo vulnerabili come chiunque altro, ma abbiamo scelto di dedicare la vita alla scienza e in virtù di questa scelta ci siamo rimessi in gioco e abbiamo fatto quello che umanamente e professionalmente si poteva fare, certamente a volte compiendo degli errori, ma spinti sempre e solo dal desiderio di svolgere quella che da sempre, per chi svolge professioni sanitarie, è una missione.

 

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Questi ultimi dodici mesi sembrano essere andati a due velocità: tanta è la lentezza delle giornate di chi si è trovato da un giorno all’altro a non poter più godere della propria libertà di vita, tanta è la velocità di chi nelle strutture sanitarie ha rincorso il tempo per accudire, per studiare e per capire come porre fine a questa pandemia. 

 

Ma cosa abbiamo imparato e quali sono le sfide dei prossimi mesi?

 

La prima cosa che abbiamo imparato è come si presenta e come evolve la malattia. Molti soggetti che vengono infettati dal Sars-CoV-2 sono asintomatici o presentano sintomi banali (li definiamo paucisintomatici), e quelli che si ammalano presentano una prima fase di malattia caratterizzata dall’importante presenza del virus che inizia a replicarsi e a livello clinico si fa sentire, in genere, con malessere, dolori muscolari, febbre e tosse secca. In alcuni casi, non in tutti, la malattia può evolvere in una seconda fase caratterizzata da interessamento del polmone (polmonite interstiziale), molto spesso bilaterale associata a sintomi respiratori che possono essere inizialmente limitati ma che, in alcune situazioni, possono esitare in un progressivo peggioramento dell’insufficienza respiratoria.  La terza fase, che possiamo osservare in un numero limitato di pazienti, è caratterizzata da un’azione continua e incontrollata della risposta infiammatoria con conseguenze locali e a livello sistemico (cioè di tutto l’organismo) che possono portare anche a morte, soprattutto i soggetti già portatori di altre patologie. Aver imparato in questi mesi come si muove la malattia è stato un passaggio fondamentale: oggi riusciamo a prevenire ed eventualmente a gestire il passaggio da una fase all’altra della malattia, attraverso interventi farmacologici mirati e, di conseguenza, a curare un numero più importante di malati rispetto ai primi mesi Altri passi importanti sono stati fatti sulla diagnostica: oggi possiamo fare più tamponi (il che ci permette in molti casi di interrompere la catena del contagio), possiamo caratterizzare più facilmente il virus. Ma l’aspetto più affascinante è stato vedere il rapido sviluppo dei vaccini. A pochi mesi dalla scoperta del virus, oggi, abbiamo a disposizione più vaccini che, assieme ad altri interventi, contribuiranno a sconfiggere questa terribile pandemia. Quello che abbiamo potuto osservare è che in tempi che non hanno mai avuto precedenti nella storia dello sviluppo dei farmaci, oggi abbiamo a disposizione più di un vaccino efficace (per averne conferma guadiamo ai risultati della campagna vaccinale in Israele), vaccini con meccanismi d’azione diversi (in alcuni casi estremamente innovativi) che ci permetteranno di disegnare strategie vaccinali diverse e sempre più efficaci. Ma non è ancora finita! Purtroppo stiamo affrontando un nemico estremamente subdolo: i virus, e in particolare quelli a RNA come i Coronavirus, evolvono attraverso mutazioni del loro genoma. Nelle ultime settimane, diverse varianti di Sars-CoV-2 sono state segnalate in diverse parti del mondo. Qualcuna di queste ci preoccupa perché potrebbe rendere possibile un vantaggio selettivo rispetto al ceppo originario determinando una maggiore trasmissibilità, una maggiore patogenicità o la possibilità di evadere l’immunità acquisita dalla malattia o dalla vaccinazione. Dovremo quindi essere bravi a continuare a rispettare le buone pratiche e i comportamenti per prevenire la trasmissione dell’infezione.

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Ma, a un anno di distanza dalla buia notte del 20 febbraio, riusciamo finalmente a vedere la luce in fondo al tunnel!

 

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Giuliano Rizzardini
Direttore Dip. Malattie Infettive ASST Fatebenefratelli Sacco Polo Universitario Milano

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