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Come mai il Lazio è ancora una regione gialla

Gianluca De Rosa

La tenuta è un mix di fortuna e gestione lungimirante. Dalle intuizioni dello Spallanzani alla presenza di strutture ospedaliere tra le più grandi d’Europa, passando per la gestione oculata fatta dall'amministrazione regionale. Così la sanità laziale ha retto l'impeto della pandemia

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A Roma i medici di base hanno iniziato a effettuare i test antigenici ai loro pazienti negli studi già da alcuni giorni. Si trattava però di poche centinaia. Nei prossimi l’attività dovrebbe iniziare ad avere dimensione più significative. Le Asl stanno distribuendo i primi 50 mila test (dei 200 mila totali) con i relativi dispositivi di protezione individuale. “In questa fase – dice l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato – i test rapidi rappresentano un valido strumento di screening per individuare precocemente sospetti casi positivi. Presto avremo anche a disposizione i test differenziali che discriminano il Covid dall’influenza stagionale”. I test sono stati inviati dalla Protezione civile nazionale che ne ha acquistati 2 milioni (al costo di 30 milioni) da distribuire ai medici di tutta Italia. Non saranno strumenti di diagnosi diretti, ma faranno da filtro per indirizzare gli eventuali positivi ai drive-in per l’esecuzione del test molecolare. Si aggiunnge così l’ennesimo tassello al piano regionale per affrontare l’epidemia. Il Lazio, insomma, resiste. La Regione rimane una delle poche zone d’Italia colorata ancora di giallo. E nonostante negli ospedali non manchino le criticità e sebbene tanti continuino a lamentare le difficoltà nel fare il tampone le cose vanno indubbiamente meglio che altrove. Ma com’è accaduto? La tenuta del Lazio è un mix di fortuna e gestione lungimirante.

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A Roma i medici di base hanno iniziato a effettuare i test antigenici ai loro pazienti negli studi già da alcuni giorni. Si trattava però di poche centinaia. Nei prossimi l’attività dovrebbe iniziare ad avere dimensione più significative. Le Asl stanno distribuendo i primi 50 mila test (dei 200 mila totali) con i relativi dispositivi di protezione individuale. “In questa fase – dice l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato – i test rapidi rappresentano un valido strumento di screening per individuare precocemente sospetti casi positivi. Presto avremo anche a disposizione i test differenziali che discriminano il Covid dall’influenza stagionale”. I test sono stati inviati dalla Protezione civile nazionale che ne ha acquistati 2 milioni (al costo di 30 milioni) da distribuire ai medici di tutta Italia. Non saranno strumenti di diagnosi diretti, ma faranno da filtro per indirizzare gli eventuali positivi ai drive-in per l’esecuzione del test molecolare. Si aggiunnge così l’ennesimo tassello al piano regionale per affrontare l’epidemia. Il Lazio, insomma, resiste. La Regione rimane una delle poche zone d’Italia colorata ancora di giallo. E nonostante negli ospedali non manchino le criticità e sebbene tanti continuino a lamentare le difficoltà nel fare il tampone le cose vanno indubbiamente meglio che altrove. Ma com’è accaduto? La tenuta del Lazio è un mix di fortuna e gestione lungimirante.

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Nel Lazio, più specificatamente a Roma, sono presenti tra le strutture ospedaliere più grandi d’Europa (Umberto I e Gemelli innanzitutto). Questo ha permesso da un lato di tenere alti i tassi di ospedalizzazione (secondo la Regione diminuendo la letalità della malattia che è all’1,9 per cento rispetto al 6 della Lombardia, al 4 del Piemonte e al 2,6 della Toscana), dall’altra di convertire rapidamente interi reparti alla gestione dei malati di coronavirus: sono già due le ordinanze regionali con cui sono stati potenziati i posti riservati al Covid negli ospedali laziali. La prima prevedeva di arrivare 2.913 posti per i ricoveri e 532 per le terapie intesive, con la seconda i posti sono stati aumentati a 5.310 per i ricoveri e oltre 900 per le terapie intensive (attualmente i ricoverati hanno già superato la soglia della prima ordinanza).

  

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Tra le strutture sanitarie poi c’è anche un’eccellenza, l’istituto di malattie infettive Lazzaro Spallanzani che oltre a essere da subito stato convertito a primo Covid hospital del Lazio, ha suggerito tecnicamente le scelte regionali, validando spesso strumenti e strategie. Non è un caso che spesso la Regione abbia anticipato buone prassi poi emulate a livello nazionale come i Covid hotel (lanciati a marzo) per asintomatici e dimessi dagli ospedali e che oggi offrono 800 posti letto, di cui quasi 200 attrezzati anche con ossigeno, o i test nei porti e negli aeroporti. Il Lazio è anche tra le prime regioni ad aver introdotto l’obbligo di mascherina anche all’aperto.

   

In regione, poi, la rete per i test è capillare: sono 64 i drive-in prenotabili dove nelle ultime settimane in tamponi eseguiti sono aumentati fino a raggiungere una media di circa 30mila al giorno, in valore assoluto fa meglio solo la Lombardia che però al doppio degli abitati. A fronte a un numero alto di tamponi la percentuale di positivi è piuttosto bassa: in genere tra l’8 e il 10 per cento (ieri c’è stato il picco a 11,6) rispetto a una media nazionale del 16 per cento. Recentemente in alcuni articoli di giornali la Regione è stata accusata di inserire nei dati anche i test antigenici (usati massicciamente da Asl e Usca-r come prima forma di screening), abbassando così la percentuale. Lo Spallanzani e la Regione hanno chiarito che sono considerati soltanto i tamponi antigenici a immunofluorescenza con valore di cut-off superiore a 10. In pratica, i test antigenici utilizzati sono di due tipi, a immunofluorescenza appunto o cromografici. Con questi ultimi si vede solo la positività o meno, i secondi, invece, sono test anche quantitativi, un valore superiore a 10 permette di evitare il tampone molecolare per la conferma della positività. Questi tamponi vengono effettivamente conteggiati.

  

Anche l'R con t, l’indice probabilisco che indica la rapidità del contagio, è tra i più bassi d’Italia: secondo l’ultimo monitoraggio regionale di Istituto superiore di Sanità, relativo alla settimana tra il 2 e l’8 novembre, è a1,04, solo qualche centesimo sopra la soglia considerata di criticità (in Lombardia è al 1,61, in Campania al 1,58, ma anche in Veneto è nettamente più alto al 1,29, di tutte le Regioni italiane, solo in Sardegna è poco più basso al 1 preciso). Tra le tante spiegazioni possibili una riguarda le grandi città e per una volta fa del più problematico dato strutturale della Capitale un vantaggio: la bassa densità abitativa (2.204 abitanti per chilometro quadrato contro gli 8.094 di Napoli e i 7.684 di Milano) che rende costoso aggiustare le strade, pulirle e far passare i bus, riduce anche le occasione di contagio.

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Un altro dato importante è riscontrabile sul bollettino diffuso ogni giorno dalla Protezione civile: sui casi totali si misurano quanti sono stati scoperti con l’attività di screening e quanti, invece, eseguendo un test su chi già presentava dei sintomi. Ebbene in Lazio su circa 73mila casi di coronavirus fino ad oggi, ben 51mila sono stati trovati grazie all’attività di screening e solo 22mila persone sono state sottoposte al tampone . Il tracciamento, dunque, funziona ancora. In quasi tutte le altre Regione il numero di casi scoperti dopa la comparsa di sintomi è più alto di quelli trovati con lo screening (221mila contro 63mila in Lombardia, 93mila contro 3mila in Campagna, 53mila contro 13mila in Toscana). Con il Lazio fa eccezione un’altra grande regione, il Veneto dove su circa 87mila casi, 61mila sono stati individuati attraverso lo screening e solo 26mila quando i malati presentavano già i sintomi.

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