Un medico di base con un’assistita nel suo studio, a Roma (foto Ansa)

Amare i nostri medici di base

Adriano Sofri

La pandemia fuori dai Pronto soccorso e dalle terapie intensive. Le visite a casa in mancanza di terapie ufficiali, perché le linee guida sono riservate agli ospedali. Il negoziato sui tamponi. La solitudine, in certe regioni, e la fiducia dei pazienti. Nuove cronache di un mestiere antico

Improvvisamente ci si è accorti dei medici di famiglia e tutti ne parlano. L’occasione è il negoziato sui tamponi rapidi antigenici, che potranno essere eseguiti da loro negli studi o in altre strutture adeguate. Si è raggiunto un accordo sulla cui attuazione non è facile districarsi. Le associazioni dei pediatri hanno aderito all’unanimità. Per i medici di base, l’accordo è stato firmato dalle associazioni che rappresentano una netta maggioranza, il 65 per cento, la Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) e Intesa sindacale, e respinto da altre, Snami e Smi. Queste obiettano che gli studi privati sono per lo più inadatti a una pratica delicata, che i condomini insorgerebbero contro il viavai di potenziali positivi, e che mancano i dispositivi di protezione. Si direbbe che l’attuazione dipenda dunque dalla capacità dell’amministrazione sanitaria e dall’ente locale di fornire spazi appropriati e protezioni. Immaginata come obbligatoria, l’adesione è diventata facoltativa. Poi il dpcm successivo ha recepito l’accordo che rende obbligatoria questa prestazione. Nel Veneto il presidente Zaia non si è limitato a dichiarare obbligatorio l’accordo, ma ha anche annunciato, per i medici che non ottemperino all’accordo, la sospensione della convenzione col servizio sanitario, che è la sanzione più micidiale. Altra complicazione, il compenso. Per l’accordo nazionale i tamponi sono a carico della sanità regionale e ai medici vanno 18 euro per ogni tampone eseguito nel loro studio e 12 euro per quelli fatti altrove. La tariffa deve comprendere anche la preparazione dell’ambulatorio per un percorso Covid. Tuttavia in un’intervista di pochi giorni fa il neo presidente toscano Giani, comunicando di voler incontrare i medici di famiglia “al più presto”, ha aggiunto: “Certo che non possono chiedere 11 euro per ogni tampone eseguito”. E così variando.

   

E’ singolare che si sia tardato tanto, quando fin dall’avvento della pandemia si attribuiva la miglior capacità di risposta alle regioni in cui ha resistito una rete territoriale di medici di base (Veneto, Emilia, Toscana…) rispetto a quelle, la Lombardia specialmente, in cui era stata più disertata a vantaggio dei maggiori ospedali, pubblici e privati. Siccome sono andato disciplinatamente a fare il vaccino antinfluenzale e antipneumococco, ho provato a capire come va la cosa.

 

Illustrazione di Makkox
 

Alessandro Frati, che anima la medicina di base per il vasto territorio a nord-ovest di Firenze, mi ha consigliato di interpellare Antonio Panti: è in pensione, ha detto, ma segue tutto e sa tutto. Il dottor Panti (il dottor Antonio, vorrebbe dire il vecchio lettore di Giovanni Ruffini che sonnecchia in me) è stato segretario nazionale dei medici di famiglia negli anni 90, e nel 2017 ha preso ufficialmente commiato dal suo curriculum professionale e politico in Toscana: “Ero presidente dell’Ordine da trent’anni, presidente del Consiglio sanitario regionale da venti, e compivo 80 anni: tre festeggiamenti al prezzo di uno. Ora, alla mia età, sono un buon bocconcino per il Covid”.

 

“La medicina di base – spiega – era nata con il Servizio nazionale come punto d’incontro fra la specializzazione e le esigenze di base della gente. Riguardare quel proposito, già presente nei primi disegni di riforma sanitaria del dopoguerra, dal punto di vista del Covid, fa una strana impressione. Leggi la 883: la ‘medicina generale’ doveva essere il fulcro della prevenzione e della promozione della salute, e si va avanti ancora col contratto cofirmato da me quarant’anni fa. Una responsabilità l’abbiamo anche noi, ci siamo contentati della nostra cuccia tranquilla. Abbiamo retto grazie alla fiducia delle persone, ma non siamo stati uno strumento adeguato alla collettività. Nel corso del tempo l’impegno della medicina, si è sempre più incentrato sui diritti personali del cittadino, il consenso informato, il fine vita…, e meno sugli interessi della collettività. Il Covid ha riportato alla medicina sociale: era già successo con le diatribe sui vaccini, ma ora in modo travolgente. La trincea presidiata dai medici di famiglia non era preparata. Le prime ordinanze gli dicevano in sostanza: ‘Chiudete, comunicate solo al telefono, visitate solo per appuntamento…’. Fare così era facile, ma era chiaro che non ci si potesse contentare di questo allontanamento dalle proprie persone da visitare e seguire. Il mio amico Roberto Stella, presidente dell’Ordine di Varese, è morto, il primo di tanti, già all’inizio di marzo perché ha voluto proseguire nel lavoro di assistenza ai suoi pazienti senza che la Regione Lombardia fornisse alcuna protezione. Questa carenza ha pesato sui medici e sugli infermieri, e il costo di vite è stato alto. Bisognava finanziare mascherine, camici, personale di supporto, infermieri, amministrativi, e i servizi di prevenzione incaricati delle quarantene. (Che fanno acqua, del resto il 48 per cento della spesa sanitaria va agli ospedali e solo il 4 per cento alla prevenzione, sicché la prevenzione si ribalta sui medici di famiglia).

  


Organizzarsi, curare a casa si può. “Le epidemie sono state sempre curate dai medici del territorio, al lazzaretto si andava a morire”. La Casa della salute, le Unità speciali di continuità assistenziale


 

Ci fu la corsa agli ospedali. Un paziente con la saturazione a 90 va ricoverato, ma a 95 o a 93 si può tenerlo in casa o in un altro ambiente adatto senza consegnarlo alla paura. E’ ciò che fanno le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) costituite per assistere in sicurezza i pazienti Covid a domicilio, attivate dal medico di famiglia che resta responsabile della cura”. 

  

Chiedo delle differenze regionali che tanto clamore hanno sollevato. “La dicotomia – dice – c’era già, figurati, all’epoca mia e di Rosy Bindi. Regioni come il Veneto e la Toscana hanno tenuto alla rete territoriale mentre la Lombardia ha privilegiato gli ospedali di alta specializzazione, alla maniera degli Stati Uniti… In Toscana siamo riusciti abbastanza bene ad assicurare le stesse cure a Firenzuola o a Firenze. La Lombardia ha affidato il territorio a cooperative private che gestissero le cronicità. E oltretutto i pazienti affidati alle Rsa vengono cancellati dall’iscrizione al medico di fiducia per essere registrati alla struttura, perdendo un legame prezioso per il passato e per il presente. La rete vuol dire condivisione di orari, di superaffollamenti, di risorse amministrative. In Lombardia il medico è solo, e il servizio domiciliare infermieristico è ancora più carente del nostro, che pure non brilla, anche per la cronica mancanza di infermieri nel nostro paese. Questo incide già ordinariamente sui pazienti cronici, ipertesi, diabetici. Con la pandemia diventa distruttivo. Fa impressione il peso esercitato da confini regionali che oltretutto hanno poco rilievo geografico: Piacenza e Parma sono state colpite allo stesso modo che le province lombarde, ma la risposta è stata diversa”.

  

  

Quanto incidono, su queste scelte differenti, interessi e convenienze materiali? “Incidono, prima di tutto per la stessa dinamica dell’innovazione medica. La medicina attraversa un tempo di innovazione formidabile, paragonabile a quella dell’informatica, o della chimica e della fisica degli anni ruggenti, un secolo fa. Solo che nella medicina l’aumento della produttività non riduce i costi, e inoltre scoperte e strumenti nuovi riguardano gruppi piccolissimi di pazienti, che comportano un onere per il servizio, superiore a quello delle grandi patologie: in Toscana abbiamo 850 mila ipertesi, 250 mila diabetici, e i pazienti per insufficienza respiratoria o per scompenso cardiaco, ictus, sono questi i grandi numeri (l’oncologia è in realtà un coacervo di malattie). I pazienti curati con immunoterapia sono meno di 10 mila. Il tumore polmonare a piccole cellule annovera pochi casi in Toscana. Si capisce che il progresso nelle cure e la lievitazione dei costi siano legati. Dopo di che il marketing dei farmaci incide a sua volta moltissimo. Il rischio d’impresa vuole essere remunerato. Il Sofosbuvir, il profarmaco dell’epatite C, è stato scoperto e venduto per lo sviluppo dall’azienda che lo aveva scoperto a 1 miliardo di dollari, poi rivenduto a 11 miliardi a un’altra grossa impresa chimica cui ha fatto incassare 46 miliardi. Il brevetto ha impedito di curare milioni di persone. Un ciclo di cura costava 80 mila dollari in Usa, circa 40 mila euro in Germania e in Italia abbiamo strappato un prezzo minore di circa 25 mila euro. Qual è il prezzo vero? Basterebbe fare appello alla concorrenza. L’Europa ha un’Agenzia per il farmaco, potrebbe trattare sui prezzi, potrebbe agire come un monopsonio.

 

Tornando alla medicina generale, ora bisognerebbe adeguare il contratto ai compiti supplementari che le vengono richiesti. Il vecchio contratto mostrava qualche falla normativa riguardo all’assistenza alla comunità di pazienti che ciascun medico ha in carico, e immaginava tutta un’altra organizzazione. I medici sono in numero più o meno adeguato, gli infermieri no: la prima cosa da fare con gli infermieri è assumerli. Triplicarli, per avvicinarsi alla Germania - dove peraltro li esportiamo, in un momento come questo. Così come esportiamo giovani medici, dopo averli fatti laureare… Ricorriamo a infermieri e Oss stranieri, del resto bravi e dediti, ed è così che spendiamo poco. La Riforma sanitaria prevede il medico generale convenzionato, ciò che consente di mantenere il rapporto di fiducia: il cittadino può scegliere il medico che vuole, e questo non sarebbe possibile se i medici generali fossero dipendenti. La proposta attuale, avanzata da alcuni presidenti di regione di passare i medici generali alla dipendenza è inattuabile proprio perché abolirebbe il rapporto di fiducia.
Però oggi il medico di famiglia non dovrebbe più lavorare da solo, ma in gruppo, con la collaborazione degli infermieri domiciliari e in ambulatorio, con l’informatica comune, così da assicurare il presidio territoriale e assumere l’obbligo di ulteriori prestazioni nei confronti dei cronici e della promozione della salute. Non riesco a pensare a 20 medici che vaccinino e 10 no. La moglie che apre la porta dello studio ha fatto il suo tempo, in tutti i sensi, per il medico e per la moglie. L’associazione per aree geografiche è necessaria a raggiungere anche il disertato cocuzzolo di montagna, dove non è più immaginabile la presenza medica locale. Oggi si seguono sul monitor i pazienti cronici, si svolgono gli interventi sociali, si fa da sentinelle all’ambiente. E insieme bisogna impedire che si vada al Pronto soccorso per un bruscolo nell’occhio. La nuova borsa del medico di famiglia accoglie la piccola specializzazione, il controllo dei parametri di base, un giorno l’ecografo portatile… Si è pensato alla Casa della Salute, o comunque la si voglia chiamare, un punto di raccolta del gruppo di medici con la piccola specializzazione, la segreteria sociale e quella amministrativa, con una miriade di ambulatori attorno. Cose banali e già vecchie: da fare, soltanto. Questa di oggi è soprattutto una questione di coordinamento. C’è una sindemia, non una pandemia: mescola la parte sanitaria e quella economico-sociale. Bisogna apprezzare chi sappia organizzare: la logistica è la chiave di tutte le battaglie. Si può curare a casa, o nel domicilio apposito, si può tenere un saturimetro a casa – costa 20 o 30 euro, non è più difficile da usare di un termometro – si può ricorrere ai farmaci per impedire o ritardare il peggioramento. La nostra medicina ha un vantaggio enorme, con la spagnola si moriva, e si muore con l’ebola, ma si sopravvive agli infarti, e molti sopravvivono anche al Covid, grazie all’intensiva. Costa soldi ed energie enormi, ma si può”. 

 

Diceva don Milani che “non si può amare tutti gli uomini. /…/ Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio”. Un prete di montagna non è la stessa cosa che un medico di piana, ma Alessandro Frati è il medico di fiducia di oltre 1.600 persone – 1.500 che sono il tetto massimo ordinario, più la percentuale per i ricongiungimenti famigliari e le tessere a scadenza annuale – e ride quando gli chiedo se le conosce tutte. “Non occorre nemmeno che dicano il nome quando sento la voce al telefono”, dice. “Ora riceviamo una miriade di telefonate al giorno, dominate dall’ansia e spesso dalla cupezza. Le persone hanno visto che la morte, qualsiasi causa avesse avuto, restava senza funerale, il prete diceva di non poter venire. Qualcuno ci andava lo stesso, beninteso. Ti farei conoscere un prete giovane, don Bledar Xhuli, è albanese, a 16 anni approdò in Puglia in un gommone, di stazione in stazione arrivò a Firenze, dormiva sotto i ponti del Mugnone e mangiava alla Caritas, trovava lavoretti, un giorno bussò alla porta del famoso Monsignor Setti a ritirare una lettera, e lui se lo prese in casa come un figlio, per dieci anni, fino al 2002, quando morì, e intanto Bledar lavorava di notte da un benzinaio, si diplomava in ragioneria, si laureava e si impiegava come manager in una grande azienda. La domenica per non restare solo andava coi coetanei a messa, e gli piacque tutto, le letture, i canti. Don Setti gli disse che la vocazione poteva pazientare, che si laureasse prima. Non c’era più quando Bledar entrò in seminario, è stato viceparroco a San Casciano, ora è parroco a Campi. E’ figlio unico, di genitori di origine musulmana, e suo padre commentò: ‘Era la sua strada’. Una volta sono andato a prenderlo che lavorava a imbiancare e l’ho portato dalle nostre suore francescane per trovare ospitalità a una famiglia africana, l’ho presentato come un muratore albanese. C’è un altro giovane volontario, protestante questo, che all’alba va al mercato generale a Novoli in bicicletta, a fine lavoro rientra e va con un suo gruppo ad assistere le persone a Sesto. Da noi la rete dei volontari, religiosi e no, e delle Misericordie e delle Pubbliche Assistenze ha ancora un gran peso: si consegnano a casa le medicine, i pasti, si addomestica l’ansia. Le epidemie sono state sempre curate dai medici del territorio, al lazzaretto si andava a morire. Noi conosciamo i nostri pazienti, e non siamo dipendenti a orario fisso che timbrano il cartellino, la scelta della fiducia vale ancora, e sarebbe stato ragionevole far passare attraverso noi il famoso tracciamento dei contatti, che è finito in un vicolo cieco. L’Igiene ha circa 480 dipendenti per una zona certo ampia, Firenze, Pistoia, Prato, Empoli…, ma non tiene dietro al tracciamento. Ci sono viavai burocratici che non fanno che complicare le cose. Il medico generale può fare il certificato di assenza dal lavoro, non quello di quarantena. La certificazione per l’Inps, per esempio, che richiede il protocollo dell’Igiene. Bastava farlo fare direttamente a noi. O i contatti e i positivi asintomatici, che dunque non sono malati, e si dispone la quarantena, che li priva della loro libertà, e solo l’ufficiale sanitario può deciderla. Ci si imbatte nei casi più disparati, quasi comici, anche. C’è un paziente che vive solo, in quarantena, ha l’auto posteggiata e c’è il lavaggio stradale…”. 

  


“Non siamo dipendenti a orario fisso che timbrano il cartellino, la scelta della fiducia vale ancora, e sarebbe stato ragionevole far passare attraverso noi il famoso tracciamento dei contatti”. Le Usca, un medico e un infermiere, e tante persone spaventate e sole. “La parola chiave è prossimità”, dice il ministro Speranza


  

Frati mi racconta della volta in cui si vide accrescere lo stipendio di 1.800 euro in più. Era per assicurare la reperibilità telefonica dalle 8 alle 20. “Quello che facevo già da sempre, solo che lo facevo per più ore”. Coordina i medici di base del distretto nord-ovest, per contratto tengono una riunione mensile. I rapporti sono diventati più intensi e affiatati col Covid, attraverso i telefoni, WhatsApp, gli incontri personali, e sono invece restati carenti i rapporti con gli ospedali, con l’eccezione relativa di Careggi. “E’ uno snodo cruciale: un paziente non trova il medico, si allarma, chiama il 118, arriva al Pronto soccorso e viene ricoverato. All’ospedale passa tutto dal Pronto soccorso, dal ‘percorso pulito’ o ‘sporco’, come ora si dice malamente. E uscire può essere difficile: non si dimettono pazienti perché mancano le cure intermedie. Che possono piuttosto andare a medici e infermieri di famiglia, o anche degli Hospice, che non si capisce perché debbano essere, ed essere presentati, come luoghi ‘terminali’. Nella prima ondata avevo avuto due persone gravi, una purtroppo è morta ricoverata, l’altra ha potuto essere curata a casa. Non abbiamo mai smesso di visitare a casa, quando abbiamo un paziente sintomatico ci appoggiamo all’Usca: io ne seguo 15 a casa ora, e ne ho due ricoverati, ambedue sulla cinquantina, uno in subintensiva l’altro in un letto Covid. C’è stata una riduzione di frequenza negli ambulatori, perfino per gli infarti, i malanni cardiologici, persone che se ne stanno a casa per paura. Con ritardo anche qui si sono inaugurati gli alberghi sanitari, che erano la misura più necessaria e oltretutto ovvia, dal momento che gli alberghi sono vuoti di clienti. Ospitano soprattutto giovani, e molti badanti stranieri, contagiati dagli assistiti”. 

   

Frati non è affatto contrario all’esecuzione dei tamponi, la fa da tempo. Si chiede perché non puntare soprattutto sugli infermieri, che oltretutto mediamente sono più preparati. Quanto all’obbligatorietà e alle sanzioni minacciate, che senso vuoi che abbiano, dice. “O hai un ambulatorio attrezzato, come l’abbiamo noi, col filtro agli ingressi, il termometro all’entrata, più sale d’attesa, i turni di medici e infermieri per disporre degli spazi separati, oppure come vuoi che un medico, con tutta la buona volontà, faccia il tampone nel suo studio d’appartamento, al primo risultato positivo devi chiudere tutto”. 

 

Chi prova a infilarsi dentro la questione sanitaria scopre una proliferazione di sigle difficile da maneggiare e da disambiguare, come si dice. Una di queste sigle mi ha interessato di più, oltre che per l’aspetto clinico, per quello umano. Sono quelle Usca, Unità speciali di continuità assistenziale. Le squadre, composte in genere di un medico e un infermiere, che assistono a domicilio (o negli alberghi sanitari) i pazienti di Covid per i quali non è necessario il ricovero in ospedale. Sono altra cosa dal 118, cui spetta di andare a prendere i pazienti da ricoverare e trasportarli all’ospedale. Sia gli operatori delle Usca che quelli del 118 devono disporre di protezioni adeguate, ambienti di vestizione e svestizione (la seconda più impegnativa della prima), kit Dpi (dispositivi di protezione individuale, tute integrali e cappuccio monouso, camici impermeabili, sovrascarpe o calzari, visiera, doppi guanti, eccetera), sistemi di smaltimento adeguati, “auto aziendale con attrezzatura diagnostica (saturimetro, termometro a distanza, misuratore di pressione arteriosa, farmaci di urgenza, e ogni altro presidio medico necessario per gli interventi)”, e sistemi di sanificazione accurata dell’auto dopo ogni intervento. 

 

Le Usca devono garantire un servizio 8-20 sette giorni su sette. I medici sono reclutati su base volontaria, e quando occorra una graduatoria si seguono i seguenti criteri: “minore età alla laurea, voto di laurea, anzianità di laurea”. 

 

Questa, e altre norme analoghe, la teoria. Poi c’è la pratica. Me la faccio raccontare dal dottor Simone Pintimalli, che presenterò via via attraverso le sue parole. “Nell’ultimo periodo, per esempio, io ho lavorato fra le 50 e le 60 ore a settimana. Con qualche pausa di una decina di minuti. Naturalmente anche fra le Usca ci sono disparità di modi di procedere e di impegno. Una differenza riguarda l’età e l’esperienza dei medici, che sono pressoché tutti giovani, ma una fascia sta attorno ai 30-33 anni, come me, un’altra è composta di neolaureati. Per questo tipo di lavoro anche 5 anni di esperienza sono rilevanti. Una cosa elementare come il saturimetro: hai lo smalto sulle unghie, o hai le mani fredde perché le hai messe sotto l’acqua, e ti abbassa di cinque gradi la percentuale di ossigeno nel sangue, e vai a finire al Pronto soccorso”. (Siccome c’è una corsa, del resto ragionevole, a comprarsi il saturimetro, avverto anche di quello che mi ha spiegato Alessandro Frati: che anche lo spessore dell’unghia influenza la misurazione. E poi c’è il Walking Test, il test del cammino: se dopo aver fatto un po’ di passi “desaturi”, cioè la saturazione scende fino a 90 e sotto, è un brutto segno. E comunque le regole fisse come al solito non bastano, le misure cambiano se sei giovane, se hai una bronchite…). 

 

Pintimalli lavora nel distretto di Firenze nord-ovest, nell’area di Campi Bisenzio e Sesto Fiorentino. “C’è una Usca ogni 50 mila abitanti. Noi agiamo in rapporto coi medici di famiglia, che sono fondamentali per l’integrazione col territorio. Veniamo attivati quando c’è bisogno di eseguire una visita domestica, o, più spesso, per l’esecuzione a domicilio del tampone rapido. Quando seguiamo pazienti positivi e sintomatici, che succede costantemente, agiamo in una specie di emergenza. A chi fa questo mestiere capita di constatare su di sé situazioni di burnout, l’esaurimento che viene dallo stress e da esperienze emotivamente pesanti, che si ripercuotono sulle loro vite famigliari, sulle convivenze. Prendi una coppia, medici ambedue, lei in una Usca, lui in ambulatorio, hanno due bambini piccoli… Ci sono chat di medici che si scambiano il racconto di queste esperienze. Mi succede di trovarmi anch’io su quell’orlo. Mi chiedo se servo, e a che cosa: a visitare tutti a casa in un contesto in cui i medici di famiglia non lo fanno, a seguire i pazienti dimessi dall’ospedale che così può più tranquillamente liberare il posto, a fare i tamponi, o ad affrontare l’ansia, le paure delle persone… Siamo incaricati dell’esecuzione a domicilio del tampone rapido: non dovrebbe essere così perché sarebbe compito dei dipartimenti di prevenzione, ma siamo in emergenza. Ultimamente stiamo facendo tamponi in strutture tipo Rsa, Centri di accoglienza straordinaria, conventi… 

 

Una delle Unità Speciali (USCA) che curano i malati più gravi a domicilio a Bergamo (foto LaPresse)  
  

Il punto più critico è l’incontro con persone psicologicamente provate, che ti accolgono confessando: ‘Mi sentivo abbandonato’. Ieri eravamo in una casa da un uomo di 90 anni che non voleva essere ricoverato, una moglie di 83, un figlio cinquantenne con una disabilità mentale, lei piangeva… Incontri ravvicinati così. Oppure una signora di 85 anni, malata di solitudine e di una febbricola, pensi che se sta male muore là, da sola… L’abbiamo già provato.

 

A noi spetta fare il triage fisico, piuttosto che si scarichi sul Pronto soccorso. Nel territorio, nelle case, non ci sono terapie ufficiali, le linee guida sono riservate agli ospedali, in pratica il Remdesivir. I tre farmaci domestici, quelli che impieghiamo nel nostro territorio, l’antibiotico, il cortisone e l’eparina, non sono prescritti dall’Aifa, l’Agenzia del farmaco. E comunque non curano il Covid, prevengono l’embolia, curano il batterio sopravvenuto, dilazionano i sintomi…”. Gli dico che ho letto una bella intervista di Giampaolo Visetti, su Repubblica, a Luigi Cavanna, il primario di Piacenza che il Time ha descritto come “il pioniere italiano delle cure domiciliari”, e Cavanna ha detto fra l’altro: “Se diagnosi e terapia arrivano entro 72 ore dai primi sintomi, nel 95 per cento dei casi bastano tre pastiglie al giorno e un po’ di ossigeno. Aspettare l’esplosione della carica virale e l’ospedalizzazione, è un errore che in Italia sta costando caro”. 

 

“Certo – dice Pintimalli – curare a casa è meglio, tenendo ovviamente conto di chi sia curabile, con quali caratteristiche cliniche e condizioni ambientali, capacità di lavorare in prossimità, disponibilità di bombole d’ossigeno, possibilità di accertamenti diagnostici a domicilio, studi adeguati su interventi farmacologici a domicilio... La prossimità aumenta le possibilità di salute. In una squadra siamo due, io e un infermiere. Abbiamo, nella nostra area, due squadre, entro questo mese dovremmo essere tre. La disponibilità dei dispositivi di protezione è stata alterna all’inizio, ora le forniture generali ci sono. Ma bisogna improvvisare l’organizzazione del magazzino. Ora me ne sto occupando io, posso arrivare a portarmi il sacco a pelo in ambulatorio, ma non ce la faccio lo stesso. Alla bisogna, si supplisce: lo scotch sul pezzo di piede che resta scoperto… Se la gestione amministrativa, logistica, fosse più efficace, potrebbero restare a casa senza intasare gli ospedali molte più persone.  Io ho 30 anni. Sono nato a Lamezia Terme (‘In Calabria’, aggiunge pessimista, forse sospettando che io non sappia dov’è Lamezia), ci ho fatto il liceo scientifico, il Galilei, poi sono venuto all’università a Firenze. Prima io, poi mia sorella. Io con molta indecisione, sono indeciso da sempre”. 

 

Qual era l’alternativa? “Mah, non so, il chitarrista. Un sogno piuttosto irrealizzabile, oltre che non entusiasmante per i miei”. (In rete trovo poi una registrazione 2009 del gruppo Maieutica, formato dopo l’ingresso della chitarra di Pintimalli, “strappato al folk-rock” per un rock alternativo, e già insignito, il gruppo, del riconoscimento “Music against ‘ndrangheta”. Ma nel 2011 il chitarrista lascia per motivi di studio). “Da ragazzo ero tutto per Jimi Hendrix, naturalmente. Mia madre per Guccini. Non hai idea di quanto Guccini ho sentito cantare da mia madre prima di accorgermi che esisteva lui e aveva una voce sua. Una volta leggendaria mia sorella andò a bussare fino a Pavana e lui venne giù a chiacchierare…”. 

 

L’indeciso Pintimalli si è laureato col massimo dei voti (“succede, dà lustro all’università) e specializzato in medicina generale, una tesi sui medici sentinella, quelli che tracciano contatti e sintomi, una cosa che si fa in modo organizzato su scala europea da sempre, per esempio sull’influenza. “All’avvento dell’epidemia, ho avuto l’impressione che il primo riflesso dei medici fosse quello: ‘Dobbiamo proteggerci’. Ma la risposta dev’essere: ‘Voglio fare quello che va fatto, e certo in modo protetto’. Io ho avuto la febbre per tre giorni, ai primi di marzo, ero stato positivo al sierologico della medicina del lavoro, negativo al tampone successivo. Sappiamo che tanti medici si sono prodigati e si sono esposti e in tanti si sono sacrificati. Anche in questo mestiere ci sono differenze fortissime, di risorse, di impegno. A me piace il lavoro, meno l’establishment. La voce che si fa più sentire è quella dei medici anziani, che del resto hanno anche qualche buona ragione per essere più prudenti”.

 

Bisognerà aspettare un ricambio. Pintimalli mi fa leggere il progetto della Campagna “Primary Health Care (Phc) now or never” lanciata da giovani medici di famiglia e infermieri, medici igienisti e antropologi, presentato sabato scorso, 7 novembre: “Verso il libro azzurro - Un manifesto aperto per la riforma delle cure primarie in Italia, ora o mai”. (L’ha illustrato Claudia Carucci sulla Stampa del 3 novembre). Un programma che il ministro Speranza sembra evocare quando, a proposito del coronavirus, dice che “la parola chiave è prossimità, e il primo luogo di cura è la casa”. E’ una specie di rivincita della medicina territoriale, che era stata propugnata autorevolmente e solennemente già dalla Dichiarazione di Alma Ata del 1978 sull’assistenza sanitaria primaria e la “Salute per tutti entro il 2000”, e poi messa precipitosamente in soffitta da scelte come quelle che hanno prevalso in regioni come la Lombardia, incentrate sulle specializzazioni ospedaliere e drammaticamente disarmate all’avvento dell’epidemia.

 

foto LaPresse
 

L’Igiene non è stata in grado di realizzare il suo compito particolare, che era il tracciamento dei contatti. Dice Pintimalli: “Non c’è programmazione, è sempre emergenza. Ci sono paesi, l’Australia nel 2006, per esempio, o la Gran Bretagna nel 2016, che hanno fatto simulazioni di pandemia, l’influenza H2N2, nel caso britannico, ‘l’Esercizio Cigno’, concluso con la valutazione esatta che sarebbero mancati i ventilatori e ci sarebbero stati problemi ingenti per l’approvvigionamento delle bare e la gestione delle salme. I risultati delle simulazioni sono ancora secretati. ‘Troppo terrificanti’ per essere resi di pubblico dominio”. A far le spese della mancanza di lungimiranza della politica contemporanea è sempre la prevenzione, che non rende perché il successo non si vede, e dunque la previsione del rischio. 

 

Ho letto che “oggi dei circa 9.600 infermieri di famiglia previsti dal decreto-rilancio di giugno ne sono stati assunti, a seconda delle stime, tra i 500 e i 1.000, e soltanto in certe regioni come Lombardia e Toscana. Nel resto d’Italia, e specialmente al sud, le assunzioni non sono mai partite” (“Cosa vuol dire che ‘ci mancano gli infermieri’”, Il Post, 1° novembre). Pintimalli, come ogni medico dell’Usca, prende 40 euro all’ora. E l’infermiere? – chiedo. “Niente. Gli infermieri hanno un ruolo fondamentale, sono spesso molto dinamici e capaci di soluzioni nuove. Ma, all’opposto del medico, prendono parte all’Usca non su base volontaria ma per disposizione del distretto di cui sono dipendenti. Vengono spostati continuamente a servizi diversi. Non sono precettati, ma in pratica lo fanno tutti, a rotazione. E non hanno alcuna remunerazione supplementare. Si capisce che una buona parte di loro lo faccia di malavoglia. In questa situazione manca la continuità della collaborazione e dell’affiatamento fra medico e infermiere, che quando c’è è preziosa per loro e per i pazienti, e anche la qualità della loro preparazione diventa saltuaria. Sarebbe ragionevole, e giusto, che anche gli infermieri fossero reclutati volontariamente e compensati in proporzione”. 

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