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l'intervista

"Per affrontare il Covid bisogna rimettere in prospettiva la pandemia". Parla il prof. Maira

Oggi molti alunni fanno didattica a distanza, "ma quella in presenza è insostituibile". "Dalla ricerca all'organizzazione, nonostante le criticità, abbiamo fatto passi avanti. Ma c'è ancora tanto da fare"

Enrico Cicchetti

"Le chiusure delle classi hanno almeno due aspetti critici. Famiglie e scuola forniscano ai giovani una visione più ampia e più a lungo termine della pandemia". Chiacchierata con il professore di Neurochirurgia. "Mancano ancora ospedali dedicati e personale sanitario. Più borse di studio e attenzione al percorso dei giovani medici"

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Le scuole chiudono e molti studenti restano a casa. Da oggi saranno 362mila gli insegnanti che lavoreranno a distanza, il 45 per cento dei docenti in servizio. Secondo i calcoli di Tuttoscuola, oltre ai 265mila professori delle superiori, ci sono altri 33mila docenti di seconda e terza media nelle regioni della fascia rossa e 63mila insegnanti della scuola dell'infanzia bloccati in Campania dall'ordinanza del governatore De Luca. Provvedimenti temporanei, ma che hanno un peso sulla quotidianità e sulla socialità dei giovani. E che avranno un costo, anche sulla loro salute e sul benessere mentale. “Aiutiamo i nostri ragazzi facendo leggere loro i segnali di ottimismo che, nonostante tutto, ci sono anche in questa situazione drammatica”, dice al Foglio Giulio Maira, professore di Neurochirurgia, per anni direttore di Neurochirurgia al Gemelli e per 11 anni membro del Consiglio superiore di Sanità. "La didattica a distanza è un grande sacrificio. Ricordiamo agli studenti che l'andamento dell'epidemia dipende anche dai loro comportamenti".

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Le scuole chiudono e molti studenti restano a casa. Da oggi saranno 362mila gli insegnanti che lavoreranno a distanza, il 45 per cento dei docenti in servizio. Secondo i calcoli di Tuttoscuola, oltre ai 265mila professori delle superiori, ci sono altri 33mila docenti di seconda e terza media nelle regioni della fascia rossa e 63mila insegnanti della scuola dell'infanzia bloccati in Campania dall'ordinanza del governatore De Luca. Provvedimenti temporanei, ma che hanno un peso sulla quotidianità e sulla socialità dei giovani. E che avranno un costo, anche sulla loro salute e sul benessere mentale. “Aiutiamo i nostri ragazzi facendo leggere loro i segnali di ottimismo che, nonostante tutto, ci sono anche in questa situazione drammatica”, dice al Foglio Giulio Maira, professore di Neurochirurgia, per anni direttore di Neurochirurgia al Gemelli e per 11 anni membro del Consiglio superiore di Sanità. "La didattica a distanza è un grande sacrificio. Ricordiamo agli studenti che l'andamento dell'epidemia dipende anche dai loro comportamenti".

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Il nuovo dpcm, in vigore da venerdì scorso e valido fino al 3 dicembre, prevede tra le altre cose la chiusura di alcune scuole. Mentre tutti gli istituti superiori d’Italia passano alla dad, per le classi seconde e terze medie è prevista solo nelle regioni “caratterizzate da uno scenario di massima gravità e da un livello di rischio alto”, come precisa il Miur. Si tratta delle cosiddette “regioni rosse”, individuate dal ministero della Salute: Calabria, Lombardia, Piemonte. Ma tutto dipende da come evolverà l'epidemia nelle altre regioni. Le cose sembrano destinate a cambiare, e in fretta. “È una decisione drastica”, sottolinea il professor Maira, che con la giornalista Vira Carbone ha appena pubblicato un nuovo libro (Le età della mente). “La valutazione del Cts è che ci sia il rischio che gli studenti portino a casa il virus, e quindi ha preso provvedimenti. Ci sono però almeno due aspetti critici. Uno: abbiamo passato l'estate a parlare di banchi con le rotelle ma non ci siamo occupati di altri problemi fondamentali: quello dell'affollamento dei mezzi di trasporto pubblici e quello della carenza di insegnanti e personale, per esempio. Tutte preoccupazioni ampiamente previste ma per le quali non sono state trovate soluzioni adeguate. Due: la didattica a distanza non può sostituire quella in presenza. Gli alunni devono sentirsi accompagnati in un processo di trasmissione della conoscenza. L'apprendimento poi non si limita alle nozioni insegnate, ma anche all'educazione civica e sociale che si sviluppa in un'aula, tra compagni e con i propri insegnanti. Mi viene in mente, per citarne solo uno, il tema dell'abuso di alcol e droghe, sul quale la scuola italiana deve ancora attrezzarsi e che con la didattica a distanza è ancora più difficile affrontare”.

  

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Quella della chiusura delle classi è una scelta tutta italiana per uno dei temi più delicati della seconda ondata. A marzo molti paesi in tutto il mondo avevano deciso di chiuderle. Oggi invece, mentre l'Europa torna a essere l'epicentro della pandemia e nei diversi paesi vengono imposti blocchi, coprifuoco e restrizioni, sono pochissimi gli stati che chiudono le aule, viste anche le probabili conseguenze negative in termini di socialità e apprendimento per gli studenti. Le scuole e le università rimangono aperte nel Regno Unito (sono stati chiusi alcuni istituti superiori del Galles mentre riaprono le scuole in Irlanda del Nord, svuotate per due settimane durante la pausa di metà semestre). A settembre, la Spagna ha consentito lezioni faccia a faccia in modo scaglionato , tra restrizioni e coprifuoco in alcuni comuni per evitare nuovi focolai. Si va a lezione anche in Francia, in Germania, in Grecia e Portogallo, paesi che hanno previsto limitazioni anche rigide di altri settori. La stessa Oms ritiene che le scuole debbano restare aperte “fino alla fine” ed essere chiuse solo come ultima ratio.

    

La settimana scorsa il Comitato tecnico scientifico ha messo in guardia anche dai rischi psicologici derivati dalla didattica online. “È chiaro che la pandemia”, dice il neurochirurgo, “è un problema per i nostri ragazzi. Siamo nuovamente in una situazione nella quale ansia, stress e paura tolgono il buon umore. E poi senza scuola può scarseggiare anche l'attività sportiva, che è importante per la salute fisica e mentale. Ai nostri giovani bisogna dare messaggi di ottimismo: famiglie e scuola dovrebbero fornire loro una visione più ampia e più a lungo termine della pandemia. Farli pensare non solo al momento contingente ma a ciò che accadrà tra alcuni mesi e tra pochissimi anni. I segnali sono incoraggianti: abbiamo già oggi farmaci che curano meglio e la mortalità da Covid-19 si è molto ridotta. Ci sono segnali positivi dalla ricerca sui vaccini e speriamo in breve di poterne avere di efficaci, per iniziare subito una campagna vaccinale. Anche la nostra gestione dell'emergenza è molto migliorata: basta pensare a quanto si è lavorato sui tamponi, che oggi vengono fatti in gran numero e soprattutto alle categorie a rischio, a chi lavora con il pubblico”.

 

I tamponi a tutti i lavoratori a rischio era uno dei quattro punti che il prof. Maira, in un'intervista al Foglio del marzo scorso, segnalava come fondamentali per evitare una nuova emergenza Covid. Le altre idee a cui fare attenzione erano la creazione di ospedali dedicati alle epidemie, l'applicazione di nuovi metodi per i concorsi delle scuole di specializzazione in medicina e più borse di studio. L'emergenza, però sembra essersi ripresentata. A che punto siamo? “Sugli ospedali dedicati ancora non ci siamo – dice il professore –, nonostante il tempo per organizzarsi ci fosse: molti reparti chiudono perché diventano reparti Covid. Posso testimoniare di reparti di neurochirurgia nei quali alcuni pazienti, con patologie non gravissime, saltano le sedute, con possibili peggioramenti delle loro condizioni. Ho assistenti che lavorano in reparti Covid perché le neurochirurgie sono ferme, so di attese lunghissime – su Roma – per ricevere assistenza da un'ambulanza. E in questi casi la responsabilità è soprattutto delle regioni”.

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Per quanto riguarda la formazione dei giovani medici, un tema sul quale questo quotidiano ha scritto molto, Maira ricorda che nonostante sia finalmente stato realizzato il concorso (doveva essere a fine luglio, si è fatto a fine settembre), i giovani medici devono ancora sapere dove andranno a finire e il bisogno di personale è tuttora evidente nei reparti. “Quella degli specializzandi è una vera Odissea, che coinvolge migliaia di giovani medici che devono iniziare il loro percorso di specializzazione. Mancano anestesisti, pediatri, medici di medicina d'urgenza. Molti colleghi sono morti durante la prima ondata e altri sono andati in pensione. La sanità italiana è affamata di specialisti ma servono più contratti di formazione per medici specializzandi e più borse di studio. Altrimenti i nostri studenti, ben formati a spese dello stato, poi scappano in cerca di fortuna e formazione all'estero. Dovrebbe avvenire il contrario: occorre riportare in Italia i 'cervelli' fuggiti in questi anni. I problemi vanno visti in prospettiva, non pensando alla formazione dei medici che servono ora ma già a quelli che serviranno da qui a tre, cinque anni”. Rimettere in prospettiva, insomma, sembra una parola d'ordine. Così come per gli studenti più giovani, dando loro una visione d'insieme e una speranza, così per i medici del nostro futuro.

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