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Sanità sotto stress

Maurizio Crippa

I “tagli” e le regioni non sono la prima causa dell’attuale emergenza. C'è qualcosa che viene prima del Covid. Un po’ di storia e di programmazione. Verrà il momento in cui la politica dovrà ripensare il sistema sanitario. Ma ora sangue freddo

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Le sessanta ambulanze bloccate davanti ai Pronto soccorso degli ospedali di Roma; gli allarmi per il sistema sanitario che in Lombardia “rischia il collasso” (secondo il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi, “in Lombardia serve un lockdown immediato”) così come in altre regioni; il presidente della Fondazione Italia in Salute, Federico Gelli, che teme per “la tenuta del Sistema sanitario nazionale” e l’immediata assunzione dei medici in formazione e la stabilizzazione dei precari. E le richieste analoghe per l’assunzione immediata di infermieri neodiplomati o in specializzazione, ma anche per il richiamo dei pensionati. I nostri riservisti e i nuovi Ragazzi del ’99. Non era difficile prevedere che la seconda ondata sarebbe diventata per la Sanità uno stress test peggiore della prima (non è stato un attacco di sorpresa, stavolta).

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Le sessanta ambulanze bloccate davanti ai Pronto soccorso degli ospedali di Roma; gli allarmi per il sistema sanitario che in Lombardia “rischia il collasso” (secondo il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi, “in Lombardia serve un lockdown immediato”) così come in altre regioni; il presidente della Fondazione Italia in Salute, Federico Gelli, che teme per “la tenuta del Sistema sanitario nazionale” e l’immediata assunzione dei medici in formazione e la stabilizzazione dei precari. E le richieste analoghe per l’assunzione immediata di infermieri neodiplomati o in specializzazione, ma anche per il richiamo dei pensionati. I nostri riservisti e i nuovi Ragazzi del ’99. Non era difficile prevedere che la seconda ondata sarebbe diventata per la Sanità uno stress test peggiore della prima (non è stato un attacco di sorpresa, stavolta).

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Le manchevolezze che portano a questa fase drammatica della pandemia da Covid-19 o sono di natura strutturale, o sono dovute alla poca reattività di governo nazionale, regioni e sistema sanitario stesso nei mesi scorsi. Non era difficile anche prevedere che lo stress test avrebbe riguardato uno scontro di poteri e di attribuzioni – cioè in molta sostanza di risorse economiche e capacità di spesa – tra il governo nazionale e il ministero della Salute da una parte, e le regioni con i loro sistemi di Sanità in gran parte autonomi dall’altra.

 

Si può, per un attimo, mettere da parte la mancata accettazione e attivazione del Mes – una scelta strategica sciagurata, sacrificata alla tattica politica, che ci si augura di non dover pagare in termini di salute pubblica molto più di quel che sarebbe costato in interessi passivi – e concentrarsi su due questioni di fondo. Quelle che fiaccano la resistenza di medici e ospedali e generano risse al calor bianco nel mondo politico. La prima: il Servizio sanitario nazionale abbandonato, non adeguatamente finanziato, anzi tagliato e anzi peggio regalato ai privati. La seconda: lo strapotere assegnato in materia alle regioni, e tanto peggio ognuna per la sua strada in ordine sparso, e la loro riottosità sia a uniformarsi alle decisioni del governo centrale e dei suoi organi tecnici, sia di prendersi le responsabilità necessarie. Il caso della Lombardia, fin dal “paziente 1” di Codogno, è esemplare di questo rimpallo di responsabilità ora rivendicate ora rinfacciate. Ma se non fossimo alle prese con l’emergenza pandemica, le cose starebbero diversamente? La verità è che non ci sarebbe il dramma dell’urgenza, certo; ma i problemi di fondo da risolvere, e che evidentemente aggravano la situazione del nostro paese, sarebbero ugualmente quelli. E non c’è nessuno che sia soltanto innocente o colpevole. Le semplificazioni, spesso giornalistiche, non aiutano.

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Si dovrebbe cominciare col ricordare che il Sistema sanitario nazionale, inteso come una Sanità “bene pubblico” e universalista, esiste in Italia da 42 anni, 1978. Ministro Tina Anselmi, governo Andreotti IV. Da poco tempo, a pensarci, per un paese del G7. E in poco tempo le riforme, non sempre coerenti, sono state molte. Un sistema che nasce su base sostanzialmente regionale, e ancora nella riforma del Titolo V prevede che la salute sia una “materia concorrente”, in cui allo stato spetta la determinazione del quadro normativo mentre la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e la relativa gestione è affidata alle regioni – fatte salve ovviamente le perequazioni tra regioni più ricche e più povere in modo da garantire per tutti i Lea, i Livelli essenziali di assistenza. Ma sembra che i nostri politici e amministratori locali si siano accorti solo nei mesi scorsi che nei casi di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”, e la pandemia lo è, esiste in Costituzione una “clausola di supremazia”, all’art. 120, in base alla quale “il governo può sostituirsi a organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni”. Quella che in buona sostanza dovrebbe permettere ora al ministro Roberto Speranza di decidere quali regioni e in che misura dovranno chiudere.

 

Ma per quanto riguarda la salute pubblica messa in pericolo dall’esiguità dei finanziamenti e dai famigerati “tagli”, non sono le regioni le prime responsabili. La storia dei tagli è lunga, e spesso leggendaria: in prospettiva storica, la spesa sanitaria nazionale non si è mai discostata dal suo range di riferimento, parametrato inevitabilmente alla (poca) ricchezza del paese. Il primo vero “taglio”, ma in realtà un riordino, avvenne nella crisi del 1992-’93 con il governo Amato e la riforma imposta da Carlo Azeglio Ciampi, in cui si stabilisce che “l’individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza assicurati dal Servizio sanitario nazionale” verrà fatta “contestualmente all’individuazione delle risorse finanziarie” e che i fondi alle regioni non saranno più attribuiti in base alla spesa storica. Da allora, le regioni hanno una parte di responsabilità importante. Poi, passo passo e con aggiustamenti “reali” mai traumatici come venivano regolarmente raccontati, le riduzioni dei posti letto e delle medie-degenza di Tremonti (che facevano infuriare anche le regioni di centrodestra). Un altro severo assestamento avviene al tempo del governo Monti e dei governi successivi impegnati a “fare i compiti” europei a casa, ma si opera anche qui in direzione di razionalizzazioni di spesa. Secondo un dossier dello scorso anno della Fondazione Gimbe, tra il 2010 e il 2019 la nostra Sanità avrebbe subìto circa 37 miliardi di tagli. Intendendo però che si è speso sempre meno, e quindi la spesa ha iniziato a decrescere. Qualche settimana fa, sul sito lavoce.info, invece Vittorio Mapelli, già professore di Economia sanitaria alla Statale di Milano, ha contestato quel numero, 37 miliardi, provando a dimostrare che in molta parte si è trattato di tagli “virtuali”, cioè di previsioni di spesa inferiore non realizzati, e spesso anche di positive riduzioni di sprechi. La verità è che ogni paese investe in Sanità in base al proprio reddito. In termini pro capite, nel 2017 l’Ue aveva speso 2.947 euro e l’Italia soltanto 1.864 euro: in linea con le sue risorse. Se le risorse sono poche e la crescita bassa, non si può pensare che un paese spenda di più.

 

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La vera questione, che contribuisce a rendere drammatico il momento attuale, è invece che molta parte della riduzione dei costi è stata ottenuta attraverso il taglio del personale e dei posti letto. Nel decennio scorso, per via del Patto di stabilità, i dipendenti del Ssn sono diminuiti di 45 mila, tra cui 7 mila medici e infermieri, soprattutto per “colpa” del blocco del turnover (cui ha dato un altro colpo fatale, di recente, quota 100). I posti letto negli ospedali pubblici sono diminuiti di circa 40 mila e molti ospedali sono stati accorpati. La razionalizzazione ha colpito i ricoveri (meno 4 milioni circa) e le giornate di degenza (meno 20 milioni). Con tutto questo, va però ricordato che nel 2000 secondo l’Oms l’Italia era il secondo sistema sanitario migliore al mondo in termini di efficienza di spesa e accesso alle cure pubbliche, e nel 2014, per Bloomberg, il terzo per efficienza di spesa.

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Scelte obbligate e/o errori dei governi,  equamente spalmati. Ma, per altri aspetti, il frutto di modelli di programmazione che o si sono dimostrati fallaci, o sono stati travolti dagli eventi. Ad esempio, la medicina territoriale. In questi giorni molti medici di base protestano contro l’accordo fatto tra la loro federazione e il governo e le regioni per fare tamponi e test rapidi in ambulatorio: non siamo attrezzati, non siamo burocrati e collettori di dati, lasciateci curare invece i malati e fare “il primo filtro” contro il Covid. Lo scriveva ieri in una bella lettera al Corriere un medico di famiglia. Era, ad esempio, quello che voleva fare la riforma lombarda, targata Maroni. Che puntava ad affrontare i problemi di invecchiamento e cronicità. Ma è fallita per vari motivi (il Foglio ne parlò il 28 maggio scorso) così come in altre regioni, non tutte però, non è mai stata avviata. Risultato: la prima linea di cura è stata quella che è crollata, e che ha pagato anche un carissimo prezzo di vite umane tra i medici.

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Un ultimo aspetto assai criticato dell’attuale assetto della Sanità e soprattutto imputato alle regioni (del centrodestra) è il rapporto con i privati. In Italia il privato accreditato detiene il 31 per cento del totale dei posti letto ospedalieri, ma con grandi differenze regionali. Negli ultimi anni le prestazioni erogate in convenzione sono cresciute, non moltissimo, in virtù di una diminuzione di prestazioni (vedi personale e posti letto) generali del pubblico. Dove il sistema misto generato dalle successive riforme del Ssn funziona (come ha dimostrato, nonostante tutto, la Lombardia in questi mesi) il privato è un partner, e non un nemico del pubblico. Anche perché va tenuto conto del contributo dei centri di eccellenza nella ricerca (tra gli Irccs, molti sono privati accreditati) che aiutano a tenere in equilibrio il complessivo sistema. Difficile pensare un Ssn di qualità senza la gamba “economicista” del privato accreditato. Se dunque la Sanità è sotto stress, non è “soprattutto” a causa dei tagli o dei privati, o delle regioni. E’ perché il sistema deve correggere se stesso su molti aspetti. E i rimedi vanno ben oltre l’emergenza. Quando ne saremo usciti (non migliori, ma più consapevoli) le cose necessarie da fare sono chiare a tutti. A partire dal personale medico e infermieristico da potenziare (serve riprogrammare l’università e le scuole), e di una medicina territoriale tutta da (ri)costruire. A parte, ovviamente, le terapie intensive da aumentare – a proposito: la querelle tra governo (commissario Arcuri) e regioni su chi non abbia fatto il proprio dovere è in sostanziale pareggio – e le tecniche di screening e prevenzione tutte da creare, ed è su questo che il nostro paese è davvero indietro. Oltre poi procedere sulla razionalizzazione delle spese, se è vero che un posto letto in Germania costa quasi la metà che in Italia.

 

Se poi tutto questo dovrà farlo un forte governo nazionale che accentri su di sé la maggior parte delle prerogative in materia di salute, o se si tratterà di rinegoziare, e soprattutto mettere in ordine alcune procedure e catene di comando, l’attuale assetto con le regioni, questo dovrà deciderlo la politica. Possibilmente a mente fredda, e con una seria valutazione di prospettiva. Nel brutto mezzo della pandemia, conviene evitare le polemiche e le fughe in avanti, e tenere i nervi saldi.

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