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Covid-hotel, tutti i problemi ancora aperti

Gianluca De Rosa

Sono tanti gli alberghi in tutta Italia che sono diventati o stanno per trasformarsi in strutture utili ad alleggerire la pressione dell’epidemia sugli ospedali. Eppure, le criticità non mancano. I casi di Roma e Milano

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C’è chi chiude perché i turisti non ci sono più e c’è chi invece cerca di percorrere strade alternative per rimanere aperto. Sono tanti gli alberghi in tutta Italia che sono diventati o stanno per trasformarsi in Covid-hotel. Strutture utili ad alleggerire la pressione dell’epidemia sugli ospedali. Per farlo in diverse parti del paese sono state stipulate, sin dalla prima ondata, convenzioni tra le regioni e le associazioni di categoria alberghiere che prevedono corrispettivi variabili da regione a regione per mettere a disposizione le camere. La soluzione soddisfa due esigenze: puntellare la rete anti-Covid e aiutare gli albergatori in difficoltà con fatturati in calo anche del 90 per cento. Gli alberghi ospitano principalmente malati che è bene tener ricoverati, ma che non presentano sintomi di eccezionale gravità. Spesso si tratta di pazienti dimessi, ma che, ancora positivi, è bene tenere sotto osservazione. Da un po’ di tempo però si parla degli hotel anche per un’altra funzione: separare asintomatici e paucisintomatici da famiglie e conviventi. A inizio ottobre l’Istituto superiore di sanità scriveva che oltre il 77 per cento dei contagi avviene in casa. E anche oggi il tema delle diffusione del virus in famiglia, secondo diversi esperti, continua ad essere centrale.

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C’è chi chiude perché i turisti non ci sono più e c’è chi invece cerca di percorrere strade alternative per rimanere aperto. Sono tanti gli alberghi in tutta Italia che sono diventati o stanno per trasformarsi in Covid-hotel. Strutture utili ad alleggerire la pressione dell’epidemia sugli ospedali. Per farlo in diverse parti del paese sono state stipulate, sin dalla prima ondata, convenzioni tra le regioni e le associazioni di categoria alberghiere che prevedono corrispettivi variabili da regione a regione per mettere a disposizione le camere. La soluzione soddisfa due esigenze: puntellare la rete anti-Covid e aiutare gli albergatori in difficoltà con fatturati in calo anche del 90 per cento. Gli alberghi ospitano principalmente malati che è bene tener ricoverati, ma che non presentano sintomi di eccezionale gravità. Spesso si tratta di pazienti dimessi, ma che, ancora positivi, è bene tenere sotto osservazione. Da un po’ di tempo però si parla degli hotel anche per un’altra funzione: separare asintomatici e paucisintomatici da famiglie e conviventi. A inizio ottobre l’Istituto superiore di sanità scriveva che oltre il 77 per cento dei contagi avviene in casa. E anche oggi il tema delle diffusione del virus in famiglia, secondo diversi esperti, continua ad essere centrale.

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In teoria la maggior parte delle convenzioni prevede che gli alberghi possano ospitare anche pazienti di questo tipo. In pratica però nelle strutture vengono ricoverati principalmente pazienti dimessi da poco dagli ospedali. Il Lazio è un ottimo esempio. Anche perché la Regione ha scelto come strategia sanitaria quella di ricoverare anche malati con sintomi non gravissimi. L’assessore alla Sanità Alessio D’Amato sostiene che l’ospedalizzazione sia una strategia funzionante: il tasso di letalità in Lazio è molto più basso rispetto alla media nazionale (2,4 per cento contro 5,2). Qualche giorno fa, il 31 di ottobre, la sindaca di Roma Virginia Raggi ha inviato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti una lettera per chiedere di utilizzare in maniera sistematica gli alberghi anche per ospitare gli asintomatici. La missiva è stata condivisa anche da Federalberghi, indispettendo non poco il governatore e segretario del Pd che proprio con l’associazione di categoria già da marzo aveva firmato una convenzione per l’utilizzo delle strutture alberghiere.

 

“Lo facciamo da mesi, abbiamo 700 posti a disposizione e 150 ancora liberi”, è stata la risposta piccata dell’assessore D’Amato. Attualmente a Roma e dintorni ci sono disponibili tre alberghi (erano quattro durante la prima ondata), quasi che supportano la rete ospedaliera. Altri sette hotel sono a disposizione. La convenzione con la Regione prevede che in cambio di 30 euro per stanza gli alberghi mettano a disposizione soltanto la manutenzione ordinaria e straordinaria e la sorveglianza h24. Al resto pensa il personale delle Asl. Non solo medici, infermieri per il controllo sanitario, ma anche operatori che si occupano delle pulizie e della distribuzione dei pasti. “Il numero di alberghi coinvolti aumenta o diminuisce rispetto all’andamento della curva”, spiegano dalla Regione. E il piano prevede dunque di aumentare i posti nei prossimi giorni. Intanto – fanno sapere – sono diventati oltre 200 i posti Covid-19 allo Sharaton, dove ci si sta attrezzando per portare anche malati un po’ più gravi, in modo di alleggerire ulteriormente la pressione sugli ospedali.

 

La proposta di Raggi però andava in un’altra direzione. “La Regione si nasconde dietro a un dito”, è l’accusa dell’assessore al Personale del Campidoglio Antonio De Santis. In Campidoglio insistono su una misura massiva: migliaia di posti per ospitare tutti gli asintomatici che dovrebbero fare quarantene in isolamento assoluto e non riescono perché vivono in case troppo piccole o in famiglie molto numerose. In alcuni casi, come quando si creò un rilevante cluster nella comunità bengalese, la Regione ha utilizzato così le strutture, ma – secondo il Campidoglio – si tratta di “eccezioni” di “interventi spot”. In generale gli alberghi vengono utilizzati per il ricovero dei malati ricoverati le cui condizioni sono migliorate. Perché non estendere capillarmente, come chiede Raggi, la rete alberghiera anche ad asintomatici e paucisintomatici? Il grande problema non è la volontà politica. Ci sono due questioni. La prima è che gli alberghi non sono gratis. La seconda è che per ogni struttura servono infermieri, medici e operatori socio sanitari. Personale che in un periodo di emergenza non può essere sprecato.

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Emblematico su questo è quanto accaduto a Milano. Le Ats della Città metropolitana chiedevano alla Federalberghi di inserire in una convenzione analoga a quella laziale alcune operazioni a carico del personale degli alberghi, come la misurazione della febbre e quella dell’ossigenazione del sangue. Un modo per ridurre il più possibile il personale sanitario necessario alle strutture. “Alla fine siamo riusciti a farli optare per una facoltà”, racconta Maurizio Naro, presidente di Federalberghi Milano. Chi offrirà questo servizio verrà pagato 95 euro al posto letto, 10 in più di chi si limita a mettere a disposizione la stanza. Sono nove le strutture che hanno partecipato, due l’Astoria e la residenza Adriana sono state già attivate con oltr 165 posti.

 

“Con i tassi di riempimento in calo costante ormai sotto al 10 per cento alcuni chiudono, altri resistono, ma tanti valutano anche questa alternative”, spiega Naro. Non tutti gli albergatori però sono interessati a diventare Covid hotel. Tutti temono che associare il proprio nome al coronavirus comporti un grave danno d’immagine. “Vi do il numero delle strutture, ma non i nomi che mi querelano, non è certo un bel modo di farsi pubblicità”, scherza sul punto Walter Pecoraro di Federalberghi Lazio.

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