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inchiesta

La verità vi prego sui tamponi

Quanti test servirebbero? E perché ne facciamo ancora pochi? E quanti "tracer" mancano?

David Allegranti

Indagine su un mistero moderno: perché non riusciamo a tracciare l’Italia come dovremmo

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La seconda ondata è appena iniziata e i problemi sono molti. Partiamo dal primo, i tamponi. Il numero di quelli effettuati è di nuovo in crescita. Al 22 ottobre ne sono stati fatti, secondo i dati del ministero della Salute, 14.132.421, cioè 170.392 in più rispetto al giorno precedente. La Lombardia è quella che ne ha fatti di più (2.610.718), seguono Veneto (2.192.554) ed Emilia Romagna (1.433.217). Domanda: bastano? Il professor Andrea Crisanti ha spiegato di non aver avuto più riscontri dal governo sul suo piano nazionale, lanciato nell’agosto scorso, che si proponeva di “dotare l’Italia di una rete di laboratori fissi e mobili per incrementare a 400.000 la capacità di effettuare tamponi ed eliminare differenze regionali con l’obiettivo di consolidare i risultati del lockdown e mantenere i contagi a un livello basso che non interferisse con la qualità della vita e le attività produttive”.

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La seconda ondata è appena iniziata e i problemi sono molti. Partiamo dal primo, i tamponi. Il numero di quelli effettuati è di nuovo in crescita. Al 22 ottobre ne sono stati fatti, secondo i dati del ministero della Salute, 14.132.421, cioè 170.392 in più rispetto al giorno precedente. La Lombardia è quella che ne ha fatti di più (2.610.718), seguono Veneto (2.192.554) ed Emilia Romagna (1.433.217). Domanda: bastano? Il professor Andrea Crisanti ha spiegato di non aver avuto più riscontri dal governo sul suo piano nazionale, lanciato nell’agosto scorso, che si proponeva di “dotare l’Italia di una rete di laboratori fissi e mobili per incrementare a 400.000 la capacità di effettuare tamponi ed eliminare differenze regionali con l’obiettivo di consolidare i risultati del lockdown e mantenere i contagi a un livello basso che non interferisse con la qualità della vita e le attività produttive”.

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Nel frattempo, ci si è arrangiati. Le Regioni continuano a procedere in ordine sparso. In Veneto, Luca Zaia ha annunciato un ambulatorio dedicato esclusivamente ai tamponi in ogni Ulss, aperto 24 ore su 24. Il primo ha aperto a San Donà di Piave, nel Veneziano. Nel Lazio, a Roma, la gente si mette in fila fin dal mattino al drive in, attendendo ore. Ma sarebbe possibile replicare il modello altrove? Dietro un tampone, dal momento in cui si fa al momento in cui il potenziale contagiato riceve la risposta, c’è molto lavoro. Ci sono macchinari costosi e c’è un personale qualificato che deve saper leggere i risultati. “Durante la prima ondata, in Lombardia ci fu il caos perché c’era carenza di reagenti per i tamponi e perché fu seguita l’indicazione erronea dell’Oms di fare il tampone solo alle persone sintomatiche”, spiega al Foglio l’immunologo Sergio Romagnani, professore emerito all’Università di Firenze, di cui Crisanti è stato per un certo periodo allievo. “Quindi i tamponi venivano fatti solo nelle zone in cui il virus imperversava. Ecco perché la mortalità era altissima rispetto al numero di persone contagiate: il tampone veniva fatto solo a quelli che erano malati, anziani, e che morivano. Ma la percentuale di letalità dovuta al virus era più bassa. Il problema è stato risolto e i reagenti sono più facilmente disponibili. Il numero è stato aumentato di 10 volte rispetto all’inizio”.

 

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Però non è finita qui, sottolinea il professor Romagnani: “Servono le attrezzature per la lettura dei risultati. Il tampone è un cotton fioc che preleva il campione dal naso o dalla bocca, poi va messo in una provetta che poi viene sigillata, perché c’è il virus o ci potrebbe essere. La provetta va dunque mandata in un laboratorio specializzato, dove la prima cosa che viene fatta è inattivare il virus se eventualmente presente, altrimenti chi ci lavora potrebbe contaminarsi”. Poi arriva il ruolo dei macchinari, che fanno “la cosiddetta pcr quantitativa, che è una amplificazione del dna, con cui si valuta la presenza o meno del genoma virale”. Quali sono però i limiti professore? Perché questi test non possono essere fatti ovunque? “Intanto servono dei criteri di qualità. Bisogna essere certi che chi fa questo esame abbia le competenze e le attrezzature. Inizialmente, si sono verificati degli errori con reagenti arrivati dalla Cina che non erano ben funzionanti. Per questo serve un controllo di qualità. Anche l’utilizzo di laboratori privati è delicato, devono rispondere a certi criteri”. Non è insomma un esame del sangue o un esame per la glicemia che può essere fatto anche in farmacia. “Quelli sono esami banali. Anche lo stesso esame sierologico, che purtroppo ha sensibilità bassa visto che la negatività non esclude l’infezione, lo è: una banale goccia di sangue si mette in una piccola lastrina di plastica con dei fori e viene fuori la risposta immediata. È un test che non richiede macchinari, una volta che c’è il kit approvato può essere fatto ovunque. Invece, per fare una valutazione sicura della presenza del virus nel tampone che viene effettuato serve un test che richiede attrezzature, serietà, competenza e capacità di lettura”.

 

Dunque, se vengono rispettati questi criteri, è possibile aumentare il numero di tamponi? “Certo che è possibile. Andrebbe aumentato il numero dei tracciatori, cioè di coloro che prelevano la secrezione dal naso o dall’orofaringe. Poi bisognerebbe aumentare il numero dei punti di prelievo. Come si vede, a Roma e Napoli ci sono le file per farsi fare il prelievo fin dalle prime ore del mattino. I punti di prelievo sono pochi”. Le strozzature del sistema insomma sono varie. Dal personale qualificato (“Basta un giorno per formare un tracciatore”, dice Romagnani) ai laboratori. “Già a marzo dicevo che bisognava fare i tamponi anche agli asintomatici. Adesso può succedere che in tutti Italia si verifichi una situazione a quella presenta in marzo e aprile in Lombardia. La maggioranza delle persone non capisce che un virus di tipo nuovo come questo o si controlla in anticipo oppure non si ferma perché è altamente contagioso e diffusivo. In questi ultimi 2-3 mesi, per motivi vari, legati anche al fatto che la gente è stata all’aria aperta, il virus ha avuto un grande rallentamento nella sua diffusione. Con il via libera durante l’estate però, con le persone ammucchiate sulle spiagge e nelle discoteche, il virus ha ripreso a diffondersi. Fino a un certo punto, l’aumento dei contagi ha un andamento lineare, e i contagi sembravano rimanere più o meno gli stessi, poi ha assunto un andamento esponenziale: una persona infetta ne contagia tre-quattro e a loro volta ognuna di queste ne contagia altre. Così si può passare da 10 mila contagi al giorno a trentamila e più in pochi giorni. Perché il virus non ha limiti, ha approfittato della sua libertà e ora potrebbe essere inarrestabile. I riduzionisti dicono di fare il confronto con i dati di marzo, perché a marzo c’era un tasso di mortalità altissimo. Ma fra due-tre settimane avremo di nuovo le terapie intensive stracolme. Non solo in Lombardia, in Veneto o in Emilia-Romagna, ma in tutta Italia. Anche in quelle Regioni che prima sembravano libere dal virus. La differenza è che mentre la Lombardia aveva e ha gli strumenti per resistere a un focolaio anche esteso, ci sono Regioni che oltre un certo numero di letti in terapia intensiva non ce la faranno”. E il vaccino? “Arriverà, si spera, fra 5-6 mesi, nel frattempo c’è da passare l’autunno e l’inverno. Quanto resisteremo in un paese stremato economicamente come il nostro, se ci sarà un nuovo lockdown?”.

 

La risposta a questa domanda, dice Carlo Palermo, segretario dell’Anaao, è il Mes. Per fare più tamponi, per acquistare macchinari, servono soldi. Le risorse del Mes servirebbero proprio a questo. “Noi avevamo individuato le criticità già un paio di mesi fa, insistendo perché si accedesse ai fondi del Mes già prima dell’estate. Dovevamo aumentare i tamponi, come diceva il piano Crisanti. C’era tutto il tempo per acquistare non solo i tamponi ma anche reagenti e macchinari per processarli. Da dieci anni lamentiamo il sottofinanziamento del Sistema sanitario nazionale. Il che non vuol dire soltanto minori soldi ma anche un massacro sistematico degli ospedali e dei dipartimenti Igiene e prevenzione”. Questi dipartimenti, “depauperati nel corso degli anni, hanno dovuto affrontare una malattia ad andamento epidemico senza risorse adeguate e senza personale. Quando sono stati fatti i tagli, hanno tagliato proporzionalmente di più nei dipartimenti di  igiene e prevenzione che negli ospedali. Il risultato è che ora ci troviamo in difficoltà”. La questione infatti non si ferma soltanto alla capacità produttiva dei tamponi. Serve infatti anche il tracciamento, dice Palermo. “La Germania ha assunto 10 mila tracciatori. Dovremmo farlo anche noi considerata la scarsa diffusione dell’App Immuni. Il Mes avrebbe permesso di aumentare il numero dei tamponi e di assumere a tempo determinato dei tracciatori, innalzando la linea di resistenza del Servizio sanitario nazionale. Anche aumentando il numero di letti Covid, che devono essere separati da quelli ordinari e che richiedono personale dedicato. Al San Camillo hanno il reparto Covid quasi pieno, si stanno preparando per aprire un altro reparto ma manca il personale. I letti delle terapie intensive e sub intensive avranno pure le ruote, ma non viaggiano da soli”.

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Al dottor Palermo chiediamo anche se non sia possibile migliorare l’offerta e liberalizzare i tamponi. Risposta: “Nei luoghi di lavoro e nelle scuole si potrebbe organizzare uno screening periodico per garantire un certo livello di sicurezza. Inoltre, un modo per liberalizzare e aprire l’accesso ai singoli cittadini, sarebbe farlo eseguire ai medici di medicina generale. Il problema è che non tutti hanno degli ambulatori in cui si possa separare lo sporco dal pulito, cioè l’infetto dal non infetto. Ci vogliono dei percorsi ad hoc, altrimenti si rischia di trasformare gli ambulatori in luoghi di diffusione del contagio. Non so quanti singoli medici abbiano un percorso del genere, mentre i medici che lavorano nelle case della salute fanno già medicina di comunità. Strutture così grandi sono facilitate nella separazione dei percorsi”.

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