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Viaggio ad Anagni, dove nasce il vaccino anti Covid

Immersi nella bolla sterile, come in un set fantascientifico. Nel cuore dello stabilimento Catalent, dove sarà infialato il tanto atteso vaccino anti Covid-19. Un milione e mezzo di dosi al giorno

Marianna Rizzini, video di Roberta Benvenuto

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Anagni. Il serpente d’acciaio si staglia in mezzo alla stanza, e si capisce che dentro, dietro ai vetri, un cervello smaterializzato invisibile impartisce ordini di lavoro a pieno ritmo, tra tubi e tank giganti, sacche e involucri, carrelli e schermi di interfaccia macchina-uomo. E dietro ai portelloni – da sottomarino? da astronave? da set fantascientifico del film “Gattaca”? – i flaconi girano veloci su piastre rotanti e nastri-rotaia, dove invece di un treno giocattolo scorre una catena di boccette trasparenti, asciugate in un tunnel-molla dopo un passaggio in un pentolone ribollente d’acqua, tra piccoli geyser di vapore del sistema di lavaggio e sterilizzazione. Sono le 9 e 45 del mattino e ci troviamo nella pancia della balena, ad Anagni, cioè nel cuore dello stabilimento Catalent in cui avrà luogo, per conto dell’azienda farmaceutica AstraZeneca e in vista della distribuzione in Europa, l’operazione di infialamento-vaccino. Il vaccino anti Covid, quello di Oxford. Quello che da ieri è fermo per verifiche al blocco di partenza, in attesa del verdetto di una commissione indipendente sulla reazione avversa che ha colpito una volontaria su cinquantamila.

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Gli scienziati dicono che lo stop dopo la “reazione avversa” è normale:  meglio controllare invece di correre e fallire


 

Il mondo guarda, gli scienziati dicono che uno stop del genere è normale nel corso del processo di sperimentazione, e che è meglio controllare invece di correre e magari fallire. AstraZeneca ha scelto questa linea, come da protocollo: sospendere subito, verificare subito (e forse evitare subito scenari da spionaggio industriale o da caccia alle streghe globale sul web). La concorrenza e il mercato, in questo caso, possono fare da antidoto alle mire espansionistico-sanitarie di alcuni stati. Il dibattito è in corso, la notizia gira, ma è come se non lasciasse traccia, ora, nello stabilimento Catalent dove non ci si può permettere di stare fermi: se il vaccino arriva, dopo le verifiche, bisognerà tirare fuori dal serpentone 150 mila flaconi pluri-dose al giorno, per un totale di un milione e mezzo di dosi al giorno e cinquanta milioni di dosi al mese.

Sono le 9 e 45 del mattino e abbiamo già attraversato due stanze a compartimenti stagni che sembrano ascensori – al di qua di una barriera ti lavi le mani in un lavandino azionato dal ginocchio destro, e ti infili una tuta spaziale bianca usa e getta, la cuffia, le scarpe di sicurezza, i calzari e la mascherina. Al di là della barriera entri nella bolla sterile. E una porta pesante si spalanca su un corridoio senza fine, luminescente, costeggiato da sale in cui robot-gru inscatolano altri farmaci (antibiotici, per esempio) o da aule in cui i nuovi assunti per la missione-vaccino, tecnici e ingegneri, anche loro con tuta spaziale, ma verde o blu, studiano su uno schermo i possibili intoppi dell’operazione. E se alzi lo sguardo, ai lati, ti scrutano grandi specchi convessi che permettono la visione agli incroci, quando passano carrelli “uomo a bordo”, spiega in lessico tecnico il general manager Barbara Sambuco, la donna che in luglio, dopo la firma dell’accordo europeo sul vaccino “bene comune”, come lo ha definito la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, e dopo il via annunciato dal ministro della Salute Roberto Speranza, ci aveva raccontato che guidare lo stabilimento di Anagni, nell’ultimo anno, le era sembrato un po’ come guidare l’“Apollo 13”, da tanto l’errore deve essere eliminato dall’orizzonte: “Failure is not an option”, diceva la manager-astronauta, e a due mesi di distanza l’idea è sempre quella: non si può sbagliare, in questo campo, dice Sambuco, “e lo stop di oggi dimostra serietà”.

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Non si può sbagliare, dice anche il manager dell’area prodotti biologici Alessandro Catallo, l’uomo che ci illustra il funzionamento del serpentone-isolatore. E le macchine, mentre il manager parla, sembrano vivere di vita propria, circondate da supervisori che le osservano, le coccolano, le scrutano, le custodiscono. È la fase di prova – con acqua al posto del vaccino-materia prima, quello studiato a Oxford in collaborazione con l’istituto italiano Irbm di Pomezia – ma è una prova che deve portare alla perfezione. E gli schermi-interfaccia si illuminano di colori e dati incomprensibili al visitatore: velocità, temperatura e altre misure segrete del successo o dell’insuccesso in vista di ottobre, il mese in cui si pensava e si pensa di potersi lanciare nella vera e propria operazione (che durerà a lungo: dopo il lavoro per AstraZeneca arriverà un simile lavoro per Johnson & Johnson, spiega Sambuco).

E ad Anagni, dove un anno fa ancora non si sapeva che cosa sarebbe accaduto dopo il cambio di proprietà da Bristol-Myers Squibb a Catalent, il futuro appare ora come un susseguirsi di tempi stretti e responsabilità (“come si fa a non essere orgogliosi?”, ha detto un giorno la general manager ai dipendenti e a se stessa, all’idea di dover reggere il ritmo della possibile corsa per la salvezza dal virus che ha messo sottosopra la vita per come la conoscevamo). E a un certo punto, sbirciando in una delle aule, il flacone che compare sullo schermo davanti ai nuovi assunti si fa simbolo del tutto: se si trova il difetto, il punto debole, si è già un passo avanti. Scongiurato il difetto nel flacone, si troverà anche il tallone d’Achille di un virus che con la sua hybris ci sta facendo dannare? Ma è un pensiero magico, irrazionale, mentre qui dentro, tra i settecento dipendenti, nulla può essere lasciato in balìa del fato, della fortuna, della vendetta e dell’impulso. “Abbiamo avuto sì fortuna”, dice però Sambuco, ripensando alla fine del 2018, quando in molti, nello stabilimento, si erano visti senza lavoro: la fortuna di avere pronti i macchinari giusti al momento giusto, e la “capacità sterile libera” di due “linee in isotecnia”.

Catallo intanto spiega il funzionamento del tunnel di “depirogenazione”, e la parola bisogna farsela ripetere due volte, prima di capire che ha a che fare con l’eliminazione di residuati di batteri. E quasi quasi te li vedi, i batteri, che soccombono davanti a quell’esercito di uomini in tuta spaziale, mentre una teoria di siringhe giganti, finalmente, inoculano il vaccino scongelato da meno ottanta gradi nelle boccette dal tappo grigio con ghiera rossa. E si intravedono sacche di tappi e sacche di ghiere, e montagne di cartonati per il trasporto, oltre a tubi di acqua distillata che corrono su fino al soffitto, e dal set di “Gattaca” ci si sente subito su quello di “Delicatessen”, il film post-apocalittico di Jean-Pierre Jeunet ambientato in un non-luogo pieno di strani ingranaggi. Solo che lì era tutto cupo mentre qui è tutto chiaro. “A pensare in positivo si guadagna sempre”, dice Barbara Sambuco, mentre racconta che nei primi tempi di pandemia, quando scarseggiavano le mascherine, essendo sorella di un medico ospedaliero, si era rifiutata di comprarle per lo stabilimento, e allora nello stabilimento ci si era messi a cucirsele da sé, tagliando pezzi di stoffa-carta dalle tute spaziali usa e getta (che paiono meravigliose all’improvviso).

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