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A 28 anni ho avuto il Coronavirus. Ai negazionisti dico: andate in quarantena

Giulio Seminara

Lo scetticismo, la malattia, l'ospedale e il dopo: la testimonianza di un giovane guarito. Con il dubbio che forse tutto questo dolore sia stato inutile

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Ho ventotto anni e ho avuto il Coronavirus. Sono un'eccezione alla diceria spacciata per regola secondo cui si fanno male soltanto i “vecchi”, “i già malati” e “quelli del Nord”. E io ero giovane, in buona forma e catanese-romano. E pure senza il 5G. Sono guarito a inizio dello scorso maggio ma non ho mai smesso di essere uno dei circa 267.282 casi di italiani positivi. Perché dopo le dimissioni dall'ospedale non mi sono mai potuto dimettere dai panni di untore, (ex) malato e reduce. Me l'hanno detto gli occhi pietosi, gli urlati giudizi muti e le curiosità sfrontate di tanti, ogni giorno d'estate. Il mare era sullo sfondo, una parentesi blu tra le solite domande nere “come l'hai preso?”, “quindi hai perso l'olfatto?”, “in ospedale hai visto gente morire?”. Scene andate in pendant con le varie faccine falsamente caritatevoli - e insieme giudicanti - che mi accompagnavano come fossi un orfanello dickensiano: sì sventurato, ma anche un po' colpevole. Chi si accompagnava a delinquentelli londinesi, chi snobbava precauzioni e mascherine. E poi me lo sono detto da solo, quando ho realizzato che il Covid, oltre mille strani sintomi e una piccola infiammazione polmonare, mi aveva donato una sorta di status symbol. Harry Potter con la cicatrice, “colui che è sopravvissuto”- sussurravano, il predestinato tra i maghi. Io con la certificazione della Asp, “l'unico giovane catanese col Coronavirus” - sorridevano, sottotesto: Giulio è stato un po' un coglione. E in tutta questa storia lo sono un po' stato.

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Ho ventotto anni e ho avuto il Coronavirus. Sono un'eccezione alla diceria spacciata per regola secondo cui si fanno male soltanto i “vecchi”, “i già malati” e “quelli del Nord”. E io ero giovane, in buona forma e catanese-romano. E pure senza il 5G. Sono guarito a inizio dello scorso maggio ma non ho mai smesso di essere uno dei circa 267.282 casi di italiani positivi. Perché dopo le dimissioni dall'ospedale non mi sono mai potuto dimettere dai panni di untore, (ex) malato e reduce. Me l'hanno detto gli occhi pietosi, gli urlati giudizi muti e le curiosità sfrontate di tanti, ogni giorno d'estate. Il mare era sullo sfondo, una parentesi blu tra le solite domande nere “come l'hai preso?”, “quindi hai perso l'olfatto?”, “in ospedale hai visto gente morire?”. Scene andate in pendant con le varie faccine falsamente caritatevoli - e insieme giudicanti - che mi accompagnavano come fossi un orfanello dickensiano: sì sventurato, ma anche un po' colpevole. Chi si accompagnava a delinquentelli londinesi, chi snobbava precauzioni e mascherine. E poi me lo sono detto da solo, quando ho realizzato che il Covid, oltre mille strani sintomi e una piccola infiammazione polmonare, mi aveva donato una sorta di status symbol. Harry Potter con la cicatrice, “colui che è sopravvissuto”- sussurravano, il predestinato tra i maghi. Io con la certificazione della Asp, “l'unico giovane catanese col Coronavirus” - sorridevano, sottotesto: Giulio è stato un po' un coglione. E in tutta questa storia lo sono un po' stato.

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A gennaio sotto sotto ritenevo il Coronavirus una questione privata cinese. Poi Codogno mi sembrava troppo lontana. Quindi certi discorsi un po' allarmistici. E il Covid? Una forte influenza. La colonna sonora immaginaria del mio cervello irresponsabile era l'hit sanremese di Achille Lauro: Non mi sfiora nemmeno/ Oh, sì, sì, me ne frego/ Me ne frego. All'arrivo delle zone rosse e delle prime resse in ospedale il subconscio cinico e arrogante del me under 30 mi suggeriva che tanto il Covid si accaniva gravemente solo su anziani malati e immunocompromessi: il virus come una specie di avvoltoio sui quasi cadaveri. Un affare da quasi morti, non un dramma dei vivi. Invece il mio lato libertario soffriva per le crescenti strette su trasporti e attività imposte dal premier Giuseppe Conte a colpi di Dpcm. Insomma non l'avevo presa seriamente.

    

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Poi, a marzo inoltrato, ho preso il virus. Non so ancora come, anche se me lo chiedo stupidamente, ogni giorno. Una mattina mi sono svegliato e non ero solo: febbre alta, faringite infernale, tosse roboante, stanchezza e dolori muscolari come se i 300 spartani avessero giocato a calcio su di me per tutta la notte. E poi il fiatone, emerso nella fatica di portare avanti la telefonata con un amico. Questi sintomi mi hanno accompagnato, alternandosi, per un mese e mezzo. Non era solo un'influenza. A fine aprile mi hanno ricoverato, nel reparto Covid di Catania. Ho fatto il mio primo viaggio in ambulanza attraversando una città tanto luminosa quanto desolata, una specie di "Io sono leggenda" versione primaveril-terrona. Dopo mesi di allarmi sull'ineluttabile esplosione del sistema sanitario meridionale sono stato ben accolto in una struttura pulita e ordinata. Dalla mia finestra si vedeva l'Etna ancora parzialmente nevicata. Dalla mia porta si sentivano le urla di dolore di alcuni pazienti. Qualche settimana fa, all'ennesima conversazione con amici che sostanzialmente liquidavano il Covid come “minkiata”, ho preso lo smartphone e fatto ascoltare le grida anonime del mio vicino di stanza. Ne è derivato un piccolo silenzio. Mi ha colpito che tutte le tre persone da me ascoltate in quei giorni durante i loro deliri urlati abbiano sempre invocato la mamma, con tante “aaaaa” a forma di preghiera, nonostante avessero in media più di 80 anni e chissà quanti figli e nipoti alle spalle. Non so che fine abbiano poi fatto, ma mi sento tuttora in colpa perché non troppo tempo prima ritenevo quasi legittimo quel dolore atroce.

     

Già, il senso di colpa. Dimesso da oltre tre mesi dall'ospedale, non mi sono potuto dimettere dai sensi di colpa. Questo perché, senza entrare nello specifico, ho la consapevolezza di aver molto probabilmente contagiato una persona a me molto cara, che se l'è vista brutta. E parlo di polmoni brucianti, difficoltà motorie, nausea, perdita dell'olfatto (si, non è un mito) e cure da cavallo in ospedale, in una stanza isolata, frequentata solo da infermieri nascosti negli scafandri. Infermieri, e medici e operatori sanitari, avvolti dalle tute speciali anti-contagio. Sembravano astronauti. Totalmente indistinguibili, a volte si scrivevano i nomi sul retro con i pennarelli blu per riconoscersi. Non conosco il viso di nessuna delle persone che mi ha curato, tra un prelievo e una radiografia. Io settimane dopo sono stato ricoverato nella stanza accanto, sapendo però che questa persona stava meglio. E mi è sembrata una carezza del destino. Come quella che ha avuto la forma gloriosa della prudenza. Nei giorni in cui presumibilmente ero positivo ma inconsapevole, avevo pensato di portare i giornali a una mia nonna e di mostrare i miei articoli a un'altra. Per fortuna il giovane irresponsabile che era in me ha lasciato il passo al gemello scrupoloso. Sono rimasto a casa. Non ho “ucciso” le mie nonne, recentemente viste in buona forma al mare. Questa situazione da sliding doors, riprodotta migliaia di volta ogni giorno in tutta Italia durante i mesi del lockdown e pure dopo, la dice lunga su quanto vicini abbiamo ballato con la morte. Nelle settimane successive alla guarigione ho visto conoscenti cambiare in fretta marciapiede e altri trasalire al mio passaggio. Ma lo capisco. La paura va rispettata e in questa storia è andata a braccetto con la prudenza e ha contribuito a salvare tante vite.

     

Invece appare incomprensibile il nuovo atteggiamento di molti: oltre i negazionisti militanti, i complottisti da strapazzo e i devoti al generale Pappalardo, c'è tanta gente normale e mediamente razionale che ha rimosso il Coronavirus dalla propria memoria. Come fosse andato in onda un film pesantemente distopico ma concluso. Adesso la paura è finita, e con essa la prudenza. Annusando l'aria, alcuni piacioni televisivi - d'ambito medico, politico e imprenditoriale - splendidamente ci dicono che nulla è successo e niente può succedere, alimentando una nuova cultura menefreghista. Masse oceaniche di persone, non solo giovani, si riversano per le vie di Roma, rigorosamente senza mascherina e “assembrati”, in un clima che non è solo uno spregiudicato “liberi tutti” ma l'apoteosi della negazione del Covid e dell'emergenza passata e (forse) futura. Complice una certa ansia di voler recuperare la vita perduta nel lockdown. I vicoli forniti di locali sono strapieni di gente stipata in pochi metri, come i social lo sono di negazionisti e minimizzatori seriali. Dopo la giusta battaglia per la cassa integrazione è venuta la guerra per la discoteca libera, i mega-concerti e gli stadi pieni. Nonostante gli stessi calciatori positivi, i recenti aumenti di contagi, la tragedia sanitaria tuttora in corso in altri paesi, la battaglia per il Mes sanitario e il rischio di una seconda ondata. Rispetto a tanto spericolato ottimismo diffuso, la mia condizione di (ex) malato mi porta a provare straniamento e delusione. Anche perché mi rivedo in questi sbagli. Nel crescente disinteresse per il Coronavirus la mia esperienza inizia a scomparire, restando appena un argomento per curiosi. Come sembrano valere poco i quasi 36.000 italiani morti.

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Non si tratta di chiudersi in casa e rinunciare alla vita, ma forse di riabbracciarla con più tatto. Non dovevamo per forza diventare migliori, anche se quando casa nostra venne isolata come un incrocio tra l'Area 51 e Chernobyl, con noi ammalati e impossibilitati a fare la spesa in un mondo senza servizio a domicilio, i nostri amici con modi rocamboleschi ci hanno fatto trovare in ascensore un pasto caldo ogni giorno. Ma neanche possiamo dimenticare così facilmente. Io ho l'amaro privilegio di non poterlo fare. E mi chiedo se tutto questo dolore sia stato utile oppure no.

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