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Intervista esclusiva

Uno studio di Nature dice che l'immunità di gregge dal Covid-19 potrebbe essere più vicina

Massimo Morello

Antonio Bertoletti è lo scienziato italiano che ha pubblicato la ricerca e al Foglio dice: attenzione ai trionfalismi facili

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"Non lo so". In tutta un’intervista in esclusiva al Foglio, il professor Antonio Bertoletti declina il dubbio in varie forme. "Se sei sincero dovresti dire che sappiamo poco o niente. Andiamo un po’ a naso… Ogni risposta è azzardata… La paura ti uccide ma bisogna evitare i messaggi semplicistici: 'O tutto bene o tutto male'". Il messaggio del professor Bertoletti è all’opposto. "Le cose sono complicate. È la biologia che è complicata". 

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"Non lo so". In tutta un’intervista in esclusiva al Foglio, il professor Antonio Bertoletti declina il dubbio in varie forme. "Se sei sincero dovresti dire che sappiamo poco o niente. Andiamo un po’ a naso… Ogni risposta è azzardata… La paura ti uccide ma bisogna evitare i messaggi semplicistici: 'O tutto bene o tutto male'". Il messaggio del professor Bertoletti è all’opposto. "Le cose sono complicate. È la biologia che è complicata". 

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Bertoletti si riferisce agli studi sul Covid 19 e la sua è un’ammissione che sintetizza modestia e competenza, un po’ inquietante ma stimolante, perché Bertoletti è professore di Emerging Infectious Diseases alla Duke-Nus Medical School, un centro di ricerca dell’Università di Singapore. In precedenza, ha lavorato negli Stati Uniti allo Scripps Research Institute, poi all'Università di Parma e infine all’University College di Londra. Si occupa della patogenesi delle infezioni virali epatiche e solo fino a qualche mese fa non si preoccupava troppo di quella che chiamava una “cattiva influenza”. "Effettivamente avevo sottovalutato la patologia", ammette. "Ma non ho cambiato completamente idea. È una malattia che nell’80-90 per cento dei casi non fa nulla e nella maggior parte dei casi si cura. È che non avrei mai pensato si diffondesse così velocemente e in modo esponenziale perché nella maggior parte delle persone non dà sintomi".

 

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Per uno di quei paradossi che sono alla base del progresso scientifico, però, è proprio Bertoletti col suo team di ricercatori che potrebbe aver compiuto un significativo passo avanti nello studio del Covid-19. Uno studio canonizzato il 15 luglio nella pubblicazione su Nature, la rivista che la comunità scientifica internazionale considera la più prestigiosa: “SARS-CoV-2-specific T cell immunity in cases of COVID-19 and SARS, and uninfected controls”.

 

"È una mia mania: vedere come i vari virus possono mutare e cambiare la situazione umana. Ecco perché alla fine ho deciso di occuparmi del Covid: la malattia diventava sempre più importante e io avevo già studiato la Sars. E allora mi sono detto: "Va bene, facciamolo, andiamo a vedere se i coronavirus hanno sviluppato una qualche forma d’immunità". Spiegare e cercare di capire quello che il professor Bertoletti è andato a vedere, per sua stessa ammissione, è piuttosto complesso. "La biologia è complicata", ripete. "Alla fine, a forza di semplificare si arriva a una cosa ridicola: si rischia di falsare la realtà, di perdere di vista l’obiettivo primario. Non ci sono solo gli anticorpi, un concetto che in immunologia è presente ormai da quarant’anni, ma che sembrava dimenticato nell’attuale clima isterico. Siamo ritornati a una visione dell’immunologia 100 anni indietro". Il protagonista attuale, al tempo stesso problema e soluzione, è la cellula T. "Se vuoi un nome giornalisticamente più evocativo, le 'virus specific T cells'", dice Bertoletti con un filo d’ironia. Le cellule T (chiamate anche linfociti T) sono componenti fondamentali del sistema immunitario e forniscono protezione contro moltissimi virus, dato che sono in grado di individuare e uccidere agenti o cellule individuate come estranee. 

 

"A molti va ancora spiegato che cosa fa la cellula T. Si parla solo degli anticorpi perché sono relativamente semplici da valutare. Le cellule T sono più complicate da misurare". L’obiettivo, almeno per Bertoletti, è questo, spesso trascurato proprio perché ben più difficile da comprendere. "Le cellule T in alcune malattie virali possono essere più importanti degli anticorpi. Inoltre, anticorpi e cellule T agiscono assieme: gli anticorpi, se non ci sono le T cells, non si sviluppano. Nel caso del Covid-19, avere una forte risposta T potrebbe essere la strada per contrastare il virus". Come Bertoletti scrive nel rapporto preliminare per Nature: “È importante diffondere il messaggio che le cellule T e non solo gli anticorpi sono una parte essenziale dell’immunità antivirale. C’è invece l’idea di una totale assenza d’immunità contro i coronavirus nella popolazione generale. Il che è chiaramente scorretto. Diversi tipi di coronavirus hanno sempre circolato tra gli umani. E’ possibile che un’immunità a virus strettamente correlati possa ridurre la vulnerabilità o alterare la gravità della malattia”.

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"Quello che il mio lavoro mostra è che nei soggetti che non si sono mai ammalati di coronavirus, in realtà, ci sono tracce (anche abbastanza consistenti) di immunità cellulare (le solite T cells) contro sezioni di Sars-CoV-2 che potrebbero essere state stimolate da altri virus che circolano normalmente nella popolazione", spiega al Foglio Bertoletti introducendo la definizione di Sars-Cov-2, il coronavirus 2 da sindrome respiratoria acuta grave, (severe acute respiratory syndrome coronavirus 2), il ceppo virale che provoca il Covid-19. "La risposta cellulare T è un’importante componente della risposta immunitaria contro Sars-CoV2. Non solo: questa risposta è con ogni probabilità di lunga durata. Possiamo dirlo perché vediamo che soggetti che hanno avuto Sars 17 anni fa hanno una risposta immunitaria T ancora oggi". Sono quelle che vengono definite “Memory virus T cells”, “cellule T di memoria”, in grado di fornire una risposta immunitaria a lungo termine e proteggerci dai vari coronavirus che condividono caratteristiche genetiche con i coronavirus responsabili delle infezioni Covid-19, Sars e Mers, ma hanno minor virulenza. 

  

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Nello specifico, alcuni coronavirus (una famiglia di virus che comprende moltissimi virus che infettano una grande varietà di animali) sono anche all'origine nell’uomo di comuni raffreddori stagionali, rappresentando circa il 30 per cento totale di tutti gli agenti patogeni che causano costipazione alle vie respiratorie superiori e, nel caso degli anziani, anche gravi infezioni toraciche. Secondo gli studi del team della Duke-Nus Medical School, dunque, se una parte della popolazione ha sviluppato una certa resistenza al virus grazie e precedenti infezioni da coronavirus, potrebbe anche non essere necessario avere il 60 per cento della popolazione infettata per creare un'immunità di gregge. 

 

"La memoria delle cellule T rimane. Il concetto che non c’è immunità di gregge è sbagliato. Non c’è se si valutano solo gli anticorpi o se s’interpreta il termine “immunità” come protezione sicura, ma è invece probabile che, se si valutano le T cells, ci sia una popolazione di soggetti (nel nostro lavoro almeno il 50 per cento) che ha memory T cells contro sequenze di Sars-Cov2. Certo, non possiamo dire che queste cellule proteggano ma non si può nemmeno dire che 'siamo tutti senza immunità'", precisa Bertoletti. Con estrema cautela perché non può non tener conto delle psicosi che stanno diffondendosi ancor più del virus stesso. "Personalmente credo che vivere in una bolla sterile non faccia bene. Ci siamo evoluti anche in questo. L’hygiene theory non mi convince del tutto. Credo più nella training immunity, l’idea che se ogni tanto t’infetti aiuta, il sistema immunitario si mantiene più tonico. Forse è per questo che molte popolazioni del sud-est asiatico non si sono ammalate di Covid-19", aggiunge, sottolineando come la sua sia una semplice ipotesi, forse azzardata, precisando che stiamo passando a un diverso livello di discorso, quasi una conversazione tra amici. "Voglio evitare le polarizzazioni estreme che ha creato il virus. Non sappiamo tanto di questo virus, iniziamo a conoscerne qualcosa ora".

  

Per il momento Bertoletti e il suo team sono concentrati nella ricerca di una cura di cui lo studio pubblicato su Nature, per quanto solo un primo passo, dimostra la validità. "Non so che cosa può accadere. Noi ricercatori osserviamo i fenomeni. Poi i fenomeni devono essere interpretati per formulare nuove ipotesi. Ma non prevediamo il futuro", dice Bertoletti continuando a celebrare il suo culto del dubbio. Ed è nella memoria costante di questo dubbio, proprio come accade nelle cellule T, che si racchiude la speranza. "In futuro, forse, l’immunoterapia attualmente impiegata in alcune forme di tumore potrebbe diventare un'arma per difenderci non solo dal virus Sars-CoV-2 ma anche da altre infezioni virali. Quello che so è che abbiamo imboccato una strada affascinante per il trattamento antivirale, specie nei casi in cui non esistono terapie in grado di contenere un’infezione".

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