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granmilano

L’eccellenza non è andata tutta bene. Indagine sulla Sanità

Fabio Massa e Maurizio Crippa

Dal sit-in “libera la sedia” ai “due infetti”. Appunti su otto anni di riforme inceppate

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Rispondere alla domanda “che cosa è accaduto in Lombardia?” non è facile. Ma ci sono alcune date che aiutano a indicare un percorso, se non ci si vuole smarrire nella polemica politica strumentale, nel fumo delle inchieste già mezzo evaporate come quella sul Trivulzio (la delega alla magistratura, vecchia scorciatoia) e nelle commissioni di inchiesta (vecchio imbuto).

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Rispondere alla domanda “che cosa è accaduto in Lombardia?” non è facile. Ma ci sono alcune date che aiutano a indicare un percorso, se non ci si vuole smarrire nella polemica politica strumentale, nel fumo delle inchieste già mezzo evaporate come quella sul Trivulzio (la delega alla magistratura, vecchia scorciatoia) e nelle commissioni di inchiesta (vecchio imbuto).

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Due date nella storia della Sanità regionale: il 31 marzo 2012 e il 23 maggio 2020, la nota gaffe di Giulio Gallera sui “due infetti” sbandierata martedì in Consiglio regionale per chiederne le dimissioni. E in mezzo, ovviamente, il 23 febbraio 2020: il paziente 1 di Codogno. Cominciamo dal principio. Sabato 31 marzo 2012 sotto Palazzo Lombardia la sinistra organizzò il sit-in “Libera la sedia” per chiedere le dimissioni di Roberto Formigoni. La Lega (scontentando Matteo Salvini che voleva la linea dura) confermò invece la fiducia alla agonizzante giunta del Celeste. Ma il dado politico era tratto, la Lega in Lombardia non stava molto meglio di Forza Italia e il 10 aprile 2012 Roberto Maroni guidò a Bergamo la famosa “notte delle scope” per far pulizia nel suo partito dopo le performance poco commendevoli del “Cerchio magico” di Bossi. Da lì a poco parte la corsa della Lega per Palazzo Lombardia, in ottobre Formigoni getta la spugna travolto dall’indagine Maugeri. Il 18 marzo 2013 Roberto Maroni è presidente della Regione. Tra le priorità assolute del nuovo governatore c’è quella di mettere mano alla Sanità, la zona infetta del “sistema Lombardia”, e il tappeto sotto cui nascondere le magagne giudiziarie leghiste. E ci si mette subito con impegno.

 

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La grande ospedalizzazione

Bisogna però fare molta attenzione. Esiste la politica ed esiste il sistema (sanitario). Poi esiste la politica sanitaria, cioè il modo con cui il governo politico decide il funzionamento del sistema sanitario, e in questo articolo si proverà ad affrontare questo aspetto. Per il resto vi rimandiamo alla commissione regionale che sarà guidata da Patrizia Baffi (Italia viva). Li si proverà a capire, forse, se esistono e quali responsabilità per i troppi morti, per il personale sanitario che ha pagato un prezzo altissimo, per le bare non salutate da nessuno, per le mascherine e i tamponi che non c’erano (e qui non c’è da guardare solo alla Lombardia, in molte cose abbandonata a se stessa, ma al governo e alle inefficienze dei suoi comitati e commissari), per la mancata zona rossa (forse la vera grossa grana politica, dell’inchiesta della magistratura si capirà tra qualche tempo) e l’ospedale di Alzano. Qualcosa è però già chiaro. Nella Lombardia “travolta da uno tsunami”, come ha detto al Foglio il professor Alberto Mantovani, non certo una persona dai toni teatrali, quello che ha retto è stato il sistema degli ospedali, pubblici e privati (le polemiche contro la Sanità “dei soldi”, roba da ministro Boccia o da Riccardo Ricciardi, sono destituite di fondamento: chi vuole controlli i dati e le leggi). In Lombardia quello che invece non ha funzionato sono la medicina del territorio e l’organizzazione, mai decollata, dei sistemi di monitoraggio, di isolamento, di riduzione del contagio, dei test. E’ questo che va indagato. In parte, c’è stato un difetto iniziale di conoscenza. Non c’erano farmaci e terapie provate come empiricamente valide. Tachipirina sì, tachipirina no. Alla medicina territoriale non sono state fornite indicazioni né strumenti. L’unica soluzione, ad epidemia ormai esplosa, era il ricovero in terapia intensiva: attaccare un ventilatore polmonare se c’era, mettere sotto a un casco, provare farmaci. E pregare che fosse la cosa giusta, e anche oggi c’è chi dice che sia stato un errore. L’ospedalizzazione come unica soluzione, e ha retto. Il motivo c’è. Ospedalizzare è stata la scelta più consona all’evoluzione di un sistema sanitario giudicato, senza ombra di dubbio, come eccellenza italiana dalla riforma Formigoni in poi. Solo l’anno scorso (e sembra un’eternità) questi erano i numeri della Sanità lombarda: “Quattro Irccs lombardi occupano le prime 4 posizioni e ben 7 si collocano nei primi 10 posti. Facendo riferimento all’indice di performance globale che include i 14 indicatori utilizzati dal ministero, i 18 Irccs lombardi spiegano da soli il 50 per cento delle prestazioni dei 49 istituti, e i 7 nella top ten spiegano da soli circa il 30 per cento dell’intera performance del sistema dei 49 Irccs italiani. In termini scientifici significa che il 50 per cento delle circa 12 mila pubblicazioni scientifiche prodotte nel 2015 dai 49 Irccs italiani sono attribuibili ai 18 lombardi”. Nei primi giorni della crisi Covid sul tavolo del presidente della Regione (come su quello di altri governatori italiani, tra cui quello emiliano Stefano Bonaccini) c’era una tabella per capire quanto avrebbe dovuto incassare la Regione per aver curato pazienti di altre località. Questo è la Sanità lombarda, tutta giocata nell’equilibrio tra prestazioni di eccellenza e prestazioni di base. Dove sono le prime a tenere su l’impalcatura del sistema economico, e dunque a garantire le seconde. La Sanità non è solo ma è anche un business. Come diceva in un incontro pubblico al Teatro Rosetum il dottor Giancarlo Cesana, ex presidente del Policlinico e uno dei compagni di strada di Formigoni nell’ideazione di quel sistema d’eccellenza che aveva l’ambizione di unire pubblico e privato per servire meglio i cittadini: “Noi rispettiamo il potere e lo frequentiamo”. E dunque, se un business può portare benefici ai cittadini, è un buon business. Piano ambizioso, che si sposa con la nomina tutta politica, palese, addirittura esibita, dei vertici degli ospedali in tutta la Lombardia. E nella costruzione di un sistema in cui il privato è partner. Per tutte le ultime due legislature di Formigoni, la sinistra ha fatto del “fuori la politica dalla Sanità” un mantra di un certo effetto, e con motivazioni via via più valide. Perché se è vero che nominare i propri esponenti nella Sanità è una assunzione ferma di responsabilità, è anche vero che aumenta il rischio di mala gestione. Il Santa Rita, poi il San Raffaele, poi la caduta del Celeste.

  

Quando dunque arriva Roberto Maroni, a cui oggi nessuno si sogna di chiedere niente (chissà perché), l’idea è quella della ramazza. E la usa. L’idea è di superare a ogni costo l’impostazione formigoniana, intesa all’ingrosso come cinghia stretta di trasmissione tra politica e guida della Sanità. Che però, sotto la regia abile di persone come Nicola Sanese, segretario generale della Regione, o Carlo Lucchina, l’ex direttore generale della Sanità (uscito assolto dal caso Maugeri) si è dimostrata anche un sistema di scelta tra capaci. Maroni intende cambiare tutto perché tutto cambi. Primo, appunto: la selezione dei dirigenti sanitari, in precedenza nominati direttamente dalla politica. Nel novembre 2015 tutti gli ospedali ribollono perché Maroni ha deciso di fare dei test a tutti, per farsi presentare una short list da un trio di “esaminatori” (Luca Vago, medico e rettore della Statale, Francesco Longo, direttore del Centre for research on health and social care management della Bocconi e Cristina Masella, docente di Economia e organizzazione aziendale del Politecnico). Si cambia. Direttore generale della Sanità lombarda diventa il medico Walter Bergamaschi, che lascerà nel 2016. Nel 2015 Maroni nomina i nuovi vertici degli ospedali e delle Asl. In tutto 36 manager, con un mandato di tre anni. “Nomine tecniche e non politiche”, ribadisce il governatore. Ma il Pd dice il contrario e lamenta l’assegnazione di 14 posti alla Lega, 11 a Forza Italia, 8 al Nuovo centrodestra e una a Fratelli d’Italia.

 

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La riforma spezzata

Poi c’è la riforma della Sanità, che Maroni elabora fin dall’inizio del mandato. Giulio Gallera, che se ne farà carico in seguito, ancora non è neppure assessore. Maroni incarica il duo Fabio Rizzi (consigliere leghista) e Angelo Capelli (centrista) di scrivere una riforma impostata, nella sua parte fondamentale, su un principio e una analisi delle necessità future corretto, che già era contenuto in tutta una serie di paper precedenti di èra formigoniana: cercare un nuovo modo di gestire le cronicità, ovvero il settore di malattie su cui incidono due fattori, l’invecchiamento progressivo della popolazione e la necessità di una migliore prossimità territoriale per i pazienti. Diabetici, cardiopatici, malati oncologici, malattie rare o ricorrenti, patologie da invecchiamento: un mondo che diventa giorno dopo giorno più affollato e ha bisogno di presa in cura più che di eccellenza ospedaliera. Un mondo che il perfettibile, ovviamente, universo formigoniano aveva trascurato. L’idea è di costruire un meccanismo in base al quale saranno gli ospedali del territorio (strutture più piccole) a costruire percorsi terapeutici per i pazienti, evitando la “processione” tra specialisti e strutture diverse con diversi standard – che spesso non si parlano: e del resto la mancanza di una rete di big data è stata scontata durante l’emergenza – e i medici di base, che però rischiano di scadere a dispensari per prescrizioni di accertamenti e ricette, e iniziano a contestare.

 

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Il problema è che gli scandali, nonostante la ramazza, non si fermano per la Sanità lombarda. La riforma dapprima rimane a metà, e poi quando viene rilanciata genera il frutto amaro che i lombardi hanno assaggiato con il coronavirus. Ma andiamo per ordine. Il principio della riforma scritta da Rizzi e Capelli è di fare dialogare gli ospedali con gli ambulatori territoriali. E’ il motivo per cui nascono le nuove Agenzie sociosanitarie territoriali (Asst), che uniscono tutta la filiera: d’ora in avanti gli ospedali si dovranno preoccupare anche di seguire il paziente nelle cure sotto casa. “Con le nuove Asst che integrano l’ospedale al territorio – commenterà fiducioso Maroni dopo il voto – anticipiamo il futuro”. E l’agosto 2015. Rizzi finisce in carcere a metà febbraio 2016, settore appalti, solo sei mesi dopo l’approvazione della legge. Salvini commenta su Facebook: “Esco ora dal Parlamento europeo e leggo degli arresti in Lombardia. Prima riflessione: chi sbaglia davvero, non merita la Lega”. Rizzi ha patteggiato. Ma prima di febbraio, a dicembre, l’altro padre della riforma, Capelli, finisce per scontrarsi con Maroni che gli ritira le deleghe. Due mesi prima ancora, nell’ottobre 2015, viene arrestato all’alba Mario Mantovani, il cui processo in primo grado recentemente è finito con una condanna. Mantovani era il vice di Maroni ed era l’assessore alla Sanità. Siccome le cose dei giudici spettano ai giudici, e qui non interessa chi si “meriti” la Lega o altri partiti, l’unico aspetto politico e tecnico che importa è che la riforma si era arenata. O meglio, la grande riforma si spezzetta, cambia in qualche modo pelle e prende una direzione che porta a uno scontro frontale tra la Regione e i medici di famiglia.

  

Storia di una presa in carico

La storia della riforma della Presa in carico (PiC) della cronicità in Lombardia (una attuazione delle linee contenute nel Piano nazionale della Cronicità in processi clinico-assistenziali) è complicata e meriterebbe un articolo a parte. Sintetizzando, si può dire il principio ispiratore della PiC all’inizio è lo stesso della ventennale politica sanitaria lombarda: il “quasi mercato sanitario interno, basato sulla separazione tra erogatori in concorrenza tra loro ed ente pubblico regolatore ed acquirente”. La cronicità poteva essere “esternalizzata” ai privati e i tradizionali medici di base finiranno di fatto marginalizzati. Successivamente viene data anche a loro la possibilità di aderire al sistema della PiC, tramite delle cooperative di medici di medicina generale. Ma è soprattutto l’ingresso massiccio dei gruppi privati ospedalieri a prendersi la maggior parte del (futuro) mercato. Con maggiori mezzi “di rete” a disposizione ma, lamentano i medici “di famiglia” con una minore capacità di penetrazione territoriale e di reale “presa in cura” dei pazienti. Passano gli anni, il Corriere del 6 giugno 2018 spiega: “I malati possono scegliere un tutor, definito gestore, che si preoccupi al posto loro di prenotare esami, ricordare le date dei controlli e stilare un piano di cure individuali (Pai). In questo sistema i medici di famiglia si trovano di fronte a tre opzioni: assumere il ruolo di gestori, partecipare come co-gestori o rimanere ai margini”. Rimangono ai margini ma lottano. E vincono: pochissimi cittadini rispondono positivamente alle lettere mandate dalla Regione ai malati cronici perché adottino la nuova presa in carico. Dopo 18 mesi i pazienti che hanno aderito sono solo l’1 per cento del totale. Questo produce uno scollamento tra le strutture regionali, tutte tese a mettere a terra una riforma travagliatissima, e la medicina di base. Tra le altre cose, a complicare il tutto c’è inizialmente una rete informatica non adeguata. Il principale oppositore della riforma di Maroni e di Giulio Gallera (in un secondo tempo) è Roberto Carlo Rossi, specializzato in cardiologia, presidente del sindacato autonomo medici italiani e poi alla guida dal primo gennaio 2012 di Omceo, ovvero l’Ordine provinciale dei medici chirurghi e degli odontoiatri. E si arriva al famigerato lodo Giorgetti, 23 agosto 2019, al Meeting di Rimini: “Nei prossimi 5 anni mancheranno 45 mila medici di base, ma chi va più dal medico di base, senza offesa per i professionisti qui presenti?”.

 

Il lodo Giorgetti

Ora, il punto non è accusare retrospettivamente Giorgetti, ma sottolineare che la macchina della riforma, procedendo e modificandosi, era andata fuori controllo rispetto alle premesse. Poi venne il Covid e tutta l’Italia (non solo la Lombardia) si rese conto amaramente che la struttura dei medici di medicina generale, i medici di famiglia, serve eccome. Rossi fin dall’inizio dell’emergenza spara a palle incatenate: “Nessuno ci ha informato e abbiamo perso un mese per prepararci all’emergenza”, spiega sulla Stampa il 18 aprile. I rapporti tra strutture della Sanità regionale e medici di base erano pessimi, e peggiorano. I dottori lamentano tutta una serie di scollamenti, e anche l’assenza di mascherine, guanti, dispositivi medici. La Regione replica che tutto questo è in capo alla Protezione civile (peraltro cosa perfettamente vera). La medicina di base collassa, si piega. E paga un prezzo altissimo. Assieme ai “suoi” pazienti che non è stata messa in grado di assistere. Roberto Formigoni, che pure nelle prime dichiarazioni pubbliche aveva difeso il “sistema Lombardia”, negli scorsi giorni ha invece puntato il dito contro Maroni (ovviamente in terza persona): “Dopo di me è arrivato qualcuno che nessuno cita mai, che ha governato cinque anni e ha cambiato profondamente e in peggio la Sanità di Formigoni”. Ci sono altre criticità che sono emerse, e che non sono per forza responsabilità della recente riforma, né di Attilio Fontana e nemmeno di Giulio Gallera. Lo smarrimento in un cassetto del piano di emergenza regionale per le epidemie risale all’epoca Formigoni, l’insufficienza dei laboratori per analisi di tipo specialistico (erano solo cinque a inizio epidemia) ha una lunga data. La concorrenza pubblico privato non è sempre virtuosa. Le evidenti carenze nel creare una squadra ristretta di esperti-consiglieri in grado di aiutare i decisori politica (modello Veneto) sono ancora di natura gestionale-politica. Basti pensare al problema dei test sierologici. Del comitato di 27 esperti regionali dalle mille opinioni tutte espresse, tutte diverse e tutte ipotetiche, tali da mandare in confusione anche il decisore politico più razionale e preparato (e non è esattamente il caso lombardo) GranMilano ha scritto la scorsa settimana.

 

Quando anche in Lombardia l’epidemia e la grande paura saranno scomparse, e si sarà diradato anche il fumo delle polemiche, sulle scrivanie di Attilio Fontana, e di Gallera, ma anche di tutta la politica nazionale e degli esperti rimarrà una grande questione: che cosa fare per rimettere in carreggiata il modello sanitario, per aggiustare la riforma incompiuta di Maroni? Le priorità sono ora più evidenti. Si dovrà potenziare il piano per avere a disposizione subito, in caso di necessità, più terapie intensive e sub-intensive. Si dovranno potenziare laboratori di analisi e ricerca. Si dovranno predisporre protocolli di controllo territoriale ed epidemiologico, rimettere nella loro importanza i medici di base. Si dovrà assumere personale, coordinare meglio (e non distruggere) il rapporto tra pubblico e privato.

 

Punire la Lombardia per ciò che non ha funzionato (come una parte della politica crede di dover fare, in mancanza di altro, e da parte di forze politiche che a livello nazionale esprimono il ministro della Salute Roberto Speranza, il signor assente, e organi tecnici che si sono largamente inadeguati) sarebbe un errore per tutti. Prendendo spunto dai suoi errori, si potranno invece correggere anche le cose che non hanno funzionato fuori dalla Lombardia. Sarebbe la cosa più saggia da fare, dopo tanti morti.

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