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Chi esce per primo? Sarà una danza graduale, stabiliamo le regole

Paola Peduzzi

Il passo dalla solidarietà alla competizione e’ breve: vale per gli stati come per il vicino di casa. Un codice per non pestarsi i piedi

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Milano. Dopo molte resistenze, in tutto il mondo sono state prese misure restrittive per debellare la pandemia di coronavirus, in ogni paese si replica più o meno sempre lo stesso film, con alcune eccezioni – in Europa spicca la Svezia – e con alcune differenze – dopo una sola settimana di clausura, la rete inglese è già piena di lamentele sui parrucchieri chiusi. Stiamo scoprendo però che questa – questa clausura, questo lockdown – era la parte più semplice: riaprire sarà molto più difficile. Quando? Come? Soprattutto: chi? Il dibattito è aperto. I danesi aprono dopo Pasqua: l’hanno detto con la stessa sicumera con cui hanno chiuso tutto subito e pagato tutti gli stipendi pubblici senza scomodare “bazooka” o “whatever it takes” vari. Molti altri vedono Pasqua come la soglia massima della chiusura accettabile, anche se man mano che la data si avvicina sono tutti più cauti: facciamo appena dopo Pasqua. Persino il più volubile di tutti, quel Donald Trump che cambia idea ogni giorno e nel frattempo mena, sta facendo scivolare la data della riapertura sempre più in là, piano piano ma inesorabilmente perché i contagi continuano a salire in America, e finché salgono nessuno – nemmeno gli elettori trumpiani che han preso con più facilità il virus sottogamba – ha voglia di violare le regole della quarantena. Ma bisognerà riaprire, questo si sa, e sarebbe utile che questa riapertura avesse delle regole perché altrimenti la riserva di senso civico e responsabilità sociale che abbiamo ritrovato nel nostro tinello finirà subito, e finirà male.

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Milano. Dopo molte resistenze, in tutto il mondo sono state prese misure restrittive per debellare la pandemia di coronavirus, in ogni paese si replica più o meno sempre lo stesso film, con alcune eccezioni – in Europa spicca la Svezia – e con alcune differenze – dopo una sola settimana di clausura, la rete inglese è già piena di lamentele sui parrucchieri chiusi. Stiamo scoprendo però che questa – questa clausura, questo lockdown – era la parte più semplice: riaprire sarà molto più difficile. Quando? Come? Soprattutto: chi? Il dibattito è aperto. I danesi aprono dopo Pasqua: l’hanno detto con la stessa sicumera con cui hanno chiuso tutto subito e pagato tutti gli stipendi pubblici senza scomodare “bazooka” o “whatever it takes” vari. Molti altri vedono Pasqua come la soglia massima della chiusura accettabile, anche se man mano che la data si avvicina sono tutti più cauti: facciamo appena dopo Pasqua. Persino il più volubile di tutti, quel Donald Trump che cambia idea ogni giorno e nel frattempo mena, sta facendo scivolare la data della riapertura sempre più in là, piano piano ma inesorabilmente perché i contagi continuano a salire in America, e finché salgono nessuno – nemmeno gli elettori trumpiani che han preso con più facilità il virus sottogamba – ha voglia di violare le regole della quarantena. Ma bisognerà riaprire, questo si sa, e sarebbe utile che questa riapertura avesse delle regole perché altrimenti la riserva di senso civico e responsabilità sociale che abbiamo ritrovato nel nostro tinello finirà subito, e finirà male.

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Se il mio vicino esce e io no e non è chiaro come lui faccia ad avere l’autorizzazione; se il mio vicino va a lavorare mentre io sono chiuso in casa con in mano lettere di disdetta di lavori che non avrò più: se il mio vicino va a trovare i suoi genitori mentre io devo accontentarmi di quelle videochat sgranate che scandiscono i nostri rapporti familiari, la diseguaglianza finirà per deturpare l’equilibrio responsabile che abbiamo creato. Dalla solidarietà si passerà in un attimo alla competizione, e se non ci sono regole il finale di solito è conosciuto – è brutto e ha i forconi. Trump, che è convinto che la vita e quindi la politica siano soltanto lotta e battaglia e vince il più forte, sta trasformando questo rischio in un format: Politico lo ha definito “l’approccio darwiniano al federalismo”. Gli stati americani che più apprezzano l’operato del governo trumpiano avranno la possibilità di aprire per primi, così come ora ricevono aiuti senza troppi inghippi, mentre gli altri dovranno penare e sudarsi la libertà ritrovata (a occhio il Michigan di “quella donna”, la governatrice Gretchen Whitmer, apre per ultimo). Quel che oggi è retorica presidenziale da anno elettorale domani sarà l’Ohio aperto di corsa perché va conquistato con ogni mezzo e la California invece lasciata nei guai economici (già grossi) della clausura con sperequazioni immaginabili fin da ora.

 

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Per evitare che tanta competizione diventi aperta ostilità bisogna stabilire alcune regole di riapertura, perché oltre alla questione temporale – quando riapriremo? – e a quella geografica – dove riapriremo? – c’è anche quella individuale: chi esce per primo? Sappiamo che la riapertura sarà graduale, ma deve essere una gradualità controllata e con un codice. Per questo le patenti di immunità o le app sul nostro stato di salute sono strumenti utilissimi che vanno elaborati con attenzione: scandiranno questa gradualità, per evitare che a una breve riapertura segua un’altra lunga – e via via insostenibile – chiusura.

 

Tomas Pueyo, lo studioso diventato virale all’inizio di marzo con un articolo su Medium in cui spiegava perché bisognava intervenire immediatamente e in modo rigoroso contro il virus, ha pubblicato un altro articolo: si chiama il martello e la danza. Il martello è quello indispensabile per sopprimere la pandemia, la danza è quella che ci accompagnerà dalle prime riaperture fino alla scoperta del vaccino. E’ il ritmo della gradualità, quello che ci permette di riavere la nostra vita indietro e anche la produttività e una prospettiva economica continuando a tenere a bada il contagio. E’ una danza complicata, occhio ai piedi.

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