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Se la Cina non ci manda più i princìpi attivi, come li produciamo i nostri farmaci?

Giulia Pompili

Gli effetti collaterali del coronavirus sull'industria farmaceutica si sono già fatti sentire in India. Ma ancora non si sa che impatto avrà sull'Europa il blocco degli approvvigionamenti

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Roma. Una delle conseguenze dell’epidemia globale di nuovo coronavirus riguarda l’industria farmaceutica. Chi produce farmaci oggi, da ogni parte del mondo, ha bisogno delle materie prime che per gran parte arrivano dalla Cina. I fornitori cinesi, però, si trovano in un momento di blackout: da una parte le forniture fanno fatica a superare le barriere e i controlli imposti dai vari paesi per l’emergenza; dall’altra parte il problema è che a volte, quelle stesse industrie, a causa dell’epidemia sono sostanzialmente ferme. Le prime conseguenze della carenza di materie prime le sta vivendo l’India, che però è un paese altrettanto strategico per la fornitura di farmaci in tutto il mondo. Per giorni, scriveva già a metà febbraio il South China Morning Post, il governo indiano ha tenuto riunioni con l’industria farmaceutica per capire quale fosse la finestra di indipendenza, cioè quante materie prime erano state accantonate prima di arrivare a un rallentamento della produzione. Poi la risposta è arrivata: tre mesi. Di conseguenza, il ministero del Commercio del governo indiano il 3 marzo scorso ha disposto delle “restrizioni” sulle esportazioni di ventisei farmaci, tra cui alcuni antibiotici, alcune vitamine e l’antidolorifico paracetamolo. Il fatto è che l’India è anche il più strategico esportatore di farmaci generici o raffinati. Secondo la Food and Drug Administration, per esempio, l’America nel 2018 ha importato dall’India il 24 per cento dei medicinali e il 31 dei principi attivi. Nel mercato farmaceutico europeo, secondo quanto riferito a Reuters da Dinesh Dua, presidente della Pharmaceuticals Export Promotion Council indiana (Pharmexcil), l’India controlla il 26 per cento dei farmaci equivalenti: “Sto ricevendo molte chiamate dall’Europa”, ha detto Dua, “stanno andando nel panico”. 

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Roma. Una delle conseguenze dell’epidemia globale di nuovo coronavirus riguarda l’industria farmaceutica. Chi produce farmaci oggi, da ogni parte del mondo, ha bisogno delle materie prime che per gran parte arrivano dalla Cina. I fornitori cinesi, però, si trovano in un momento di blackout: da una parte le forniture fanno fatica a superare le barriere e i controlli imposti dai vari paesi per l’emergenza; dall’altra parte il problema è che a volte, quelle stesse industrie, a causa dell’epidemia sono sostanzialmente ferme. Le prime conseguenze della carenza di materie prime le sta vivendo l’India, che però è un paese altrettanto strategico per la fornitura di farmaci in tutto il mondo. Per giorni, scriveva già a metà febbraio il South China Morning Post, il governo indiano ha tenuto riunioni con l’industria farmaceutica per capire quale fosse la finestra di indipendenza, cioè quante materie prime erano state accantonate prima di arrivare a un rallentamento della produzione. Poi la risposta è arrivata: tre mesi. Di conseguenza, il ministero del Commercio del governo indiano il 3 marzo scorso ha disposto delle “restrizioni” sulle esportazioni di ventisei farmaci, tra cui alcuni antibiotici, alcune vitamine e l’antidolorifico paracetamolo. Il fatto è che l’India è anche il più strategico esportatore di farmaci generici o raffinati. Secondo la Food and Drug Administration, per esempio, l’America nel 2018 ha importato dall’India il 24 per cento dei medicinali e il 31 dei principi attivi. Nel mercato farmaceutico europeo, secondo quanto riferito a Reuters da Dinesh Dua, presidente della Pharmaceuticals Export Promotion Council indiana (Pharmexcil), l’India controlla il 26 per cento dei farmaci equivalenti: “Sto ricevendo molte chiamate dall’Europa”, ha detto Dua, “stanno andando nel panico”. 

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La situazione è in veloce evoluzione e inedita per l’intera industria. Il problema delle materie prime che arrivano da Cina e India e che potrebbe lentamente arrivare a influenzare anche il mercato europeo lo aveva anticipato Politico il 14 febbraio scorso, che rilevava come fino a quel momento non erano stati segnalati problemi di approvvigionamento in Europa, ma che l’allarme sarebbe potuto scattare da un momento all’altro. “Un altro problema sono le ispezioni. Le autorità degli Stati Uniti e dei paesi dell’Ue ispezionano regolarmente le strutture dei paesi stranieri per assicurarsi che la loro produzione sia conforme agli standard. Tuttavia, con stop ai voli, alcuni controlli in Cina e nel sud-est asiatico sono già stati posticipati, ha fatto sapere l’Agenzia del farmaco europea, anche se a questo punto, tali ritardi potrebbero non avere un impatto pratico”. Sempre secondo Politico, l’Europa potrebbe essere meglio preparata dell’America, perché si era già organizzata con stoccaggio e riserve per la Brexit. Inoltre la carenza di medicinali non è una cosa nuova per i paesi europei: secondo un sondaggio dello scorso anno tra i paesi dell’Unione tutti hanno avuto carenza di specifici farmaci. E l’Agenzia del farmaco italiana aggiorna frequentemente l’elenco (pubblico) sui farmaci che non si possono più trovare sul territorio nazionale, per ragioni produttive o per cessata commercializzazione. E spesso la stessa Agenzia decide lo stop alle esportazioni su farmaci specifici – come ha fatto l’India – in caso di necessità. Come in molti aspetti di questa pandemia, il problema è che non sappiamo esattamente quanto il blocco cinese (e poi quello indiano) durerà, e quindi in che misura potrebbe danneggiarci. Per ora, per noi, il problema è soprattutto domestico, visto che il nord Italia è una delle aree di maggior produzione di farmaci d’Europa. “La buona notizia”, scrivevano ieri sul Wall Street Journal Nathaniel Taplin e Charley Grant, “è che le grandi multinazionali farmaceutiche tendono a mettere da parte le riserve. Quindi, se il blocco della produzione in Cina si attenuerà nei prossimi due mesi, sarà possibile evitare carenze gravi”.

 

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Dal punto di vista delle forniture sanitarie, in Italia la situazione era già abbastanza difficoltosa da metà gennaio, quando gli ordini per le mascherine e i presidi medici – anche quelli prodotti a oriente – tardavano ad arrivare. Sul possibile problema per la nostra industria farmaceutica, però, non c’è stato ancora alcun commento ufficiale. Dopo diversi tentativi, non è stato possibile avere un commento ufficiale dall’Aifa.

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