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Quanto rende e quanto costa l’emergenza virus

Lorenzo Borga

Chiudere scuole, attività produttive, manifestazioni di massa? Tenerle aperte o riaprirle? C’è chi ha studiato fino a che punto vale la pena adottare certe misure per contenere un contagio. Si può tornare alla normalità, ma senza fretta

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Il virus rischia di provocare un fenomeno di rigetto, almeno per quanto si legge su alcuni articoli di giornale e si sente dalle dichiarazioni di alcuni politici. È passata più di una settimana da quando è stato scoperto il focolaio epidemico dell’ospedale di Codogno e, dopo aver vissuto una fase comprensibile di smarrimento e paura, il nord del paese spinge ora per il ritorno alla normalità. Lo fa in particolare il settore produttivo, che soffre le regole imposte per il contenimento della diffusione del coronavirus, anche se gli effetti economici, secondo i casi storici di epidemie, sembrano ripercuotersi nel breve periodo e terminare entro un anno o poco più. Ma il rischio è tornare alla normalità troppo in fretta, senza aver ancora debellato il virus. La scienza sconsiglia infatti passi di questo tipo: i danni economici potrebbero essere ancora più alti rispetto alle limitazioni di oggi.

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Il virus rischia di provocare un fenomeno di rigetto, almeno per quanto si legge su alcuni articoli di giornale e si sente dalle dichiarazioni di alcuni politici. È passata più di una settimana da quando è stato scoperto il focolaio epidemico dell’ospedale di Codogno e, dopo aver vissuto una fase comprensibile di smarrimento e paura, il nord del paese spinge ora per il ritorno alla normalità. Lo fa in particolare il settore produttivo, che soffre le regole imposte per il contenimento della diffusione del coronavirus, anche se gli effetti economici, secondo i casi storici di epidemie, sembrano ripercuotersi nel breve periodo e terminare entro un anno o poco più. Ma il rischio è tornare alla normalità troppo in fretta, senza aver ancora debellato il virus. La scienza sconsiglia infatti passi di questo tipo: i danni economici potrebbero essere ancora più alti rispetto alle limitazioni di oggi.

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A Milano sono stati chiusi musei, cinema e teatri, molte aziende – quelle che possono – hanno fatto lavorare i dipendenti da casa, e le scuole dovrebbero rimanere chiuse ancora per una settimana in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Anche le manifestazioni pubbliche, come le partite di calcio, saranno ancora vietate, mentre per gli spazi di aggregazione culturale sembra essere previsto un graduale ritorno alla normalità. In effetti i casi di contagio scoperti giornalmente hanno visto un’accelerata negli ultimi due giorni, avendo raggiunto quota 888, dopo che nella prima parte della scorsa settimana il ritmo dei nuovi casi diagnosticati sembrava essersi ridotto.

 

Quarantena a rischio rigetto

Sperare di tornare alla routine e combattere la paura che può spingere molti cittadini a rimanere in casa e ridurre in modo esagerato le interazioni sociali è cosa comprensibile e saggia. Ma il rischio di fare un passo più lungo della gamba, di riaprire le aree metropolitane limitrofe alle zone rosse senza considerare i possibili costi futuri, è molto alto. I danni possibili potrebbero essere sia in termini di vite umane che per il disastro in termini di fiducia e continuità produttiva che causerebbe un’eventuale nuova chiusura delle attività produttive. Alcuni giornali e politici, dopo aver usato nei giorni scorsi toni al limite del catastrofismo, hanno ora cambiato posizione e stanno premendo per riaprire tutte le attività economiche del paese. Il giornale “Libero”, dopo aver aperto la prima pagina domenica scorsa accusando il governo di Conte di aver provocato una possibile strage per non aver preso le giuste precauzioni, negli ultimi giorni ha cambiato posizione e sostiene che si stia invece esagerando con l’allarmismo e che tutto debba tornare alla normalità. Anche Matteo Salvini ha cambiato idea: prima ha sostenuto che bisognasse “blindare” i confini per ridurre la diffusione del virus, ma dopo aver capito che sì, i confini rischiavano di essere chiusi, ma non per nostra decisione e che il giochino gli si stava ritorcendo contro, ha iniziato a sostenere che serve riaprire “fabbriche, negozi, musei, gallerie, palestre, discoteche, bar, ristoranti, centri commerciali”.

  

Trasformare lo tsunami in mareggiata

Eppure il pericolo non è ancora passato. Le misure di contenimento dell’epidemia servono a ridurre e ritardare il picco di contagi. Il concetto è semplice, come ha spiegato su Twitter il medico Nino Cartabellotta, presidente del Gimbe: la cautela potrebbe trasformare il possibile tsunami di un’epidemia senza controllo in una marea, che è sì più prolungata ma è anche più controllabile e ha effetti meno devastanti. Anche Massimo Galli, professore e primario del reparto di malattie infettive III dell’ospedale Sacco di Milano, ha cercato di calmare gli animi e l’ottimismo: il numero di infezioni verificate localmente è “decisamente alto” e le misure messe in campo dalla regione Lombardia sono “già ai limiti di tenuta” secondo il professore. Bisogna quindi rassegnarsi a includere ancora nelle misure di contenimento l’intera area metropolitana di Milano: una medicina amara per evitare possibili disastri futuri. Il punto è ridurre il tasso di contagio degli infetti, questo è l’obiettivo delle restrizioni alla nostra vita quotidiana. Fare in modo che ciascun individuo infetto contagi meno persone possibili a sua volta. Il valore è riassunto nel cosiddetto R0, il “numero di riproduzione di base”, che per il coronavirus è stato stimato tra l’1,4 e il 3,8, cifre che rappresentano quante persone sono contagiate da un individuo infetto, in media. Per modificare questo numero non abbiamo un vaccino, o un trattamento particolare: ci dobbiamo affidare all’immediatezza della diagnosi e a ridurre i possibili contatti con persone sane.

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L’attività economica e la diffusione dei virus

Come spesso facciamo in queste pagine, il modo migliore per comprendere la realtà – e in questo caso capire se e quanto sia necessario adottare misure restrittive per combattere il coronavirus – è leggere (e fidarsi) gli studi scientifici. C’è chi come Jérôme Adda, professore all’università Bocconi ed economista con una formazione legata anche alla statistica e alla biologia, ha studiato come la chiusura delle scuole e dei trasporti possa ridurre le possibilità di contagio dei virus. Ma soprattutto ne ha analizzato il costo per la società: se lasciare a casa studenti e lavoratori fa scendere i contagi, ma provoca anche un danno economico ancora più grave dell’epidemia in sé, le misure draconiane potrebbero non essere una buona idea. I risultati del suo studio, che ha preso in considerazione i dati relativi alla Francia sull’influenza, la gastroenterite e la varicella, potrebbero essere utili anche nel comprendere meglio come affrontare il Covid-19.

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Secondo lo studio di Adda, la chiusura delle scuole ha forti effetti sull’incidenza dell’influenza e può essere una misura efficace per contenerne la diffusione per almeno 3-4 settimane. Ovviamente l’effetto è più importante per i bambini, ma rimane rilevante anche per gli adulti. Meno 12 per cento di persone infettate da virus influenzali: questo sarebbe l’effetto della chiusura delle scuole per 14 giorni. Risultati simili, anche se minori, si ottengono per la gastroenterite e la varicella. Anche la chiusura dei trasporti pubblici porta a ridurre il tasso di trasmissione dei virus. In questo caso, secondo Adda, si tratta al massimo di una riduzione dell’8 per cento delle infezioni influenzali, nei mesi invernali di maggior rischio di contagio.

 

Ma queste misure valgono la pena per contrastare la normale influenza? No. Se calcoliamo il costo di queste malattie – in termini di costi ospedalieri e per l’acquisto di farmaci, ma anche per la mancata frequenza della scuola da parte di un’intera generazione di studenti e, nei casi più gravi, per le morti provocate dalle infezioni – sia la chiusura scolastica che dei mezzi pubblici di trasporto causerebbero maggiori danni economici che le normali infezioni stagionali. Lo studio dell’economista francese rileva che per essere efficaci e non produrre più danni dei benefici il tasso di letalità dovrebbe essere almeno due volte più alto della normale influenza. Ma, come abbiamo capito dalle spiegazioni dei virologi, l’epidemia di coronavirus non è una normale influenza. L’influenza provoca ogni anno certamente più morti in termini assoluti – la cosiddetta mortalità (il rapporto tra decessi e popolazione) – perché molto più diffusa, ma è anche assai più facile da curare. Il nuovo coronavirus invece uccide meno persone in totale, ma per chi è contagiato ha una letalità (il rapporto tra decessi e infettati) più alto rispetto all’influenza. Come ha spiegato l'Organizzazione mondiale per la sanità, l’influenza raggiunge lo 0,1 per cento di letalità, mentre il Covid-19 provoca la morte per i contagiati tra il 4 e lo 0,7 per cento dei casi, almeno in Cina. Anche nel caso in cui in cui la letalità del coronavirus al di fuori dei confini cinesi si rivelasse più bassa del previsto, supererebbe comunque probabilmente la soglia di efficienza definita dall’economista francese (2 volte la letalità dell’influenza, pari a 0,1 per cento degli infetti). Ad affermarlo è lo stesso Adda in un video pubblicato pochi giorni fa: il coronavirus ha attualmente un tasso di letalità “20 volte più alto” rispetto alla normale influenza, e questo “indica che le misure prese in questi giorni sono la strada giusta”. In attesa che arrivi la primavera che ponga (sperabilmente) fine all’epidemia.

 

Non sottovalutare il virus

Milano, e tutto il nord Italia, deve ripartire e non deve rimanere paralizzato dall’epidemia. I danni economici e sociali possono essere superiori per la paura in sé, che per il virus. Ma non bisogna nemmeno fare il passo più lungo della gamba, né sottovalutare il pericolo di contagio se la società ritorna troppo presto alla normalità. Ancora più grave sarebbe se questo errore lo commettessero le istituzioni. I danni creati dal coronavirus in Italia fino a ora sono scaturiti da un focolaio in un’area - il Lodigiano – abitata da 50mila persone. Solo l’immaginazione potrebbe farci presagire cosa accadrebbe se lo stesso avvenisse giusto qualche decina di chilometri più a nord, dove abitano milioni di persone.

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