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C'è un problema nel M5s: il vincolo dei due mandati

Marianna Rizzini

Il seguito del caso Fucci in una conversazione rubata in Campidoglio, “ma dopo che famo?”

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La goccia è la conversazione casualmente ascoltata due giorni fa da Lorenzo De Cicco del Messaggero alla buvette del Campidoglio – bar molto solenne nell’arredamento e poco solenne nelle canzoni fischiettate dai baristi – tra due esponenti del M5s romano: Enrico Stefàno, vicepresidente del Consiglio comunale, e Paolo Ferrara, capogruppo in Consiglio comunale. Tema: il vincolo dei due mandati, regola scritta nelle pietre internettiane del Movimento ma messa alla prova dalla realtà di come va il mondo (politico e non). “Speriamo proprio che ce lo permettano il terzo mandato”, dice Stefàno. Ferrara è meno diretto ma in ogni caso sembra fare calcoli: due anni qui, tre lì… C’è anche l’antefatto: proprio nel Lazio, a Pomezia, qualche settimana fa, intervistato da Valerio Valentini su questo giornale, il sindaco di M5s Fabio Fucci aveva detto chiaro che il limite dei due mandati è ormai “anacronistico”, “un problema che spero venga affrontato presto” e che non si concilia con il “buon governo”, cosa che necessita di “esperienza” (non solo: “Non tutti sono adeguati a ricoprire incarichi di responsabilità”, diceva Fucci. Ne discende che se uno è bravo magari è meglio tenerselo, piuttosto che imbarcare la nuova leva soltanto in nome dell’uno vale uno). Il tabù per ora resta tabù – ieri Stefàno, interpellato in proposito, rispondeva al Foglio: “Purtroppo De Cicco ha riportato una conversazione scherzosa con Ferrara. Nulla di più”. E però il tema ricorre come tutti i temi ineludibili perché già imposti dalla legge di fatto: i due mandati sono da considerarsi pieni? E se la legislatura si interrompe? Parliamo di mandati pieni, dieci anni nelle istituzioni, aveva detto un insospettabile Alessandro Di Battista a fine estate.

 

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E anche se il candidato premier di M5s Luigi Di Maio ha ribadito che “la regola dei due mandati non si tocca”, l’insofferenza è percepibile. Il restare per sempre giovani è utopia trita e ritrita con cui di solito si fa i conti durante l’adolescenza. Ma il M5s sembra volersi ancorare alla propria personale sindrome di Peter Pan. Non si può più, infatti, essendo arrivati a governare Roma e Torino e proponendosi in teoria per il governo del paese, continuare a cantare spensierati, come nel 2013, “non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta”. Si sono visti i danni del non avere una classe dirigente, si è vista la differenza tra “cittadino” e “cittadino (uno non vale uno) e qualcuno tra gli eletti, dopo un mandato da milite ignoto sul piano locale e un altro mandato in cui finalmente sente di aver ingranato, si ricandiderebbe volentieri – non ci fosse quel tabù coccolato soltanto a parole.

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