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Storia della prima donna in Italia a dirigere un grande museo

Maurizio Crippa

Fernanda Wittgens ha salvato e cambiato Brera. Un libro

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“Quando crolla una civiltà e l’uomo diventa belva, chi ha il compito di difendere gli ideali della civiltà? (…) Almeno i così detti intellettuali, cioè coloro che hanno sempre dichiarato di servire le idee e non i bassi interessi, e come tali hanno insegnato ai giovani, hanno scritto, si sono elevati dalle file comuni degli uomini. Sarebbe troppo bello essere intellettuale in tempi pacifici, e diventare codardi, o anche semplicemente neutri, quando c’è un pericolo”. Così scriveva Fernanda Wittgens a sua madre il 13 settembre 1944 dal carcere di San Vittore. Dove era stata rinchiusa per avere aiutato l’espatrio di alcuni ebrei, e soccorso altri, tra cui il critico d’arte Paolo D’Ancona, suo docente all’università.

   

Ma la principale caratteristica di Fernanda Wittgens non è quella di essere stata un’attivista contro il nazifascismo, bensì quella di essere stata un’intellettuale. E una organizzatrice culturale straordinariamente avanti con i tempi. Così ora che sono passati sessant’anni dalla sua morte, nel 1957, a soli 54 anni, mercoledì alla Pinacoteca di Brera è stato presentato un bel libro che ne ricostruisce la storia, “Sono Fernanda Wittgens” (a cura di Giovanna Ginex per l’editore Skira). Non che la su figura sia dimenticata, o sottovalutata, almeno tra gli addetti ai lavori e tra chi conosce il suo ruolo nella costruzione di ciò che oggi è Brera. Ma di questi tempi, in cui il lavoro degli intellettuali è così spesso messo in discussione, è interessante vederne una in azione. E dotata di una visione operativa e innovativa di notevole spessore.

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Figlia di un professore di Lettere di un liceo milanese, a sua volta insegnante, fu presentata a Ettore Modigliani, allora direttore della Pinacoteca, e assunta a Brera nel 1928 con la qualifica di “operaia avventizia” (oggi forse Gigino Di Maio avrebbe da ridire). Quando Modigliani, ebreo antifascista, venne allontanato, lei restò in contatto con lui e in collaborazione clandestina. Finché nel 1940 divenne, per concorso, la prima donna direttore di un importante museo nazionale in Italia. Un vulcano di idee, un metodo ferreo nel lavoro e una sensibilità artistica e personale non comuni, la ricordano tutti. Ma anche i milanesi che non la conoscevano di persona sapevano del suo primo e più grande lavoro, all’inizio della guerra. Fu lei personalmente a decidere e organizzare il trasloco delle opere di Brera nei ricoveri. La Pinacoteca verrà quasi distrutta dai bombardamenti, i suoi capolavori sono salvi grazie a lei. E grazie a lei si salvarono dalle razzie naziste durante l’occupazione, come anche quelle del Poldi Pezzoli e della Quadreria dell’Ospedale Maggiore.

  

Uscita dal carcere, nel maggio 1945 era già tornata all’opera, con una grinta politica e diplomatica notevole, per convincere le nuove autorità che la ricostruzione di Brera era un’urgenza, e che doveva essere realizzata in parallelo con un completo, e moderno, ripensamento del ruolo del museo pubblico e del suo allestimento. Fu lei a usare per prima l’espressione “Grande Brera”, che ancora attende la sua completa concretizzazione. Modigliani era ritornato, ma morì nel 1947 e Fernanda Wittgens fu nominata reggente alla Soprintendenza. Ci vollero quattro anni e un lavoro d’equipe complicato, ma che coinvolse figure lungimiranti e di primissimo piano, tra cui l’architetto Piero Portaluppi (Ripa del Naviglio ne ha parlato una settimana fa) finché il 9 giugno 1950 fu lei – questa donna di qualità incredibili, che al mitico sindaco della Milano liberata Antonio Greppi, al primo incontro fece l’impressione di una “Pallade-Athena”, anzi, ricordò poi, “io pensai alla Walkiria” – ad inaugurare la Brera rinata.

 

E fu sempre lei, nel 1952, a convincere il Comune di Milano ad acquistare, tramite una pubblica sottoscrizione per raccogliere i fondi, la Pietà Rondanini, che era finita sul mercato. E fu sempre lei a “pensare” alla Pinacoteca e al ruolo pubblico del museo in modo nuovo, sconosciuto in Italia. Permettendo eventi espositivi e didattici e attirando nuovo pubblico, come quando nel 1956 organizzò “Fiori a Brera” (di Brera fa parte anche un Orto botanico) primo esempio di collaborazione tra un’azienda privata e un museo pubblico. In sette giorni i visitatori furono 180 mila: sarebbero grandi numeri anche oggi. Quando morì, prematuramente, stava combattendo per l’acquisto di palazzo Citterio, il sogno del “secondo palazzo” per l’arte moderna nell’ottica della Grande Brera. Ora, 2018, ci siamo. E’ quasi pronto.

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