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25 aprile

La Liberazione che ancora divide, a destra e a sinistra

Vittorio Emanuele Parsi

A quasi ottant’anni dall’evento che si vuole ricordare, siamo ancora lì, ad assegnare patenti di nobiltà tra i veri antifascisti e quelli tiepidi. Non c’è dubbio che le difficoltà di questa destra a riuscire a dirsi antifascista abbiano un peso. Ma non è una questione di biografie politiche personali

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Il 25 aprile si celebra la premessa fondativa della Repubblica: quella liberazione dall’occupante nazista e dai suoi collaboratori repubblichini alla quale concorsero le formazioni partigiane (di diverso colore politico, ma in larga parte di ispirazione comunista) e le unità del ricostituito Regio esercito. Dal punto di vista oggettivo, tutti coloro che provano un sentimento di lealtà verso la Patria repubblicana e democratica dovrebbero trovare in questa ricorrenza un motivo di comune appartenenza. Purtroppo non è così. Dalla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, le manifestazioni di piazza, con tutto il contorno che le precede e le segue, sono diventate oggetto di polemica feroce, in continuità con gli slogan degli Anni di piombo “ora e sempre resistenza!”, che sotto l’apparenza di voler attualizzare il ricordo della giornata della Liberazione, finiscono in realtà con piegarlo strumentalmente a favore della spicciola polemica politica.

La Patria repubblicana – non diversamente da quella fascista – viene così evocata per dividere anziché per unire, per discriminare i “veri patrioti” da quelli “falsi”. A quasi ottant’anni dall’evento che si vuole ricordare, siamo ancora lì, ad assegnare patenti di nobiltà tra i veri antifascisti e quelli tiepidi. Non c’è dubbio che le difficoltà di questa destra a riuscire a dirsi antifascista abbiano un peso. Ma non è una questione di biografie politiche personali.

Gianfranco Fini fu capace di definire il fascismo “male assoluto”, pur avendo avuto un passato giovanile (e non solo) neofascista non diverso da quello di alte cariche attuali dello stato. Eppure, anche nei suoi confronti era valido l’ostracismo. Oggi la “svolta di Fiuggi” sembra quasi suscitare imbarazzo nei quadri dirigenti del partito che ha preso il posto di Alleanza nazionale, mentre la Lega di Salvini tenta di occupare lo spazio politico dell’estrema destra, nell’illusione di poter raggranellare una manciata di voti.
D’altronde è singolarmente triste che la dirigenza dell’Anpi negli oltre due anni di eroica resistenza del popolo ucraino alla feroce invasione russa non abbia mai sentito l’impeto di rendere omaggio a quegli uomini e a quelle donne. Semmai, nelle parole del suo presidente, ha esibito patetici distinguo tra la Resistenza italiana e quella ucraina, che ricordano il vero “peccato originale” che ha impedito alla lotta antifascista di divenire il mito-motore condiviso della fondazione della Patria repubblicana: ovvero l’idea diversa e per molti aspetti inconciliabile tra le stesse formazioni antifasciste circa la nuova Italia da ricostruire sulle ceneri di quella fascista.

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Non una parola di sostegno alla causa della libertà e dell’indipendenza dell’Ucraina democratica, dunque, ma un generico e ipocrita appello per il cessate il fuoco ovunque, come se ciò che accade nel cuore d’Europa e in medio oriente fosse assimilabile. Mentre conoscere significa saper distinguere. Tra i luoghi, i soggetti protagonisti, le ragioni, le responsabilità e i tempi. E’ triste apprendere che le bandiere della Brigata ebraica non saranno presenti alla manifestazione di Milano, rendere loro omaggio non implicherebbe nessuna approvazione alla politica del governo attuale dello Stato ebraico, ma semmai significherebbe onorare un debito di riconoscenza e ricordare l’onta delle leggi razziali. E rammentarci come le cose continuamente mutano. Salvo la stentorea ottusità di chi crede di essere il depositario (o il curatore fallimentare?) di una memoria incapace di ricordare e quindi incapace di progettare. Quella purtroppo non cambia mai.

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