Il racconto

Quando era Draghi. Torna insieme a Cazzullo, ma fa sbadigliare: "La Ue si faccia stato"

Carmelo Caruso

Parla di momento critico, di Expo, di quando  tifava Roma, ma la scena la prende la capitale cafonal. Nessun graffio, ma solo incenso. L'unico che fa Draghi è Cazzullo

Avevamo salutato un eroe e abbiamo ritrovato un sacrestano. Chi ha amato Mario Draghi, premier, glielo deve dire: sbadigliavano tutti gli invitati  venuti ad ascoltarlo. L’unico che ha fatto Draghi era Aldo Cazzullo che ha invitato Draghi a presentare il libro di Cazzullo.

 
Dove è finito l’ex presidente del Consiglio che faceva paura a tutti i giornalisti? Dove è il prossimo candidato a presiedere il Consiglio europeo? Ieri, a Roma, nella chiesa di Sant’Ignazio, chi era venuto a vederlo lo ha chiamato alla fine “l’ultimo imperatore”. Sembrava di stare nel film di Bernardo Bertolucci, solo che al posto della Cina, e della Città proibita, c’era solo questa capitale marcia che ha perso l’Expo, superata pure dalla Corea, e un Draghi che non era all’altezza di chi lo ha intervistato. Era davvero un grande evento e tra gli invitati c’era pure Dio, per statuto, dato che era casa sua, anche se a Roma, quello vero si chiama Roberto D’Agostino, l’uomo che ha inventato Dagospia, e che infatti era in prima fila omaggiato più del Papa. I flash erano per lui, per Tiberio Timperi, per Franco Carraro. Un anno fa, avevamo lasciato Draghi, l’uomo che stava sul treno per Kyiv con Macron e Scholz, mentre abbiamo rivisto il “professor Draghi”, così lo chiamava Cazzullo, insieme all’attrice Nancy Brilli ed Enrico Lucci, la vecchia iena che ormai porta pure il berrettino per proteggersi dal freddo. Quando si è sparsa la voce che la più bella firma del Corriere (“uno che ricorda Montanelli e Biagi” così lo celebrava Draghi”) avrebbe presentato il suo ultimo libro, Quando eravamo i padroni del mondo (HarperCollins) già tradotto in America, Spagna, addirittura nella chiesa dei gesuiti, tutti credevano che  sarebbe stato il gran ritorno di Draghi. Stefano Folli, l’ex direttore del Corriere, la mappa di tutti i giornalisti parlamentari, è perfino arrivato un’ora prima e componeva a mente il suo editoriale per Repubblica: “Forse Draghi punta a fare il Papa. Nero”. Solo per l’ex premier, Luigi Zanda ha indossato il suo più bel loden e Carlo Calenda, per un un’ora, non ha twittato. Si era capito che il rischio era il cafonal, e non solo perché presentare un testo in chiesa è sempre a rischio castigo di dio, ma perché la chiesa era quella nientemeno degli esercizi spirituali, quella che Draghi frequentava da ragazzo, e i posti a sedere assegnati agli “amici della grafica” che nessuno sapeva chi fossero prima che la presidente scacciasse i finti amici. Alle 16,30 erano arrivati l’ex ministro Lorenzo Guerini, i chigisti reduci di un anno irripetibile, l’anno Draghi, e tutti si attendevano molto di più della frase banalissima di Draghi: “Il modello di crescita europea si è dissolto, non possiamo far più conto sui pilastri di prima, occorre inventarsi un nuovo modello di crescita”. Una frase così la sa dire pure Tommaso Foti, il capogruppo di FdI, chiamato Foti Dry. Da Milano si è precipitato l’editore del Corriere e di La7, Urbano Cairo, che veniva salutato da Cazzullo, come “l’uomo che ha salvato il Corriere della Sera”. Almeno lui, Cairo, che i giornali li deve vendere, si meritava un Draghi che faceva titolo anziché il Draghi da Alto gradimento, quello di Renzo Arbore, che continuava con “la storia è una storia di guerra ma è difficile considerare la guerra uno strumento della politica” o ancora “l’allargamento della Ue senza modificare le regole che funzionavano quando eravamo dodici membri è stato un errore colossale”. Da premier, tutte le volte che si presentava in conferenza stampa, riusciva a essere arguto, anche cattivo, mentre ora il massimo della sua cattiveria era “non siamo riusciti ad avere l’Expo a Roma, ma non conosco l’intera storia: non so perché abbiamo preso solo 17 voti e non so cosa direbbe Cesare”. Poi, neppure fosse Tacito, notava che “tutto il mondo vuole l’Expo, in fondo noi l’abbiamo già avuto”. I cronisti che per seguirlo hanno bucato una giornata onesta di lavoro parlamentare portavano a casa quest’altra orazione: “Occorre cominciare a pensare a un’integrazione politica europea e a un Parlamento europeo come vero Parlamento dell’Europa, pensare che siamo italiani ma anche europei”. Il momento più euforico è stato quando Cazzullo, che ha cercato in tutti i modi di farlo stare sul presente, lo ha lasciato parlare di Roma, di calcio, di Juve, di tifo: “Il mio rapporto è il rapporto di un tifoso, di un tifoso che non va allo stadio da 30-40 anni. Da giovane andavo, ma vinceva sempre una certa squadra di Torino ...”. L’altro lampo alla domanda, “ma lei, da ragazzo le dava o le prendeva?”, e lui, Draghi, “quando potevo le davo”. Grazie a Cazzullo, che ha ipotecato la direzione del Corriere, quando Luciano Fontana desidererà tornare in Ciociaria, abbiamo visto un Draghi parvulus, piccolo. Da ieri, chi se ne era perdutamente innamorato, eccedendo nelle lodi, può finalmente separare lo scrittore dall’opera, distinguere uno dei miglior premier che abbiamo avuto dal Dio che abbiamo raccontato.

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio