Meloni pensa al premierato. La svolta sovranista sulle riforme è pronta

Valerio Valentini

Partono le consultazioni sulle riforme. La capa di FdI è pronta ad accantonare il presidenzialismo e a puntare sul “sindaco d’Italia” per trovare sponde con le opposizioni. I tre modelli sul tavolo. La diplomazia tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Le mosse del pd e del Terzo polo

Il galateo istituzionale impone di dire che per ora c’è un solo obiettivo: “Ascoltare”. E magari non sarà solo per puro formalismo, se Giorgia Meloni ci ha tenuto a dare agli incontri della prossima settimana, anche sul piano simbolico, una valenza precisa: “E’ un confronto tra maggioranza e opposizione che parte senza alcuna iniziativa o proposta governativa. L’esecutivo, quando si tratta di riforme istituzionali, fa un passo indietro”. Però oltre alla grammatica istituzionale c’è pure il pragmatismo: quello a cui si rifanno dirigenti di FdI che sul tema si sono confrontati con la premier quando ammettono che sì, tra le molte possibili, una appare la via obbligata, o quantomeno la più praticabile: quella del premierato.

Ed è un’ammissione che forse un poco deve costare, a Meloni e ai suoi consiglieri, se è vero che la soluzione da tempo predicata in Via della Scrofa è quella del presidenzialismo. Che è poi, e non da oggi, l’ipotesi più cara anche a quel Francesco Saverio Marini, professore, costituzionalista romano di grande esperienza, che Meloni ha voluto con sé come consigliere giuridico. E però c’è un motivo se, nelle premesse di una trattativa ancora da intessere, con regole d’ingaggio tutte da definire, questa preferenza condivisa nel mondo patriottico va progressivamente scolorando verso una sua variante, per dir così, più moderata. C’è anzitutto una questione di opportunità. Lavorare a una svolta presidenzialista significherebbe di fatto rischiare un incidente diplomatico con l’attuale capo dello stato, che finirebbe malgré soi trascinato in un dibattito che mira a indebolire la sua attuale posizione istituzionale: dire che solo un presidente della Repubblica eletto dal popolo garantisce stabilità, con l’attuale inquilino del Quirinale scelto per via parlamentare, parrebbe forse uno sgarbo, quantomeno.

Ma c’è di più. C’è, di mezzo, la logica della politica, quella che suggerisce a Meloni di cercare una prospettiva di convergenza con le opposizioni. L’aver convocato alla Camera, e non a Palazzo Chigi, le consultazioni coi gruppi parlamentari per intavolare il confronto sulle riforme costituzionali, l’aver scelto la biblioteca del Presidente di Montecitorio, e non lo studiolo del capo del governo, l’aver messo in agenda, una in fila all’altra, ciascuna delle componenti presenti in Parlamento: tutto sta lì a dimostrare una volontà di dialogo che prescinda, almeno formalmente, dalle volontà del governo. Che pure a questi incontri si presenterà in gran completo – con la premier accompagnata dai sottosegretari Mantovano e Fazzolari, i ministri Ciriani e Casellati, il consigliere Marini – a dimostrare che sì, finora si è fatta molta teoria, sulle riforme, ma ora si parte davvero. E per farlo, per mettere le premesse di una riforma dell’assetto istituzionale che non sia, pure stavolta, una grande velleità che si risolve in un grande nulla, Meloni ha bisogno di una sponda con le opposizioni. Ma sul presidenzialismo non può trovarla. Sul premierato, invece, sì.

Le decisioni delle minoranze matureranno nei prossimi giorni. Giuseppe Conte ha convocato una riunione al riguardo nel weekend. Elly Schlein si confronterà coi suoi fedelissimi lunedì. Ma bastano gli sbuffi che trapelano dal M5s per capire che “sul presidenzialismo noi non ci staremo mai” (e giù a rievocare i moniti di Zagrebelsy & Co. contro la “torsione autoritaria”, la “democratura”). Di qui, la posizione del Nazareno si fa obbligata. Con meno enfasi e meno clamore, il Pd non potrà che condannare “sciagurate ipotesi presidenzialistiche”, come le definisce Francesco Boccia, capogruppo dem al Senato che, tanto per riscaldare il clima in tema di riforme, ha appena depositato a Palazzo Madama un ddl che, di fatto, mira a disinnescare il processo di autonomie regionali voluto dal leghista Roberto Calderoli.

Sul premierato, invece, un gioco di sponda già s’intravede, ed è quello che Meloni proverà a usare per mostrare che il suo afflato riformista è condiviso ben oltre il perimetro della sola maggioranza, stanando così, poi, eventuali posizioni preconcette da parte di Schlein e Conte. Perché sul premierato Matteo Renzi ci sta, lo ha già detto a esponenti del governo. Ci starà, pare, anche Carlo Calenda, sia pur con più cautela.

Certo, bisognerà vedere che connotati andrà prendendo questa modifica costituzionale. In FdI prospettano tre diversi scenari. Il primo, il più “incisivo”, consiste nell’elezione diretta del capo dello stato: bisognerebbe capire se sul modello del “sindaco d’Italia”, dunque con un’elezione unica per esecutivo e legislativo e un paradigma che lega la vita del governo a quella del Parlamento (simul stabunt, simul cadent), o in una forma più attenuata, sul modello del (non fortunato) sistema adottato in Israele a metà anni Novanta, e poi subito abortito perché finiva col causare più instabilità di quella che pretendeva di scongiurare. L’altra ipotesi è quella “spagnola”: una fiducia attribuita al solo capo del governo, che dunque avrebbe poteri e prerogative assai più estese (non un primus inter pares, com’è oggi in Italia, ma un presidente che sceglie e revoca ministri, e non solo). O infine, e sarebbe la declinazione più fiacca di questa riforma, l’introduzione di meri correttivi, come quello della sfiducia costruttiva, che guarda semmai al modello tedesco. Il tutto, beninteso, corredato da modifiche procedurali che, sia pure senza abolirlo, supererebbero il bicameralismo paritario: votazioni di fiducia congiunte, sessioni alternate, competenze differenziate.

Ma per i dettagli, beninteso, è ancora presto. Per ora, appunto, Meloni vuole “ascoltare”. E ascoltando, capirà anche quale delle due tattiche adottare. Quella della convergenza, che mira a un percorso di lungo periodo, quanto più possibile largo e condiviso. Oppure, nel caso in cui le opposizione rispondessero in modo ostile, o nel caso in cui le contingenze lo suggerissero alla premier, quella della polarizzazione. Della serie: di là c’è la sinistra che vuole l’instabilità per fare nuovi ribaltoni, di qua la destra che governa nel nome dell’ordine e disciplina. Con l’approssimarsi delle europee, pure questa potrebbe essere una tentazione. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.