(foto Ansa)

tra propaganda e realtà

Il doppio registro europeo di Meloni. Che durante il Consiglio ammette: “Le ong hanno fatto anche cose buone”

Simone Canettieri

La premier a Bruxelles rivendica la centralità italiana. Ed esulta sulle conclusioni del vertice europeo: "Almeno sei o sette nostre proposte sono state accolte"

Bruxelles, dal nostro inviato. La pacca è finita. Giorgia Meloni convoca la sua prima conferenza stampa al secondo piano del Justus Lipsius, caserma di vetro del Consiglio europeo, per dire che è terminata l’epoca delle pacche sulle spalle all’Italia. Parla per un’ora e sette minuti. Magnifica i risultati “storici”, il “protagonismo”, il “cambio di passo”, “la grande vittoria” scritta nelle conclusioni del vertice dei Ventisette. Se la prende con la stampa “provinciale” che la descrive isolata. Seguirà il nuovo tormentone della vocina, questa volta per stigmatizzare chi la disegna abbarbicata a Visegrad. Ha un problema con la Francia. Lo rivendica, lo rinfocola. Parigi non val bene una foto, fa capire. E’ la vigilia del silenzio elettorale. Domani e lunedì si vota nel Lazio e in Lombardia. Quale migliore occasione?

 

E’ tutto un revanscismo (spiace per la parolaccia) nei confronti di Emmanuel Macron che mercoledì sera non l’ha invitata all’Eliseo alla cena con Volodymyr Zelensky e Olaf Scholz. “Un incontro politicamente sbagliato” (così come è stato un errore, fa capire, non mandare in onda il video del presidente a Sanremo). Comunque il problema è Parigi, “e bisogna dirlo”, dunque poco importa se la tela tessuta dal Quirinale è di nuovo disfatta. Perché intanto riparte il film di Matteo Salvini che se la prende con “la spocchia” di Macron, come ai tempi del governo gialloverde, con l’aggiunta del ministro degli Esteri Antonio Tajani, pronto a rimarcare “l’errore” del vengo anch’io, no tu no. Anzi, alla fine, Meloni farà capire in un gioco di paradossi che anche se l’avessero invitata lei non sarebbe andata (e qui quasi si entra in zona Nanni Moretti: mi si nota di più se...). Il cruccio della premier sono sempre i paragoni con l’Innominabile, “il mio predecessore”, come lo chiama senza chiamarlo per nome e cognome. E dunque sul treno per Kyiv c’erano Mario Draghi, Macron e Scholz. D’altronde anche Silvio Berlusconi della diplomazia a portata di scatto fece un fiore all’occhiello del doppiopetto. A partire dalla foto di Pratica di Mare con Bush e Putin. Sicché la linea è: non basta un flash per essere centrali.

 

E qui si entra nel cuore di questo Consiglio europeo dal forte sapore italiano, come spiega Meloni. “Almeno sei o sette nostre proposte sono entrate nelle conclusioni”, rivendica. Il piatto forte riguarda l’immigrazione. Perché nella battaglia di parole, virgole e  incisi della burocrazia brussellese “si è stabilito un principio, si cambia approccio, che è molto diverso da quello degli ultimi anni: l’approccio messo nero su bianco parte da una frase che mai si era riusciti a mettere”. Ovvero: “L’immigrazione è un problema Ue e ha bisogno di una risposta Ue”. Praticamente quanto ottenne, sostantivo più sostantivo meno, Giuseppe Conte nel 2018 dopo tredici ore di negoziato. “Ma questa volta andrà diversamente”. Per quanto conti in attesa dei fatti, il Consiglio ha anche riconosciuto la “specificità delle frontiere marittime” , il “coinvolgimento effettivo della Ue nelle frontiere esterne”.  Nel merito di come procedere non c’è ancora un piano operativo, però. E chissà se vedrà la luce da qui alla primavera del 2024 quando poi ci saranno le elezioni e i veti dei paesi sull’immigrazione finiranno sulla bilancia dei consensi. Tuttavia queste conclusioni belle infiocchettate e inedite permettono alla premier di rivendicare una vittoria.

 

Nella retorica di una Italia che finalmente si impone nei tavoli che contano (e di un’Europa né di prima classe né di seconda: “Ricordiamo il Titanic: se affonda la nave affondiamo tutti”). C’è dunque una versione muscolare a uso e consumo della propaganda, poi ci sono le trattative. Le prime che Meloni ha condotto al cospetto di capi di stato e di governo. E allora mentre la leader della destra vende con abilità piccoli spazi di manovra come pietre preziose, va in scena nello stesso palazzo una riunione del gabinetto di Charles Michel con un gruppo ristretto di giornalisti accreditati. Sono le famose fonti Ue. Cosa dicono di Meloni? Non è il cigno nero, ma è stata “rispettosa e rispettabile”. Altri virgolettati croccanti: “Molto cooperativa e ha fatto concessioni". E ancora: “Su migrazione ed economia non è stata l’attore principale, ma è stata un attore importante”. “Con Draghi era diverso, cioè Draghi era un attore principale”.  Per continuare: “I premier italiani, con l'eccezione di Draghi, hanno sempre vantato grandi successi rispetto ai loro predecessori”. “Sulla migrazione non è più estremista della danese Mette Frederiksen, che è socialista”. Durante la discussione Meloni “ha detto che ci sono alcune ong che fanno molto bene il loro lavoro e devono continuare a farlo”. Miracoli della realpolitik.

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.