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L'altro "Piano Mattei". Renzi e Salvini tramano sul Csm. Pinelli la spunta, Meloni sbuffa

Valerio Valentini

I due mattei e la corsa di palazzo Marescialli. Il nuovo vice di Mattarella non è solo l'avvocato di Morisi, ma anche quello di Bianchi, centralissimo sul Caso Open. L'ex premier briga col centrodestra, Calenda lascia fare. E a Palazzo Chigi temono le manovre congiunte sulla Giustizia

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“Casualmente”, ripete lui. A ora di pranzo, davanti ai complimenti allusivi di un gruppo di colleghi di Forza Italia, Matteo Renzi si sforza in un esercizio di understatement così inusuale, per il personaggio, così esibito, da tradire in verità una certa soddisfazione. Casualmente, dunque, Fabio Pinelli è colui che ha assistito Alberto Bianchi nel caso Open. E sempre casualmente, sempre rispetto al caso Open, era stato scelto come legale in sostegno del Senato nel conflitto di attribuzioni con la procura di Firenze. Nell’attesa dunque che il futuristico, ambizioso progetto di cooperazione tra l’Italia e i paesi nordafricani vagheggiato da Giorgia Meloni si realizzi, il vero “Piano Mattei” è questo qui. Nel senso, però, dei due: Salvini e Renzi. Che evidentemente sono tornati a filare la lana.

Del resto, che il fiorentino abbia cercato, lavorando nell’ombra, sponde nel centrodestra, lo si è capito in mattinata. Quando si è andato a sedere tra i banchi di Forza Italia: e lì, al centro tra Licia Ronzulli e Pierantonio Zanettin, e insieme a loro ha seguito, in diretta, lo spoglio decisivo in corso a Palazzo dei Marescialli. E alla notizia dell’elezione di Pinelli, al terzo scrutinio, s’è lasciato scappare una battuta al veleno: “I pisani stanno sereni anche stavolta”. Al plurale. Perché pisano è Roberto Romboli, il candidato espresso dal Pd – uno che nel 2016 fece campagna per il No al referendum, tanto per dire – e che fino alla fine ha conteso gli onori a Pinelli. E pisano, ovviamente, è pure Enrico Letta.

Ma più ancora di quella con gli azzurri, a contare è stata la trama che Renzi è andato tessendo con Salvini. Pochi giorni prima di Natale, dopo un lungo silenzio tra i due, l’ex premier lo aveva lusingato: “Sullo sblocco dei cantieri, potrà fare bene”. E’ stato un segnale. Il resto – fino all’elezione dell’avvocato espresso dalla Lega – è venuto da sé. Ed è un resto che s’è nutrito anche di un certo risentimento malcelato, da parte del ministro dei Trasporti, verso il centralismo patriottico di Meloni. “Che condivide poco o nulla, e quel poco sono per lo più scelte già prese”, sbuffano i confidenti del segretario leghista. Ed è in questa crepa d’insofferenza che s’è infilato Renzi.

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Il cui movimentismo in fatto di nomine, ormai, assume spesso, nel fumo del retroscenismo, tratti più eclatanti di quel che dovrebbe. Non è vero, ad esempio, come pure pezzi di FI hanno rimproverato a Palazzo Chigi, che la riconferma di Ernesto Maria Ruffini al vertice dell’Agenzia delle Entrate sia stato un favore fatto al leader di Iv, se è vero che in quel caso la benedizione è arrivata direttamente dal Quirinale, non da Rignano. Né, pare, ci sono margini di manovra, per il Terzo polo, per accaparrarsi la presidenza della commissione di Vigilanza Rai, che resta, al momento, destinata al M5s.

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Il Csm, invece, quella sì che è stata una partita che Renzi ha seguito in prima persona. E perfino quando il suo brigare sembrava finalizzato all’elezione, come membro laico, dell’amico Ernesto Carbone, perfino in quel caso Carlo Calenda ha allargato le braccia: “Gestisce Matteo, saprà quello che fa”. Il che dice di una divisione di compiti che, almeno finora, nella federazione centrista pare funzionare: col capo di Azione che batte il territorio per comizi e convegni, presiede iniziative e riunioni in cui si definiscono programmi e agende, e il fu Rottamatore che si occupa degli altri elementi di cui, secondo la famosa citazione di Rino Formica, si sostanzia il fare politica.

“Sulla giustizia, poi, non c’è neppure chissà che losca manovra: c’è una reale condivisione di principi e di valori col ministro Nordio”, ci dice la capogruppo renziana al Senato, Lella Paita. “La Meloni l’ha voluto per testimoniare una sua presunta svolta garantista: noi garantisti lo siamo, e non da oggi, e dunque a Nordio offriamo un sostegno disinteressato”. E forse è per questo che proprio sul tema della giustizia da Palazzo Chigi, nei giorni scorsi, sono filtrate veline dense di preoccupazione, come di chi volesse inibire preventivamente eventuali mosse congiunte da parte di un pezzo di maggioranza e il Terzo polo. E del resto è un fatto che Meloni di Renzi non si fida. Anzi, se può, lo evita, e quando deve preferisce cercare Calenda. Per romanità, forse, chissà. Di certo, però, a rendere possibile il saldarsi degli umori e delle intenzioni tra Salvini e Renzi è stato proprio il pastrocchio su Giuseppe Valentino fatto in casa sovranista, coi bisticci coram populo, lì in mezzo al Transatlantico, tra Ignazio La Russa e Francesco Lollobrigida. In fondo, anche la paternità di questo Piano Mattei, quello sul Csm, è in buona parte di Meloni.

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