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Ora Meloni cerca un ministro tecnico per gestire il Pnrr

Valerio Valentini

La leader di FdI non si fida della cabina di regia che erediterà da Draghi. Oltre l'incidente diplomatico col premier, c'è di più: la reale voglia di modificare il Piano di riforme. Ma bisogna negoziare con Bruxelles, e il sentiero è stretto. Ecco perché la futura premier pensa a un funzionario con esperienza europea per il Recovery

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L’idea nasce nell’intento di superare un problema potenzialmente enorme. Solo che, nell’applicarla, quella idea,  bisogna stare attenti a non trasformarla, essa stessa, in un’insidia. Ed è per questo che Giorgia Meloni, e insieme a lei chi la consiglia e la istruisce, stanno valutando  di istituire un ministero per l’attuazione del Pnrr: una struttura strategica, da incardinare dentro Palazzo Chigi, come organo di coordinamento centrale della cabina di regia. Il che, oltre a fare ordine, appare una soluzione obbligata per un partito che, arrivando al governo, si trova costretto a ereditare una governance che è stata volutamente pensata per resistere alle logiche dello spoils system, refrattaria ai cambi di maggioranza  fino al 2026, quando cioè il Recovery plan dovrà essere concluso. E tanto basta, anche a prescindere dalla diffidenza esasperata che Meloni nutre nei confronti del famigerato deep state, a legittimare la volontà di consegnare a un uomo di fiducia le chiavi del ministero. E però, lungo il confine impercettibile che separa l’essere fidato dall’essere affidabile, si muove il travaglio di Meloni. Un politico o un tecnico, insomma? Il cruccio è sempre quello. 

Perché, fosse per la futura premier, quel ruolo verrebbe forse assegnato a Giovanbattista Fazzolari. Sarebbe lui, come responsabile dell’Attuazione del programma, a ereditare  quella funzione di vigilanza sull’avanzamento del Pnrr che è stata svolta finora da Roberto Garofoli. 

E però va bene, certo, la lealtà: ma per un incarico del genere c’è bisogno di uno standing internazionale tale da essere riconosciuto e apprezzato in quel di Bruxelles. E in questo senso, le tribolazioni che la Meloni vive pensando a questo suo ministro del Pnrr non sono poi diverse da quelle che agitano i suoi pensieri a proposito del prossimo titolare dell’Economia. Anche la Commissione, insomma, deve fidarsi del suo interlocutore italiano, perché solo fidandosi – e manco sempre, pure in quel caso – può concedere spazi di manovra negoziali. Già lo scorso dicembre, ad esempio, per vedersi riconosciuto l’effettivo conseguimento di tutti gli obiettivi del Pnrr, a Palazzo Chigi ci fu da ricorrere alla diplomazia. E lo stesso è avvenuto ad agosto, quando su un paio di target i funzionari di Ursula Von der Leyen sollevarono dubbi.

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Figurarsi quanta accortezza occorrerà usare ora: ora che la garanzia di Draghi non ci sarà più e che Meloni vorrà davvero ottenere una revisione non superficiale dell’impianto del Pnrr. Perché oltre agli spifferi d’insofferenza sfuggiti dalla riunione del partito, tre giorni fa, c’è di più. C’è una convinzione reale – condivisa da chi, come Raffaele Fitto, sovrintende ai rapporti con Bruxelles – di dover agire su almeno tre fronti: ottenere maggiori fondi dal piano energetico del RePowerEu, che al momento assegna all’Italia, tra le risorse certe, circa 2,7 miliardi; dirottare in modo massiccio sull’emergenza del caro bollette i fondi per la coesione; e infine, cosa assai azzardata, rimpiazzare alcuni dei progetti già finanziati dal Pnrr, destinati a mobilità, green ed educazione, sul fronte caldo del gas. Temeraria, come scelta. E forse proprio nella consapevolezza che il sentiero da percorrere sia assai stretto, c’è chi consiglia alla Meloni di ricorrere, anche qui, a un tecnico. Un uomo d’esperienza internazionale, con un passato nelle istituzioni europee. E pazienza se a  Salvini apparirà come l’ennesimo “tecnico” inserito nella squadra di governo. 

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