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Lessico congressuale

Manuale di conversazione per apprendisti segretari del Pd

Francesco Cundari

Dopo la sconfitta, manco a dirlo, occorre una rifondazione. Il Pd, nelle liturgie congressuali, e non solo, ha preso la retorica dal Pci e la pratica dalla Dc. Un partito fondato sulle correnti, solo che non si può dire

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La prima regola del congresso del Pd è che non esistono candidati al congresso del Pd. Nel senso che i veri candidati sono sempre gli ultimi a presentarsi apertamente come tali, ma anche nel senso che i primi a presentarsi apertamente come tali, in realtà, non esistono. Insomma, per i congressi del Pd, all’inizio, vale un po’ quello che vale per il calcio d’agosto, perlomeno ai tempi in cui ad agosto non si giocava il campionato, o per l’elezione del presidente della Repubblica, dove prima del quarto scrutinio, salvo rarissime eccezioni, i veri papabili neanche si nominano, e si fanno avanti solo candidature di bandiera.
  

A fare il segretario, forse con un’unica eccezione (Renzi), non ci si candida: si viene candidati. Dopo essere stati lungamente pregati

  
Il punto è che a fare il segretario, forse con un’unica vera eccezione (Matteo Renzi), non ci si candida: si viene candidati. Dopo essere stati lungamente e pubblicamente pregati, possibilmente. Non per niente, all’indomani di una sconfitta e delle conseguenti dimissioni del segretario in carica, rassegnate o anche solo annunciate, i veri concorrenti li riconosci dal fatto che sono i primi a dire che non si può ridurre tutto alla scelta di un nome, che serve molto di più, che un congresso ordinario non basta, che occorre una rifondazione, una rigenerazione o come minimo una rivoluzione.
 
Per ciascuno di loro, in pratica, nulla può restare com’era, perché bisogna cambiare tutto – bisogna sempre cambiare tutto: mai nella storia della sinistra si è visto un candidato alla segreteria riproporsi di modificare qualcosina – a cominciare, naturalmente, dal gruppo dirigente e dal suo modo di lavorare. Bisogna – sempre – ripartire dai territori, dalla base, dagli amministratori locali. Bisogna – sempre – farla finita con le correnti, o quantomeno con il correntismo, o come minimo-minimo con il correntismo esasperato. La successione è in crescendo di gravità, ma il semplice termine “corrente” è considerato già di per sé un dispregiativo (salvo nella formula “corrente di pensiero”, che fa tanto scuola di Francoforte). Infatti, quando parlano della propria, i dirigenti del Pd preferiscono dire “area” (culturale, politico-culturale o, anche qui, di pensiero). I manuali non sembrano avere registrato finora particolari svolte nella storia della filosofia originate da una tale fioritura di correnti, aree e scuole di pensiero, ma può darsi che sia solo questione di tempo. Frattanto, sebbene da tutti pubblicamente bistrattate, tali correnti conservano nel Partito democratico un ruolo decisivo nella selezione dei candidati (quelli veri, s’intende) e in tutta la fase iniziale della complessa procedura congressuale, che vede una sorta di primo turno in cui votano solo gli iscritti, e una sorta di ballottaggio aperto praticamente a tutti gli elettori (le primarie vere e proprie). 
 
Si tratta dunque di un modello ibrido, un po’ elettrico e un po’ a benzina, in cui nel tempo si sono variamente mescolati usi e costumi provenienti dai due principali partiti confluiti nel Pd, Democratici di sinistra e Margherita, a loro volta portatori, assieme a tante altre cose, di più antiche eredità politico-culturali (qui se non altro l’espressione può essere presa sul serio) risalenti, rispettivamente, al Partito comunista italiano e alla Democrazia cristiana.
 
Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che il Partito democratico, per quel che riguarda le liturgie congressuali, e non solo, abbia preso la retorica dal Pci e la pratica dalla Dc. Molto più che sulle primarie, il Pd è infatti un partito fondato sulle correnti, proprio come la Dc, solo che non si può dire, proprio come nel Pci, in cui la parola stessa era bandita. Tanto che il momento di massima espressione pubblica del dissenso, ancora oggi ricordato come un gesto clamoroso, quasi iconoclasta, resta l’incipit con cui Pietro Ingrao sbalordisce la platea dell’undicesimo congresso, nel 1966, quando al posto del rituale “condivido la relazione del segretario” (cui generalmente facevano seguito, opportunamente camuffate, lunghe dissertazioni su tutto ciò che non si condivideva affatto), si permette di dire: “Non sarei sincero, compagni, se dicessi a voi che sono rimasto persuaso”. 
 
Non era, effettivamente, cosa da poco, se è vero che alla sconfitta di Ingrao, come ricorderà Rossana Rossanda, seguirà “lo sterminio” dei sospettati di ingraismo: “Io ero già stata sospesa dalla commissione culturale, Magri veniva messo fuori dall’apparato, Castellina separata dai suoi incarichi, Natoli isolato a Roma e Pintor, che non aveva taciuto all’Unità, fu mandato al confino in Sardegna”. Tre anni dopo, nel 1969, Rossanda e gli altri sospettati di ingraismo si ritroveranno tutti attorno alla rivista (e poi quotidiano) il Manifesto, ragion per cui dal Pci saranno radiati con l’accusa di “frazionismo”. Peraltro con il voto favorevole di Ingrao, che nel comitato centrale sottolineerà l’importanza di “rompere l’illusione nefasta che ha tanto pesato nella vita della sinistra operaia occidentale e anche nella vita del nostro paese, di rinnovare ‘separandosi’, di rinnovare creando sette; illusione profondamente dannosa, che ha ritardato pesantemente il cammino verso l’unità politica di uno schieramento di classe”.
  
Nella Democrazia cristiana, al contrario, l’organizzazione per correnti era talmente rigida, dichiarata e regolamentata, che al congresso del 1982 il delegato Pierfrancesco Magri, sindacalista di Parma, quando aveva domandato dove fosse il suo albergo, si era sentito domandare a sua volta, per l’appunto, a quale corrente appartenesse. E aveva mandato in crisi l’intera organizzazione, perché, come aveva raccontato lui stesso al Messaggero, “i posti letto erano assegnati a seconda se uno era doroteo o andreottiano e tutti dormivano aggruppati negli alberghi secondo corrente…”.  
  
Figli di due tradizioni così diverse, i dirigenti del Pd hanno ciascuno la sua corrente, come i democristiani, ma se ne vergognano e si sentono anzi obbligati a deprecarle, come i comunisti di un tempo. Come i vecchi democristiani di una volta, a domanda diretta sulla loro intenzione di candidarsi, il massimo che possono lasciarsi sfuggire è una qualche variazione sul classico “se gli amici me lo chiedono” con cui i dirigenti della Balena bianca schivavano questo genere di tranelli. Come i comunisti più rigorosi, tuttavia, parlano del partito come di un corpo mistico, la cui unità è sacra e in cui il promuovere un qualunque genere di divisione, di conseguenza, è un atto sacrilego.
  
Forse anche per queste ragioni la gestazione del Partito democratico è stata tanto lunga e travagliata, costellata di documenti, tavoli e manifesti dei valori di cui, fortunatamente, nessuno ha conservato memoria (sarà per questo che puntualmente qualcuno ne rilancia la necessità, parlando di sempre nuove costituenti e rifondazioni). Certo è che quando, a quattro anni dal lancio della proposta (2003) e a tre dall’immissione sul mercato elettorale del primo prototipo (la lista unitaria presentata alle europee del 2004, in cui raccoglie un lusinghiero 31 per cento), nel 2007 si decide di far nascere la creatura con delle primarie all’americana, l’effetto “melting pot” raggiunge davvero il culmine.
  
L’esito ultimo, specialmente in quel primo esperimento, è uno stranissimo miscuglio di personalizzazione e burocratizzazione, leaderismo e correntismo, estetica americana, organizzazione sovietica e tattica democristiana. Ci sono i dirigenti che si sfidano apertamente per la segreteria, con una vera e propria campagna elettorale, come negli Stati Uniti – Walter Veltroni, Rosy Bindi ed Enrico Letta (per stare ai principali) – ma c’è anche un complesso sistema di liste per l’Assemblea nazionale, in cui ogni lista è collegata a un candidato segretario. Solo che nel caso di Veltroni le liste sono più d’una. Si va infatti da “Democratici con Veltroni”, la principale, in cui sono schierati quasi tutti i massimi dirigenti di entrambi i principali partiti fondatori, a “Con Veltroni: ambiente, innovazione, lavoro”, che raccoglie appoggi da diversi esponenti del sindacato, dell’ambientalismo e del governo di centrosinistra in carica (ancora per poco), e c’è pure l’indispensabile “A sinistra con Veltroni”, per compensare la campagna del leader, molto sbilanciata su accenti modernizzatori e blairiani. Indimenticabile il modo in cui un ancora sconosciuto blogger e videomaker, Diego Bianchi, mette in scena una sua immaginaria telefonata con Veltroni, dando voce a tutta la diffidenza che quel nuovo modo di fare politica suscita in un vecchio militante della Fgci romana: “Senti, Walter, stai a fa’ le liste? Ma secondo te, dato il mio profilo… no, non so’ gay… eh no, non so’ manco donna… no, non so’ negro… non so’ manco più tanto giovane… no, non sono imprenditore, il call center non l’ho fatto… però ho fatto un po’ di politica… ah, dici che è peggio?”.
Il risultato della competizione, non proprio a sorpresa, vede prevalere Veltroni con il 75 per cento dei voti, contro il 12 di Bindi e l’11 di Letta. Inutile risulta dunque anche l’appoggio di Maurizio Crozza, che sulle note di Mrs. Robinson compone un ispirato endorsement in cui canta: “Io voto tu, Mrs. Rosybind, quella più a sinistra del Pd”.
  

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Negli anni quel miscuglio di americanismo, leninismo e andreottismo resta invariato, ma all’esterno si percepisce qualcos’altro  

 

Nel corso degli anni le regole, il peso relativo degli iscritti e dei semplici elettori, delle sezioni e dei gazebo saranno oggetto di dispute infinite, subiranno qualche modifica qui e là, ma quel bizzarro miscuglio di americanismo, leninismo e andreottismo resterà sostanzialmente invariato, sebbene all’esterno tenderà ad affermarsi sempre di più l’idea di una competizione vera, all’ultimo sangue, senza rete. Indipendentemente dal grado di aderenza alla realtà di questa rappresentazione, il fatto è che sempre di più come tale sarà vissuta anche da militanti ed elettori, il che produrrà delle conseguenze non sempre positive, a cominciare da un deposito di rancori, rivalità e risentimenti capace di avvelenare il confronto interno per i secoli dei secoli. 
 
Certo non si possono rimpiangere i tempi dei congressi in cui, nella Dc, i capicorrente si giocavano il predominio in una sorta di partita di poker, a forza di pacchetti di tessere (non sempre di limpida provenienza), truppe cammellate, e non di rado in vere e proprie risse. “Questo congresso dc assomiglia sempre più a un ring di periferia, dove gli incontri di pugilato sono senza cortesie e senza trucchi”, scrive sul Corriere della Sera Giampaolo Pansa, descrivendo le assise del ’76. “Chi ha la faccia e i pugni per resistere, chi ha il carisma del capo, come Moro, oppure è un vecchio marpione di assemblee, ce la fa. Chi è soltanto un mezzo capo, chi ha il torace da signorino, non può sperare in nessuna clemenza: l’avversario, che spesso è il pubblico, lo massacra senza pietà”.
  

Non si possono rimpiangere i tempi dei congressi dc con pacchetti di tessere e truppe cammellate, e nemmeno il centralismo dmocratico del Pci

 
Tanto meno si possono rimpiangere i tempi del centralismo democratico, dello stalinismo, delle paranoie e del cospirazionismo, nel Pci, ereditati dalla clandestinità. Esperienze destinate a marchiare uomini e organizzazioni più di quanto si creda, se è vero che a un vecchio comunista calabrese poteva capitare di ritrovare, molti anni dopo, i compagni che lo avevano completamente isolato, da un giorno all’altro, tagliando ogni rapporto, domandarne loro il motivo e sentirsi rispondere che era stato processato (ovviamente in contumacia) e ritenuto colpevole di carrierismo. Così almeno raccontava l’episodio mio nonno, ricordando di avere obiettato che non contava nulla, e dunque quale carrierismo poteva mai coltivare? “Altroché se contavi, eri il nostro segretario”, gli avevano risposto. “Ma io neanche lo sapevo”, aveva protestato lui. “Certo, tu non lo dovevi sapere”, era stata la ferma conclusione.  

 
Chissà cosa avrebbero detto, quei vecchi compagni calabresi, se avessero potuto vedere il modo in cui una parte almeno dei loro lontani discendenti avrebbe proceduto a scegliersi il segretario. 
 
Certo che non si possono rimpiangere quei tempi, ci mancherebbe. Però, a volte, forse, dinanzi all’implacabile sfilata di aspiranti segretari che invitano a non trasformare il congresso in un casting mentre si mettono in posa per telecamere e fotografi, verrebbe quasi da pensare: non si potrebbe fare una via di mezzo?

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