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scelte sbagliate

Lega senza voti perché ormai senza territori (grazie a Salvini)

Andrea Venanzoni

Il Carroccio ha voltato le spalle ai radicatissimi di Veneto e in Lombardia, così in queste regioni gli elettori hanno preferito votare FdI. La riconferma del leader leghista? Solo una presa di tempo per non depotenziare il potere negoziale in vista della formazione del nuovo governo

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Due nomi fotografano meglio di qualunque analisi il tracollo elettorale leghista: Paolo Grimoldi e Germano Racchella. Il primo, segretario della Lega Lombarda fino al 2021, radicatissimo nella regione lombarda e amatissimo dai militanti, parlamentare dal 2006, ha subito l’onta di essere stato posizionato da chi ha composto le liste terzo al plurinominale, in posizione che definire problematica o funzionale proprio alla non elezione sarebbe persino riduttivo. Una mancanza di rispetto per i territori, più che per Grimoldi stesso.

Il secondo nome è quello del veneto Germano Racchella, deputato legato all’ala zaiana e uomo forte del bassanese: a Racchella è toccato in sorte destino persino più umiliante rispetto quello di Grimoldi, ovvero essere candidato non nel suo collegio ma in area veneziana e quarto nel listino plurinominale. Dopo il Consiglio federale che potrebbe apparire interlocutorio, nella migliore tradizione dell’ultimo partito italiano di matrice leninista quale è la Lega, da sempre legato alla apparente indiscutibilità del capo del momento, la artefatta fiducia confermata al leader Salvini è semplice presa di tempo e scelta di campo per non depotenziare il già scarso potere negoziale leghista in sede di formazione del governo venturo. La crisi, latente ma inesorabile, agitava il ventre profondo del partito di via Bellerio già da tempo. Proprio in questi giorni, l’ala salviniana ha cercato di rovesciare il trend narrativo: si ammette la sconfitta, e sarebbe impensabile il contrario, ma la si addossa alla decisione, riferibile si dice a Giorgetti e ai presidenti di Regione, di entrare nel governo Draghi.

Dalle parti della community di Borghi e di Bagnai si è avanzata da tempo persino l’icastica figura del Piccolo Imprenditore Lombardo Spaventato (Pils): strumento di legittimazione delle politiche governatoriali e giorgettiane di entrismo in esperienze che, in termini di consenso, l’ala salviniana reputa disastrose. Prima ci avete costretti ad aderire all’agenda Draghi, contestano i salviniani, e ora vi lamentate del risultato ottenuto. Naturalmente qualunque esperienza di governo in congiunture di lacerante crisi presenta un costo di voti e di consenso: e l’esperienza di un governo di unità nazionale, così peculiare, è di certo ancora più significativa, specialmente per un partito di lotta e di governo come la Lega a trazione salviniana.

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La Lega però inizia il suo trend discendente nei consensi già nel 2019, dopo la scommessa persa del Papeete; dopo l’exploit delle europee, il partito di Salvini percorre una china sempre più discendente, smarrendo in primis la propria identità e le proprie battaglie storiche, lette sempre con maggiore confusione dall’elettorato. A ciò si aggiunge una pencolante e incerta strutturazione nel centro-sud, dove una convincente classe dirigente manca quasi del tutto e dove identità e linea politica latitano.

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C’è poi un altro elemento che rafforza la lettura di una sconfitta maturata proprio nei e sui territori, più che dalla adesione al governo Draghi. In Veneto e in Lombardia gli elettori leghisti hanno preferito votare un partito, quale Fratelli d’Italia, percepito non a torto come statalista e romanocentrico: di più, lombardi e veneti hanno preferito votare in massa per FdI, un partito infarcito di candidati “foresti” elettoralmente trapiantati in Lombardia e Veneto, come nel caso di Isabella Rauti, romanissima, che è stata eletta a Sesto San Giovanni con il 46 per cento dei voti ma che pure era candidata in Veneto, assieme alla napoletana Giulia Cosenza, fino a queste elezioni sempre candidata in Campania o alla bolognese Anna Maria Bernini. Non sembra di certo un caso. E’ piuttosto un segnale evidente, un sotterraneo e scientifico travaso di voti, prevedibile in origine proprio per la mancanza del criterio territoriale nella composizione delle liste, depurate dei non fedelissimi al leader Salvini.

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