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sociologia e politica

La campagna elettorale italiana ci presenta la società del rischio rimosso

Pasquale Cirillo

Pur vivendo nell’epoca di maggior sviluppo tecnologico di sempre, l’uomo contemporaneo si ritrova permeato da istinti prescientifici. Se il futuro non è incerto, è inutile programmare strategie di gestione del rischio. Su questo, qualcuno ha costruito la propria strategia per le elezioni

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Secondo una nota e affascinante teoria sociologica, sviluppata negli anni Ottanta da Ulrich Beck, la società contemporanea si caratterizzerebbe come la “società del rischio” (Risikogesellschaft), in netta contrapposizione con le epoche precedenti. Secondo Beck, ma anche secondo Anthony Giddens e molti altri, quella contemporanea sarebbe una società in balia dell’incertezza e dell’inquietudine, una società “che non è più e che non è ancora”.

 

Una società che si ritrova smarrita e sospesa, dopo aver perduto la propria fede nella ragione illuminista e nel progresso tecnologico, a seguito dei grandi mutamenti innescati dalle rivoluzioni industriali e, negli ultimi anni, dalla globalizzazione. L’uomo contemporaneo avrebbe infatti scoperto che i grandi cambiamenti che è in grado di produrre con la scienza e la tecnologia possono avere conseguenze inattese, capaci anche annullare i benefici immediati, e che possono avere impatti fortemente diseguali a livello economico e sociale. Per la prima volta nella storia, l’umanità non dovrebbe più temere soltanto le catastrofi naturali, per alcuni espressione dell’ira divina, ma dovrebbe iniziare a temere se stessa, e quei disastri che è in grado di generare con guerre nucleari, chimiche, batteriologiche, e più recentemente informatiche. Per non parlare poi dei danni e dei disastri che è capace di creare in modo più o meno intenzionale, come l’inquinamento, il dissesto idrogeologico e gli incidenti in ambito industriale. 

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Questa scoperta della nostra pericolosità in quanto specie, avrebbe esposto noi uomini e donne del Novecento e dei primi Duemila alla “cultura della paura”, espressione con la quale il sociologo Frank Furedi indica l’utilizzo spinto dell’emotività e della paura del diverso in politica, al fine di acquisire il consenso delle masse. Nella società del rischio si assisterebbe a un estremo paradosso: pur vivendo nell’epoca di maggior sviluppo scientifico e tecnologico di sempre, l’uomo contemporaneo si ritroverebbe permeato di istinti e visioni prescientifiche, in balia di eventi che non ritiene più in grado di poter controllare. Un ritorno al destino e al fato di ellenica memoria, all’hamartia aristotelica. Nonostante la teoria della probabilità, la teoria del rischio e la statistica siano oggi più che mai in grado di offrirci strumenti sempre più affidabili per gestire almeno una parte dell’incertezza, quella non radicale direbbe qualcuno, questa conoscenza rimane in gran parte sulla carta, al di fuori di ogni serio dibattito.

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Questo per due motivi principali: da un lato per la perdita di autorità degli esperti agli occhi dell’uomo comune, spesso per colpa degli esperti stessi (o sedicenti tali), come anche la recente pandemia ha mostrato; dall’altro per una disabitudine che tutti noi abbiamo maturato nei confronti del rischio e dell’ignoto, grazie a narrazioni fiabesche e progressive, che volevano la fine di ogni guerra e pestilenza, per un inarrestabile prevalere della Scienza (con una scientista S maiuscola), e dei nostri angeli interiori, per parafrasare il titolo di un noto saggio di Steven Pinker. Come superare i problemi della società del rischio, senza gettare il bambino con l’acqua sporca si configura come uno dei più interessanti e vitali dibattiti di questi nostri anni tormentati. 

Ma tutto questo nel resto del mondo, non in Italia, come la campagna elettorale mostra, senza particolare distinzione di colore politico. In un impeto postmoderno, l’Italia si sta  già caratterizando come l’evoluzione della società beckiana, presentandosi come la società del rischio rimosso. La risposta italiana all’incertezza, alle sfide di oggi e soprattutto di domani, endogene o esogene che siano, sta infatti nella loro negazione, nella loro rimozione, mutuando un’espressione della psicologia. Si sostanzia in un eterno presente di beckettiana memoria, in un finale di partita, in cui ci si parla addosso senza dire nulla, in cui si accusa l’altro dei propri vizi, ma si nega ogni grande questione. 

Se non esistono i problemi non servono le soluzioni. Se il futuro non è incerto, a che serve programmare e approntare strategie di gestione del rischio? Se il declino demografico non esiste, perché parlare del suo impatto su pensioni, istruzione, sanità, fiscalità e istituzioni? Perché occuparsi dell’ambiente, del clima e della transizione energetica, i cui effetti si vedranno in un futuro che va oltre la legislatura imminente? Al massimo mettiamo un tetto alle bollette. Perché guardare oltre lo Stretto di Sicilia e occuparsi di immigrazione? Basta un fantomatico blocco navale. Nella cultura del bonus senza malus basta guardare al qui e ora e proporre, se proprio serve, un cerotto colorato e un bacio sulla bua, i nostri proiettili d’argento senza patemi.

La negazione della malattia non è però la strategia migliore per la sua cura. Senza anamnesi e diagnosi non c’è modo di guarire, posto che si possa. A meno di non credere al fato, ai miracoli, a qualcosa che ci aiuti dall’esterno. Su un simile “credo” qualcuno ha costruito esplicitamente la propria campagna elettorale. Per gli altri resta una speranza.

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