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il colloquio

Letta: "Queste elezioni sono la nostra Brexit"

Carmelo Caruso

Il voto di domenica è quasi un referendum, dice il segretario del Pd: “Se vincesse la destra, staccherebbe l’Italia dal resto dell’Europa”. Ma lui è certo: “Non consegnerò il paese alla Meloni. Vinciamo noi”. Le accuse a Calenda e Renzi, la necessità di recuperare la lezione di Draghi

Il segretario ama gli impertinenti. Segretario, lo sa cosa dicono di lei? “Cosa dicono di me? Se ne dicono tante. Avanti, avanti. Sa, ormai sono abituato…”. Dicono che Enrico Letta è il “migliore dei perdenti”, che resta un “numero due” e che, insomma, lo sa cosa si dice ancora… “Continui, continui…”. Si dice che perderà pure questa volta e che Giorgia Meloni la straccerà alle elezioni. Ovviamente lei si dimetterà? “E se le dicessi invece che io vinco e che il Pd ha già vinto?”. Ah, sì, lei vince? “Sul serio non si è accorto che la più grande vittoria si chiama u-ni-tà interna?”. Perdoni, segretario, ma sarebbe questa la vittoria? “Eh no! Ha ragione. Le vittorie sono due”. Ah, ce n’è pure un’altra? “Certo. La più importante. Il mio vero successo dopo un anno e mezzo di segreteria”. E quale sarebbe questo successo? “Il Pd è oggi il primo partito tra i giovani. La destra ha gli occhi rivolti al passato. Giorgia Meloni, le faccio una confidenza, ha posizioni più retrograde di Marine Le Pen. Ma noi la destra la battiamo. Mi creda. Noi vinciamo”. E Mario Draghi magari lo recupera, giusto? “Sono convinto che Draghi non abbia esaurito il suo compito. Quel compito sarà assolto dal Pd. Ma aspetti, aspetti…”.


La verità è che non è cominciata così. L’intervista è iniziata a fine agosto quando abbiamo ricevuto la conferma che “il segretario” ci avrebbe concesso quaranta minuti del suo tempo. Si è pensato: “Annullerà”. Quando mancavano due giorni alla data fissata non conoscevamo il luogo e l’ora dell’incontro. La sua portavoce, Monica Nardi, aveva sempre il telefono occupato. A ogni nostra chiamata riagganciava velocemente dopo averci teneramente salutato: “Sta per cominciare il comizio! Tutto confermato. Ciao”. Altra chiamata: “Il segretario sta per entrare in riunione su Zoom. Tutto confermato”. Al nostro messaggio: “Ma è davvero confermato?”, la risposta era: “Naturalmente, confermato”. Alla vigilia abbiamo lasciato che il destino e gli americani, con le loro rivelazioni scottanti sul denaro russo, facessero il loro corso. Un numero sconosciuto è infatti apparso sul telefono. Siamo stati convocati al Nazareno per le ore 15 e lo abbiamo saputo attraverso un messaggio di Patrizia che è “la segretaria del segretario”. Se non che, il giorno decisivo, alle ore 10, una telefonata, sempre di Patrizia, ci avvertiva: “Perdoni, è possibile anticipare alle 14? Sa, il segretario deve intervenire in Aula e poi partire per la campagna elettorale. E’ così cortese da comprendere?”. Accettiamo e non diciamo nulla a Carlo Calenda che, se solo sapesse, sarebbe capace di farci una grandine di tweet: “Letta anticipa gli appuntamenti! Caro Enrico, i veri riformisti hanno il coraggio di dire ‘non se ne fa nulla’. Buon viaggio”. Arriviamo al Nazareno alle ore 13.40.

 

E’ nostra intenzione individuare nelle vie laterali il famigerato bus elettrico di Letta, quello che, secondo le cronache, lo avrebbe lasciato appiedato come “un segretario in tangenziale”. Dove sta? Non è che il solito Calenda avrà rubato i cerchioni? Nulla. Sarà probabilmente a ricaricare le batterie. Insomma ci presentiamo: “Abbiamo un appuntamento con il segretario”. Scopriamo che “il segretario sta facendo un’altra intervista”. Ma come? Veniamo già traditi? Per fortuna Patrizia ci spiega che non c’è nessun tradimento e che “il segretario rilascerà l’intervista anche a noi, ma alle 14.05. Se vuole le offriamo un caffè democratico. Si accomodi”. 
Sprofondiamo sulle poltrone di pelle che hanno accolto i corpi di Romano Prodi, Dario Franceschini, Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Goffredo Bettini. Sono comodissime. Chi ha curato l’arredamento avrà pensato che servisse bilanciare la sedia più scomoda della politica italiana con i più comodi dei sofà. La stanza del segretario si trova al terzo piano. Il segretario colleziona planisferi. Una volta, a Sorrento, Enrico Letta disse a una platea di industriali, modello Cernobbio: “Io non sbraco”. Quando glielo ricordiamo, quasi a metà della nostra conversazione, il segretario pensa che quella frase sia una frase felice: “Sì, la rivendico”. E chi sarebbero gli sbracati in Italia? “Ah, la lista è lunghissima. Se dovessi farla non finirei”. Qualche nome? “Non servirebbe. Non c’è invece alcun dubbio che questa sia una delle campagne più sbracate della nostra storia e che se il centrodestra dovesse andare al governo ci farà sbracare in Europa. Il centrodestra ci farà fallire”. Il segretario si racconta che abbia imposto questa regola benedettina: “Vi prego, non sbrachiamo, mi raccomando”. Lungo i corridoi del Nazareno c’è lo stesso silenzio dei monasteri. Il pavimento è lucidato e le piante curate. Il candidato Matteo Orfini, del resto, l’aria da frate ce l’ha e Filippo Sensi, altro candidato, lo sanno tutti che è il Duns Scoto del Pd. Ci eravamo immaginati il terzo piano come l’ultimo cielo di Dante, la via d’accesso per arrivare a parlare “a tu per tu” con il segretario del grande partito progressista italiano. Uno scrittore irregolare e malinconico incontrato per caso, il giorno prima, aveva stabilito: “Il Pd? Eh, quello sì che è potere. Una forza eterna. Giorgia Meloni vincerà le elezioni, ma non batterà il Pd. Il Pd ha tutto: giornali, case editrici, università, televisioni”. Sarà come dice l’amico irregolare ma al terzo piano del partito eterno, dove ci si aspettava di ammirare tele di valore, opere di Renato Guttuso, copie manoscritte di Elio Vittorini, lì, a pochi metri dalla stanza di Letta, di valore c’è solo il quadro elettrico dell’edificio. Tre ragazzi, la cui età viene stimata tra i venti e i venticinque anni, entrano con tre buste verdi della spesa. Matteo Renzi ordinava cartoni di pizze comunitarie. Oggi nel Pd di Letta si mangia “al sacco”. Chiediamo a uno di loro, con la barba un po’ sessantottina (tornerà di moda Godard?) se sia vero che i social media manager di partito stiano preparando un video emozionale con le immagini del Barcellona e che la parola decisiva di questi ultimi giorni di campagna elettorale sia “remuntada”. Confessa di non saperne niente ma aggiunge: “Mi pare che innanzitutto bisogna provare a comunicare alla gente che domenica 25 settembre si vota. Molti neppure lo sanno. Mi sembra questa la vera grande questione”. Si presenta e dice che lui è Michele Bellini. Era l’assistente del professore Letta a Parigi e oggi è il suo capo staff. E’ uno di cui si dice un gran bene ma nel Pd prima che un’intelligenza si emancipi, e si affermi, deve quantomeno seppellire due segretari. Bellini occupa la stanza accanto a quella di Letta. La divide con altri due ragazzi. Quando entrano chiudono le porte. Ci immaginavamo i comitati all’americana, quelli delle serie tv: centralinisti ossessi, caffè sbavato sui tavoli, fogli lanciati in aria e poi urla, monitor con i sondaggi: “Quanto recuperiamo? Quanto?”. E invece parlano tutti a bassa voce. Una dipendente del Pd va a fumare sul terrazzo ma lo fa con discrezione come quelle compagne del liceo che strizzavano l’occhio: “Mi raccomando, non dirlo che ho fumato”. Letta non ha mai fumato, neppure da ragazzo, ma questo si apprenderà dopo e dalla sua stessa voce. Patrizia viene a prenderci dal sofà dove eravamo sprofondati sognando la “cosa rossa” di Bettini e Conte. Chiede se il caffè fosse buono e ci comunica che il “segretario è pronto. Venga”. 


Convinti che la stanza del segretario non potesse che essere in un ulteriore piano nascosto ci eravamo preparati a oltrepassare due, tre, quattro sale prima di arrivarci. “Guardi che l’ufficio è qui” annuncia Patrizia. E infatti appare la sagoma di Letta. E’ alto, alto. Ricorda Gandalf, il mago del Signore degli Anelli, la guida del piccolo Frodo. Pure il Nazareno, quando Letta si muove, sembra la contea di Bilbo Baggins. “Prego, prego”. Il segretario ci fa entrare nel suo ufficio. Sul tavolo c’è in vista il nuovo libro del direttore del Foglio “Le catene della destra”. Che sia una mossa per piegarci? “Guardi che lo stavo leggendo, lo studiavo. Non creda che l’abbia messo di proposito. Tra l’altro il suo direttore ieri mi ha bastonato, eh”. Sotto quel volume ci sono i sonetti di William Shakespeare in edizione Einaudi. Deve accorgersi della nostra delusione per le dimensioni della sala tanto da indicarci due porte. “Ci sono altre due stanze. Apra, apra”. Apriamo quella delle riunioni. E’ la stanza del famigerato “caminetto”, quella dove, secondo lo scrittore irregolare, si è pianificata la sorte italiana degli ultimi dieci anni come minimo: “Il potere!”. Più che la stanza del “caminetto” ricorda lo sgabuzzino dove le mamme italiane tengono l’asse da stiro. Letta si dondola sulla sedia. “Ha visto? Ci sono le cartine di Limes. Le ho volute appendere io”. Il segretario anche nelle parodie è ormai inseparabile dai planisferi. All’Arel, la sua associazione, lì dove incontrava Giuseppe Conte, ne ha una. E possiede cartine a Parigi, a casa, ovunque. E’ come essere entrati alla De Agostini. C’è un collega che come Letta ha la passione per le mappe. Ne appende una per ogni abitazione che abbandona e pensa così di viaggiare restando fermo. 


Letta dopo Mario Draghi è il leader italiano più conosciuto all’estero. Anche in Oriente lo conoscono. Ha creato un’associazione che si occupa di relazioni con quella parte di mondo dal nome Asean. In Francia ha sfidato, in francese, in un confronto televisivo, Marine Le Pen. Dicono che volesse andare a fare il segretario della Nato. “Vede quante se ne dicono? Lei vuole sapere se mi dimetterò da segretario del Pd in caso di sconfitta. E purtroppo non riuscirò ad accontentarla. Io non voglio sapere cosa farò dopo il 25 settembre, so però benissimo cosa farò da qui al 25 settembre. Girerò l’Italia a tappeto. Non mi fermerò. Io questo paese non lo consegnerò alla Meloni”. E se la Meloni vince, lei che fa? Ugo Sposetti, che è un vecchio comunista, l’ultimo “tesoriere” dei Ds, una mattina di settembre, una di quelle mattine romane, stanche e sudaticce, ha sussurrato, all’orecchio di un cronista, che lui possiede una bella casa in montagna: “Io ci salgo e chi si è visto si è visto. Come i partigiani”. Letta garantisce che lui non salirà in montagna perché “il Pd contrasterà, democraticamente, la destra e lo farà in maniera totale e completa”. Sulla parete del suo ufficio, oltre la cartina, ha voluto appendere una foto di Firenze (“e lo sa che io sono pisano”). Rivela che è un regalo del fotografo dall’occhio acrobatico, il fiorentino Massimo Sestini, il fotografo che scatta immagini dagli aerei. Un amico? “Sì, un amico”. Il segretario dice che è vero che gli piacciono le mappe. “La geografia era la mia materia preferita. Ma non creda che fossi secchione”. E così, sempre dondolandosi sulla sedia, esclama: “Non ero uno di quelli che studiava di notte. La mattina invece…”. Letta è diurno. Si sveglia alle 6.30 perché “alzarmi prima mi aiuta a organizzare la giornata”. Lo hanno rimproverato di aver schiacciato il partito sull’agenda Draghi che lo stesso Draghi ha rivelato “essere nient’altro che un metodo”. Gli chiediamo: ma lei, segretario, un’agenda ce l’ha? “Intende una di carta?” domanda lui. Sì, una vera agenda, un diario. Allunga una delle sue dita ossute e la prolunga come fosse un’antenna di una vecchia radio a transistor verso i suoi due telefoni. Con l’altro dito, anche questo sempre ossuto come un fil di ferro, indica la tempia. “L’agenda è lì e qui, nella mia testa”.

Gli artisti della caricatura gonfiano la sua fronte come un palloncino a elio. La testa del segretario è incastrata da una montatura, un paio di occhiali con lenti rettangolari. Da quando è stato eletto segretario del Pd non li ha mai cambiati. Matteo Salvini ultimamente, nelle sue dirette TikTok, sfoggia dei Ray-Ban neri. Cerca di avvicinarsi a Meloni anche in questo modo. Finirà probabilmente per indossare pure gli occhiali a goccia, quelli di Gianfranco Fini. Carlo Calenda, forse su consiglio degli spin doctor, cambia occhiali ogni settimana, un po’ come cambia idea. Segretario… “Lo so, so cosa vuole chiedermi. Vuole chiedermi perché io non rispondo a Calenda”. E perché non gli risponde? “Perché Calenda ormai è Calenda. E’ un compulsivo. Farei il suo gioco. Se mi facessi prendere dalla collera e rispondessi sui social ai suoi insulti sa quanto tempo perderei? A seguire il situazionismo di questa campagna elettorale si perde il filo. Io non posso perdere quel tempo. Se lei ci fa caso, Calenda e Matteo Renzi hanno un obiettivo”. E quale sarebbe? “Distruggere noi, attaccare la sinistra. Trascurano che la sfida è contro la destra. E’ una destra che, non ho paura di dire, staccherebbe l’Italia dal resto dell’Europa. Io paragono questo voto alla Brexit. E’ la nostra Brexit”. E ancora dondolandosi, come se la sedia fosse un’amaca, il segretario aggiunge che tra le tante cose che si dicono ce n’è un’altra che dovremmo sapere. E quale sarebbe? “Ah, non lo sa? Dicono che Letta adesso è aggressivo contro Giorgia Meloni”. E lei crede di esserlo? “Io sto facendo una campagna all’attacco. Sono convinto che debba essere condotta così e voglio continuare fino all’ultimo giorno utile. Bisogna essere giustamente aggressivi nei confronti della destra ma voglio anche che i candidati del Pd raccontino la nostra idea d’Italia, quella del lavoro, delle diversità”. Segretario, in realtà, scrivono che Letta non graffia e la prendono in giro pure sugli “occhi di tigre” che ha chiesto ai suoi candidati di mostrare agli avversari. E Letta, come un detective che ha risolto il caso, dice: “Ecco. Era la prova che cercavo! Come vede, vengo rimproverato quando denuncio il pericolo della destra. ‘Ah, ma quel Letta è troppo aggressivo. Letta non si riconosce più’. Ma vengo nello stesso tempo rimproverato di essere troppo debole. E però Letta …. Capisce perché non me ne curo?”. 


Con Giorgia Meloni, Letta si è confrontato in video, sul Corriere della Sera, e gli editorialisti hanno notato che non riuscivano a mordersi, che sembravano dei finti nemici e che se solo potessero, Letta e Meloni, farebbero un governo insieme. E forse perché ha ricevuto questa domanda mille volte e ancora mille il segretario decide di partire dai numeri. “Ma lo sa che quel confronto ha fatto il record dei contatti?”. E cosa significa? “Significa che la scelta è tra noi e Meloni. Ci sono due idee di paese diverse su tutto. In quella occasione si sono contrapposte ed è stato finalmente chiaro a tutti chi siamo noi e chi sono loro. Ma ora scommetto che lei voglia sapere se io sono amico della Meloni. Ho indovinato?”. E lo è? “In Italia, vede, c’è un grande equivoco. Un rapporto personale decente, come quello che c’è tra me e Meloni, viene scambiato per inciucio. E invece un rapporto decente non può coprire le nostre differenze profonde”.


Cerchiamo con gli occhi un portacenere, ma il portacenere non si trova. Segretario, ma lei almeno beve? “Mi piace l’amarone”. Certo, con tutte queste amarezze, replichiamo noi. “Ma l’amarone è un vino dolce” scherza lui. La scrivania del segretario è stretta, a elle, una di quelle componibili, popolari. Nella stanza non ci sono sacchi da pugilato. Calenda, oltre alle sigarette che mastica, smorza la tensione con il modellismo e con i guantoni. In una foto, una di quelle che Calenda condivide sul suo Twitter, i più attenti hanno osservato un sacco tirapugni, come quelli che i manager tengono negli uffici quando vogliono mandare al tappeto l’aria. Letta ripete che non ha mai fumato e che i suoi pensieri non sono di fumo. Ma sul serio non ha mai fumato? “Sul serio”. Neppure a Parigi? “Molti fanno ironia suoi miei anni a Parigi”. Dicono infatti che in Francia Letta sia diventato un socialista. Il segretario allora schiaccia l’occhio. “Mi chiede se sono cambiato? Sì, è vero, a Parigi sono cambiato. Non sono più il Letta di dieci anni fa. Mi ha cambiato insegnare. Sa qual è la mia forza rispetto alla Meloni? Io ho avuto la fortuna di trascorrere le mie giornate con ragazzi di vent’anni. E’ stato un privilegio. Ascoltavo i loro discorsi, le loro urgenze. Ho avuto la fortuna di capire l’evoluzione delle nostre società. La mia battaglia sui diritti civili che, come sa, ho voluto…”. Gli raccontiamo che un deputato del Pd, quando Letta ha cominciato a imporre l’agenda Letta (ddl Zan, cannabis, diritti civili) si metteva le mani tra i capelli e diceva: “Queste cose si fanno ma non si dicono. Perché Letta le dice?”. Letta si lancia allora in una profezia: “Tra dieci anni, vedrà, ci stupiremo dello stupore. Io non mi pento delle battaglie civili che ho ingaggiato. Quell’agenda è giusta”. Sinceramente, segretario, ritiene che con FdI il diritto all’aborto è a rischio come il suo partito minaccia? Il segretario si fa allora serio e dice che “sull’aborto ci sono ambiguità evidenti da parte della Meloni. Ci sono ammiccamenti pericolosi. Quando ripeto che la destra della Meloni, sui diritti, è più indietro di quella della Le Pen lo dico perché io quella della Le Pen la conosco, l’ho vista da vicino. La vera Meloni è quella di Vox, quella retrograda, oscura. E’ Dio, patria e famiglia”. Letta non ha mai mostrato i suoi figli. In maniera categorica dice che dei figli non parla. Gli chiediamo perché non voglia e lui spiega che i figli devono fare la loro strada e che troppi politici li esibiscono. Chiude questa faccenda con una frase corta e decisa: “I figli vanno lasciati fuori” poi la addolcisce: “Spero che lei possa accettare questa mia decisione ferma”. 


Prima di salire al Nazareno abbiamo visto passare due bus dell’Atac con il faccione del segretario, il suo cranio che è un po’ un mappamondo tanto è rotondo. “Ma lo sa pure lei come funziona. Purtroppo queste cose le devo fare…” si difende. E perché non le piace vedere il suo faccione in giro per le strade di Roma o di Milano? Risponde: “E me lo chiede? Lei pensa che io mi faccia modesto per astuzia? Lei pensa che non voglia metterci la faccia perché non mi ritengo un leader? No, non mento. Io ci credo sul serio al grande partito comunità. Un partito è tanti, non uno”. Secondo il segretario in Italia sono rimasti solo partiti di territorio e poi “è rimasto il Pd”, il partito che si può trovare dappertutto, “un partito con sezioni, militanti. Un italiano può trovarci in Veneto come in Sicilia. Noi ci siamo. Gli altri no”. E’ il partito diffuso un po’ come le poste? Si trova un ufficio postale in ogni paese e offre servizi moderni. A Letta piace la metafora. Gli chiediamo se sia vera la storia del bus elettrico che lo ha lasciato a piedi. “Ah, ancora questa storia?”. E lo dice divertito. Assicura che è una bugia ma una bugia che lo ha fatto riflettere. Si drizza ancora sulla sedia e precisa che il bus elettrico non lo ha scelto per fare “il fighetto”. Anzi. Prende la parola “fighettismo” e la mette all’indice come una parola che si dovrebbe proibire, almeno nel Pd, e inizia ad argomentare sul perché ha scelto il bus elettrico: “Il mio non era fighettismo!” E cosa voleva essere? “Un atto di denuncia. Sapevo che sarebbe stato faticoso muoversi con un mezzo elettrico ma mi serviva per mostrare come il nostro paese sia indietro su temi che riguardano la mobilità, l’ambiente”. Ma, segretario, è vero quello che diceva all’inizio? “Beh, non erano tante le ‘cose’ che si dicevano?”. 


Gli ricordiamo una nostra domanda su Draghi e su come recuperarlo. E il segretario che non vuole fare “l’amico di Draghi” risponde: “Quando dico che Draghi va recuperato intendo che va recuperato quella sua lezione di governo. Di sicuro ho fatto di tutto per non farlo cadere. Di tutto”. Capisce che la risposta non basta e allora ecco che la rafforza: “Io ritengo che Draghi non abbia finito il suo compito. Sì, è vero ne sono convinto. Nel paese che sto girando c’è una professione di simpatia e sintonia verso quello che ha fatto Draghi”. Ma farà lei il premier? “Se gli italiani lo consentiranno…”. All’Istruzione chi ci manda? “Le posso confessare un segreto?”. Il nome del futuro ministro, solo a noi? “Lo sa che il ministro dell’Istruzione lo vorrei fare io?”. Lei? “Da presidente del Consiglio vorrei tenere la delega. E sa perché? Perché l’Istruzione è il vero ministero chiave. Basti pensare alle risorse destinate dal Pnrr”. 


Subito dopo comincia a parlare di mare e di tempesta come il Magellano dello scrittore austriaco Stefan Zweig che doveva lottare su tre fronti: “Contro gli avversari esterni, contro i nemici dentro il paese e contro la resistenza che la materia opponeva al suo disegno”. Il segretario dice infatti che “gli italiani, il 25 settembre, troveranno nel caos, e nella tempesta, un rifugio, un’isola”.

Addirittura un’isola? “Vede, noi siamo lineari. Siamo quelli che hanno difeso Draghi, quelli che stanno con l’Ucraina. Siamo lineari in politica estera, sui diritti, sul lavoro. Anche il nostro tentativo di costruire l’alleanza con Calenda è stato lineare. Ci abbiamo provato”. E con Conte? “E’ stato lui che ha deciso di far cadere il governo. Ci ha provato in ogni modo. Alla fine ce l’ha fatta”. La decisione di separarsi dal M5s è stata presa dal Pd in direzione all’unanimità. Non l’ha presa lei? “L’abbiamo presa insieme. Io ricordo quel giorno. La decisione è stata condivisa”. 


E visto che si parla di Conte gli domandiamo se davvero non sia preoccupato di quella che viene definita l’avanzata di Conte al sud. Il segretario si mette a ragionare come fosse un matematico. “Mi segua attentamente. Il successo di Conte al sud è una buona notizia”. Una buona notizia? “Mi segua”. Il segretario Letta torna dunque “professor Letta”. “In questi giorni abbiamo studiato che il voto di Conte al sud va a scapito delle destre. Penso alla Puglia, e alla Sicilia. Quel voto, per via, di una legge elettorale le cui distorsioni sono chiare a tutti, ci consente di rientrare in partita in alcuni collegi uninominali. Mi segue? Ecco perché è una buona notizia. Questa volta o vinciamo noi o vince la Meloni. Non c’è alternativa”. Bettini e Franceschini chiamano Conte un “ex alleato”. “E lei immagino che voglia da me una definizione di Conte. Dico bene?”. Quando gli rispondiamo che sarebbe interessante saperlo e che a molti Conte ricorda lo zircone, il minerale che sembra prezioso ma che in realtà non lo è, il segretario dice che per lui Conte non è nient’altro che “il leader del M5s”. Nient’altro? “Solo questo”. E a destra? E’ rimasta solo Giorgia Meloni? Il segretario è convinto che la Lega “è già crollata” e Forza Italia “è già svanita”. “Io Forza Italia non la trovo più. C’è tuttavia qualcosa che riconosco a Berlusconi. E’ l’unico che ha detto la verità”. E su cosa l’avrebbe detta? “Sul semipresidenzialismo”. La destra vuole dunque cacciare Sergio Mattarella? “Sì. Lo ha detto Berlusconi. Io mi rifaccio alle sue parole. Vede, Berlusconi ha la capacità di smascherare la destra. Il suo messaggio è stato chiaro. Tra l’altro è stato Draghi a dimostrare che si può governare con l’attuale sistema senza nessuna necessità di una riforma semipresidenziale”. 


Solo adesso ci accorgiamo che Letta non ha mai guardato il telefono. Ne squilla uno. Ma non è il suo. Il segretario ne possiede due e li tiene sul tavolo come fossero degli strumenti, come gli astucci che si aprono quando occorre. “Si ricorda che dicevo che questo voto è come la Brexit?” chiede il segretario. Improvvisamente prende dall’armadio della memoria questo ricordo. “Sa, quando ero professore…”. Racconta che molti dei suoi studenti inglesi non andarono a votare sicuri che quello sulla Brexit fosse nient’altro che un referendum consultivo. “Subito dopo se ne pentirono. Capirono il dramma”. Il suo sguardo si sposta nuovamente sul telefono. Ne afferra uno, lo agita e dice: “Il voto non è un like. Sui social un like si può togliere. Esiste il dislike, ma il voto non si può togliere. Non esiste il ‘devote’. Il voto è cuore, il voto è passione. Ecco perché ripeto alla mia squadra, ai miei candidati: ‘Andate, girate il paese. Non esiste solo Twitter’. Io non voglio candidati nella bolla”. Ma lo dice senza rimprovero. Da segretario una delle sue decisioni più rimproverate è stata quella di sostituire i capigruppo uomini di Camera e Senato e di battere sulla questione di genere. Letta ha preteso due donne. “Andava fatto. Eccome se andava fatto. Lei si ricorda l’album della Panini? Quando guardavo le figure del Pd vedevo facce di soli uomini. E io, vede, non lo potevo sopportare. Erano 11 figurine di soli uomini. Dove potevo sono intervenuto, purtroppo solo dove potevo…”. Ma segretario, è vero che dopo di lei, il Pd avrà finalmente una segretaria alla guida come Elly Schlein? E Letta, che non vorrebbe neppure la sua testa mappamondo sulle carrozzerie dei bus, risponde: “I nomi, i nomi… Ma non sente come è bella la parola partito? Sa qual è la forza del Pd? Sa cosa ci invidiano?”. Si dice che siate saccenti e presuntuosi. Non si offenderà, segretario? Al segretario si può dire tutto, giusto? E il segretario risponde che quello che “la destra chiama presunzione si chiama preparazione”. Dunque la destra cosa vi invidia? “Ci invidia le competenze. Noi abbiamo non uno, due, ma una lista di possibili ministri tutti autorevoli e competenti che la destra non potrà mai avere. La nostra panchina è piena di uomini e donne pronti a scendere in campo e vincere la partita. Ecco, la destra non sopporta l’intelligenza, la compostezza, il nostro galateo. Ma ha visto come Meloni litiga con Salvini? Sarebbero pronti per il governo?”. 


Alla fine il Pd quindi “terrà” come si dice? E Letta: “Terrà? Io non voglio sentire l’espressione il Pd terrà. Il Pd vincerà”. Nella stanza accanto, intanto, si sente la voce di Patrizia che smista telefonate. Sta per entrare, sta per avvisare il segretario. Letta non ha paura del tempo. Sul polso non tiene l’orologio. “O passa la nostra idea o andremo all’opposizione. Ma noi vinciamo”. E così balza dalla sedia. Sembra proprio il mago Gandalf, ma con le batterie al litio al posto del cappello a punta. 

 

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  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio