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il programma

Cara Giorgia ti scrivo. Dal lavoro alle tasse, sportellate affettuose con i sogni economici di Meloni

Oscar Giannino

Quali sono le idee in economia della nuova leader del centrodestra? E cosa deve farci davvero paura? Indagine sul programma, a partire dal colloquio con il suo diretto responsabile, il senatore Giovanbattista Fazzolari. Le differenze con gli alleati ci sono, ma l'adesione all'atlantismo non basta per emanciparsi dal populismo

Lo scenario, oggi, non è del tutto improbabile e vale dunque la pena farsi quella domanda. Se la destra dovesse vincere le elezioni. Se Giorgia Meloni dovesse risultare come la guida riconosciuta della coalizione. Se la leader di Fratelli d’Italia dovesse finire alla presidenza del Consiglio. Se tutto questo dovesse accadere, che cosa rischierebbe l’economia italiana? L’analisi che segue intende rispondere alla domanda seguendo un metodo. Una prima parte del ragionamento coincide con una questione  che dovrebbe essere deontologica per un giornalista: rivolgersi direttamente alla fonte e raccogliere risposte a domande precise. Una seconda parte considera invece un altro punto: i dubbi e rischi che restano aperti. E poi l’epilogo: che cosa è davvero e cosa non è l’economia della “destra” in questi anni? Occorre però una breve premessa. Chi qui scrive conosce Giorgia Meloni da prima del suo successo crescente. Meloni officiò anche il mio matrimonio in Campidoglio. Abbiamo idee e culture profondamente diverse ma abbiamo sempre continuato a parlarci. Le ho sempre riconosciuto una grande determinazione nel non piegarsi a Silvio Berlusconi e a Matteo Salvini, neanche quando il suo partito era agli inizi ed era ancora molto giù nei consensi (alle politiche del 2013, Fratelli d’Italia raggiunse appena l’1,9 per cento; alle politiche del 2018 raggiunse appena il 4 per cento). Detto ciò, tra noi non c’è mai stato un velo d’ipocrisia: né lei ha evitato di sfottermi in quanto “libberale”, né io ho nascosto ciò che dico da sempre in pubblico, e cioè che il fascismo mi fa orrore (come ogni tirannia, ma il fascismo è nato in Italia). Proprio perché non c’è reciproca ipocrisia, spero il lettore non voglia credere che quanto segue sia inficiato da quanto sopra detto.

Cominciamo dal primo punto. Ho fatto domande dirette al responsabile del programma di Fratelli d’Italia, il senatore Giovanbattista Fazzolari. Quanto esposto tre mesi fa a Milano alla Conferenza Programmatica a Milano di Fratelli d’Italia ha generato in molti l’impressione che un governo a guida Meloni ci porterebbe rapidamente a essere una nuova minaccia per la stabilità dell’eurozona, visto che la somma dell’Irpef a tre aliquote fortemente abbassate (del 15 per cento fino a 28 mila euro, del 27 per cento fino a 55 mila euro e del 42 per cento per redditi a salire), un’aliquota del solo 15 per cento per il reddito eccedente l’anno successivo, l’aumento delle pensioni sociali minime a 1000 euro per quasi 6 milioni di soggetti, e altro ancora, genererebbe un deficit aggiuntivo per diversi punti di Pil. Come la mettiamo? “La mettiamo che non si è voluto capire che la Conferenza programmatica di Milano non era l’illustrazione del programma elaborato in vista di governare il paese – risponde Fazzolari – ma era un primo confronto aperto con esponenti del mondo accademico e delle professioni esterne al nostro partito come si è visto da chi saliva alla tribuna. E di conseguenza, il metodo scelto in quell’occasione è stato questo: confrontarsi su idee che avessero anche il gusto della provocazione, non certo basandosi sul presupposto che fossero tutte e ciascuna di esse cumulabili in un programma di governo. E’ stato un evento di cui avevamo bisogno: ci criticano sempre perché saremmo chiusi nel nostro recinto di nostalgici reducisti di un passato che non ci appartiene, ed ecco che quando ci apriamo a confronti esterni la reazione è alzare barricate”. 

 

Dubbi, estremismi,  spese impazzite e altri  problemi.  Chi qui scrive conosce Giorgia Meloni da prima del suo successo crescente, anche se non ne condivide le idee. Qualche domanda per orientarsi

 

Anche le trenta pagine con introduzione di Giorgia Meloni che circolano in giro col titolo “Appunti per un programma conservatore”, un opuscolo distribuito durante la seconda giornata della Conferenza programmatica di Fratelli d’Italia di Milano, non sono dunque il programma di governo di Fratelli d’Italia?  Risponde Fazzolari: “Basta leggere quanto Giorgia scrive nell’introduzione: ‘In questo documento il nostro partito conferma la sua apertura culturale, politica e strategica verso le classi dirigenti, i capitani coraggiosi dell’imprenditoria, gli spiriti liberi della cultura e tutte le categorie sociali della nostra Italia. Sono qui raccolti i contributi, le riflessioni e anche le provocazioni degli amici più autorevoli della società civile. Fratelli d’Italia ha voluto ascoltarli, sollecitarli e coinvolgerli su tutte le grandi sfide che attendono la nostra Nazione nell’attuale, difficile congiuntura politica globale’”. Ma quindi scusi Fazzolari, dove lo trovo il programma di Fratelli d’Italia per poterlo giudicare? “Le rispondo innanzitutto con un argomento istituzionale: mica l’ha deciso Fratelli d’Italia che simbolo programma e premier indicato da ogni coalizione non sia comune tra i partiti coalizzati: c’è scritto nella legge elettorale. Legge che dispone che la coalizione abbia un candidato comune nel collegio uninominale, ma senza simbolo comune né programma comune, e a dire la verità la legge non parla proprio di premier comune indicato, ma prescrive solo che ogni partito indichi il proprio capo-partito. 

 

 

Se lei mi chiede ‘ma non sarebbe meglio avere un vero programma comune e un candidato premier comune?’ le rispondo sì, certamente. Ma la legge elettorale mica l’abbiamo scritta noi. Ergo partiamo da questo presupposto: tutti i programmi dei partiti saranno come sfilate di moda in cui molti lanceranno le idee più varie e anche bizzarre, ma ricordandosi bene che poi i modelli che sfilano non sono quelli degli abiti indossati ogni giorno da donne e uomini che fanno i conti col proprio portafoglio. E’ un disincentivo alla responsabilità dover presentare programmi non vincolanti mentre in Germania i partiti prima di formare una coalizione di governo si sfiniscono per settimane su centinaia di pagine di programma vincolante? Anche a questa domanda risponderei certo che sì, ma le leggi elettorali bislacche italiane sembrano fatte apposta per disincentivare la serietà, e non dipende da noi”. 

 

Da Draghi a  Putin. I fatti  lo dimostrano chiaramente: tra i conservatori italiani  non ci sono tracce di un pensiero economico alto e alternativo, storicamente qualificabile come “di destra”

 

Ammetterà, Fazzolari, che l’argomento “legge elettorale” però mica impedisce di formulare programmi seri, se uno ritiene sia meglio non prendere in giro l’elettorato lanciando palloni aerostatici senza avere il gas per gonfiarli. “Sicuramente, ma bisogna ricordare però che in Italia, a regole vigenti, il programma vero di un governo si fa solo dopo le elezioni tra chi ha la maggioranza convergente sull’idea di condividerne l’esperienza, e a quel punto si fa una verifica reale e seria dello stato della finanza pubblica che si eredita e si formulano le vere priorità, che non sono le 100 lanciate in campagna elettorale ma molte meno, perché oltretutto bisogna comporle per somma tra partiti diversi. Funziona così mica solo per la destra, ma per tutti. A parte naturalmente quando i programmi nascono dai governi tecnici di emergenza e non da elezioni, com’è stato con Draghi”. E allora però Fazzolari: se tutto resta indefinito fino al momento della nascita del prossimo governo, come potete evitare di essere considerati una forza politica che non torni a fare dell’Italia, con il maxi debito pubblico che ha superiore alla somma di quello di Spagna Portogallo, Grecia e Irlanda, una minaccia per la tenuta dell’euro? Un paese con lo spread che torna altissimo? Un paese cioè capace di non ripetere la fine fatta da Berlusconi nell’estate del 2011? “Su questo siamo espliciti: un governo di destra non può avere alcun interesse a destare il minimo sospetto rispetto a un tema cruciale: adempiere alle condizionalità europee, che fanno parte del ciclo ordinario della programmazione pluriennale di bilancio”, dice Fazzolari. E aggiunge: “Nessuno può essere così suicidario da impostare un bilancio pluriennale che mini alla sostenibilità del debito pubblico”. Ma in queste parole impegnative va compresa anche l’esplicita volontà di aderire alle quattro condizioni poste dalla Bce, due settimane fa, per beneficiare dell’eventuale nuovo scudo TPI, ovvero il Transmission Protection Instrument, ovvero lo scudo anti-spread, varato per impedire che l’euroarea si possa sfilacciare? “Certamente – dice Fazzolari – siamo in un quadro di emergenza persistente, se non in via di nuovo aggravamento per le nuove prospettive di stagflazione che rimbalzano dalla scena internazionale, dunque bisogna essere in condizione, in caso di un’emergenza internazionale anche di poter beneficiare dello scudo della Bce”.

 

(S-D) Francesco Lollobrigida, Giovanni Donzelli, Giorgia Meloni, Giovanbattista Fazzolari e Luca Ciriani presentano il programma di FdI ad aprile (Ansa) 

 

E’ un impegno grosso, Fazzolari: non si tratta solo di restare in linea con i giudizi e le raccomandazioni sul bilancio della Commissione Ue, bisogna anche attenuare attraverso riforme strutturali gli squilibri macroeconomici strutturali di cui purtroppo l’Italia soffre eccome, ed evitare ogni azzardo con misure che anche in prospettiva facciano crescere il debito tanto da riportarci a interessi annuali superiori al Pil nominale… “Certo, è un impegno serio, ma ricordiamoci che attualmente siamo ancora in una fase di assoluta emergenza, in cui il patto di Stabilità è sospeso, e l’Europa ha fatto un primo passo avanti verso un debito condiviso”. Alt Fazzolari, che cosa significa? Che vi riservate di far saltare il tavolo quando si ridiscuterà delle nuove regole europee su deficit e debito? “Scusi, ma vede che lei allora ha un pregiudizio? Perché dice ‘volete far saltare il tavolo’? Bisogna prepararsi affinché al tavolo delle nuove regole l’Italia insieme ad altri paesi dell’Unione europea sostenga in maniera seria e argomentata la necessità di superare i vecchi criteri numerici di Maastricht, e mi scusi ma a dirlo non è mica Fazzolari: centinaia di serissimi economisti europei cari alla sinistra lo sostengono da anni, mica sto parlando di Varoufakis. Quei criteri non hanno retto alle crisi né alla prova del tempo: occorre una valutazione paese per paese che comprenda una seria analisi economica dei suoi gap interni e delle sue persistenti asimmetrie. E’ esattamente lo stesso criterio con cui la Bce si riserva di intervenire per evitare effetti asimmetrici da paese a paese della sua politica monetaria comune. Le asimmetrie restano un rischio per tutti, e le nuove regole di bilancio e sugli aiuti di stato dovranno tenerne conto”. 

 

 

Fino al 2018 la Meloni diceva che per questo l’euro era una moneta sbagliata e che bisognava uscirne. “Anche in quel caso ha pesato la logica di una finta coalizione elettorale, poi l’alleato Salvini ha fatto invece il governo con i Cinque Stelle, noi no. Resta il fatto che, parlando seriamente oggi, nessuna uscita dall’euro esiste per Fratelli d’Italia, c’è invece una forte intenzione di collaborare a regole nuove e serie. Non capiamo perché la sinistra non invoca altro da anni ma nessuno la considera una minaccia all’euro, mentre se lo diciamo noi diventiamo uno spauracchio eversivo”. Altra domanda essenziale, Fazzolari: che fareste sul Pnrr, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza? Avanti tutta sulla rotta tracciata o lo cambiereste? “Non scherziamo: sin qui l’Unione europea ci ha corrisposto circa 45 miliardi dei quasi 200 che spettano all’Italia per il Pnrr, e occorre essere meticolosi e precisi per rispettare gli obiettivi necessari a ottenere tutte le prossime rate. I problemi sono di tutt’altro tipo, non proseguire o meno. Il primo è che sin qui siamo in regola con i milestones formali, gli obiettivi, contrattati con l’Unione europea, ma siamo indietro con la messa a terra. Ad aprile è stato il Sole 24 Ore a scrivere che alla cabina di regia del Pnrr risultava che dei fondi girati nel 2021 per i primi interventi solo un terzo erano stati effettivamente spesi, e di quel terzo metà era ad opera delle sole Ferrovie dello Stato. L’impressione che proviene da tutti i territori è che i colli di bottiglia che rallentano opere e cantieri non siano stati affatto superati: bisognerà allestire un monitoraggio rapido ed efficace e varare nuove misure per procedure iper accelerate, altrimenti il rischio di non utilizzo sarà la replica di quanto avviene ogni sei anni col ciclo ordinario di fondi Ue. Molti enti locali semplicemente non ce la fanno, a rispettare tempi e procedure”.

 

Fazzolari (FdI) /1: “In Italia, a regole vigenti, il programma vero di un governo si fa solo dopo le elezioni tra chi ha la maggioranza convergente sull’idea di condividerne l’esperienza, e a quel punto si fa una verifica reale dello stato della finanza pubblica che si eredita”  

 

E qual è il secondo problema sul Pnrr? “Un problema ovvio”, dice Fazzolari. “E’ stato concepito un anno prima dell’invasione dell’Ucraina e dell’esplosione dei costi energetici, esattamente come il Fit For 55 che ha ulteriormente accelerato gli obiettivi della transìzione energetica e ambientale. E’ irrealistico credere che in questa situazione le stesse cose previste prima della guerra si possano fare con gli stessi soldi, in presenza di costi che sono semplicemente esplosi per le imprese. L’adeguamento dei prezzi nelle gare sin qui disposto è una goccia nell’oceano, bisogna seriamente porre il problema all’Europa. Ha visto che pochi giorni fa la corte dei Conti Ue ha bocciato il RepowerUe della Commissione, il piano della Commissione europea per rendere l’Europa indipendente dai combustibili fossili russi prima del 2030, dicendo che i fondi nuovi non ammontano affatto a 210 miliardi di euro ma sono solo 20 miliardi, il resto sono tutti fondi da ristornare rispetto a precedenti finalità? Il problema dell’adeguamento all’impennata dei prezzi bellici non lo chiede certo solo Fratelli d’Italia. Sono le imprese italiane per prime a chiederlo: filiere essenziali come l’automotive, l’alimentare e tutti gli energivori, acciaio, cemento, vetro, ceramica, carta e via proseguendo, sono esposti oggi a moltiplicazione degli oneri rispetto al previsto, se non addirittura a interruzioni di produzione, e sanno bene che gli ingenti investimenti necessari per una transizione energetica accelerata non possono essere gli stessi di quelli pensati quando la guerra non c’era e quando non eravamo esposti al rischio di serrate del gas russo da un giorno all’altro”.

La sento molto industrialista, Fazzolari… “E perché, pensa che una forza che vuole governare il paese resti cieca ai costi e agli investimenti industriali, quando è la manifattura che ci regge con l’export? La veda così allora: uno dei nostri criteri trasversali è la sicurezza. Accrescere la sicurezza non è solo problema di ordine pubblico. Nel contesto globale di mercati e di geopolitica in tumultuoso cambiamento, la sicurezza è l’autonomia energetica; è il non perdere filiere energivore che forniscono l’industria nazionale, oltre a esportare; è il non dipendere da semilavorati e terree rare che sono oggi monopolio della Cina; è avere reti infrastrutturali resilienti; è non restare indietro nell’innovazione delle eccellenze tecnologiche”.

 

Fazzolari (FdI) /2: “Siamo in un quadro di emergenza persistente, se non in via di nuovo aggravamento per le nuove prospettive di stagflazione  dunque bisogna essere in condizione, in caso di un’emergenza internazionale anche di poter beneficiare dello scudo della Bce”

 

Fazzolari mi sta declinando la versione rivista dell’autarchia? “Ma neanche per idea, siamo un paese povero di materie prime e trasformatore! Il punto è non infilare il collo nel cappio di grandi potenze autoritarie che usano tecnologia ed energia al servizio di un disegno geopolitico di asservimento: se l’Europa è un vaso di coccio che ha scoperto solo ora i rischi della dipendenza dal gas russo e dai microprocessori cinesi, sono l’economia e la libertà europea a essere a rischio. L’Italia deve recuperare molte posizioni perse nell’eccellenza di tecnologie di punta, se non vuole dipendere da sistemi autoritari”. Mi scusi Fazzolari, ma gli alleati di Salvini che vuole andare a Mosca, con i russi che gli pagano il biglietto, e di Berlusconi grande amico di Putin siete voi, non è che sia il massimo della credibilità per fare tirate contro gli invasori dell’Ucraina che ci ricattano col gas. “Eh no caro Giannino, sbaglia di grosso. Prenda nota: su Putin e sulla Russia la posizione di Fratelli d’Italia, la nostra posizione, è stata la più limpidamente ferma e coerente nel sostegno pieno agli impegni delle alleanze internazionali dell’Italia. Lo stesso Draghi ha riconosciuto in aula che, pur dall’opposizione, su questo da parte nostra non c’è mai stata la minima esitazione. E il messaggio è chiaro: per governare con noi, la linea è questa e non può cambiare. E’ stato semmai il Pd di Enrico Letta, lui che è europeista e atlantista, a dover fare i conti coi pesanti dubbi sulle sanzioni alla Russia e sul sostegno militare all’Ucraina invasa, e a esprimerli non erano solo i Cinque Stelle ma vaste aree del mondo culturale e sociale che fanno riferimento al Pd”.

Sento una certa acredine, Fazzolari. “Nessuna acredine. Ma visto che il Pd afferma e grida che con la Meloni è a rischio l’Italia in Europa e nell’occidente, i fatti dicono che è l’esatto opposto. E’ la posizione di totale fermezza occidentale assunta dalla Meloni a rappresentare la garanzia che l’intera destra non scivoli su posizioni diverse. Non è un’opinione, è un fatto. Un fatto così importante da essere essenziale, una delle migliori credenziali per governare il paese. E di questo fatto il Pd dovrebbe prenderne e darcene atto”. 

I dubbi e rischi però restano. Diamo per scontato ciò che è risaputo: la campagna elettorale è, come sempre, il peggior periodo per credere alle assicurazioni date dai partiti. Perciò diamo pure per scontato che, nell’ampia fetta di pubblico polarizzato nella Grande  Contesa tra bene e male che dal 1994 incombe sull’Italia, chi sta da una parte non creda comunque a una parola di quel che ha letto sinora, esattamente come dall’altra parte il Pd resta comunque il nemico storico da abbattere, anche se a guidarlo dovesse essere un Filippo Turati. Il punto è un altro: visto che a destra i compagni di strada della Meloni sono quelli che sono – uno stanco monarca e la copia a destra di Conte come ondivaghezza – per chi si preoccupa degli interessi del paese e trema alla sola idea di un nuovo 2011 ha più senso cercare di chiedere ora ferrea coerenza a queste assicurazioni, e se possibile chiederne anche di aggiuntive, oppure respingerle in toto, le assicurazioni, in nome della convinzione che siano di sicuro mero opportunismo elettorale? Rispondetevi da soli, non ho alcuna pretesa di sostituirmi alla vostra coscienza. Certo che di dubbi e rischi ne restano, eccome, e non solo perché sono il sale di ogni intelligenza delle cose. E siccome qui parliamo di economia, non cito le convinzioni di Giorgia sui diritti, pronunciate nel comizio di Vox che fanno rabbrividire anche me. Cominciamo però forzosamente dalla matrice culturale che ancora permea localmente una parte di Fratelli d’Italia. Di fascisti dichiarati ce n’è ancora, e l’impegno della Meloni su questo dovrà continuare. Anche se in questo pezzo ripeto si è parlato solo di economia, sono persone che in testa non hanno certo mercato, concorrenza e occidente, ma riflessi condizionati di autarchia, stato etico nazionalizzatore, e una mistica di Eurasia anti occidentalista e antiamericana e anticapitalista che assomiglia più a quella del Dugin caro a Putin che alle trumpate circensi di Bannon. Un secondo rischio sono i compagni di strada. Fu Silvio Berlusconi a portarci alla crisi di sostenibilità del 2011, con Giulio Tremonti poi che da allora alimenta una controstoria sugli errori capitali del famoso vertice di Deauville, su cui tornerò più avanti. Le pretese di Berlusconi e Salvini sono oggettivamente scassa-conti, per mole di bonus, prepensionamenti e lunari scostamenti di bilancio richiesti (solo il 12 luglio scorso Salvini dichiarava contro Draghi: “O si mettono nelle tasche degli italiani 50 miliardi di euro veri o non si risolve nulla”… cinquanta miliardi eh!).

 

In FdI, in molti  in testa non hanno mercato, concorrenza e occidente, ma riflessi condizionati di autarchia, stato etico nazionalizzatore, e una mistica di Eurasia antioccidentalista  e anticapitalista che assomiglia più a quella del Dugin caro a Putin che alle trumpate circensi di Bannon 

 

Quei compagni di strada – e sicuramente Salvini – non condividono neanche un terzo delle cose dette da Fazzolari che avete letto sopra. E poiché Berlusconi vorrà fare il padre nobile e dunque vorrà incessantemente mediare garantendo lui di persona a Salvini congrue soddisfazioni, o la linea su conti e regole europee sarà ferreamente e convintamente quella sopra descritta, oppure incasserà molti colpi sotto la linea di galleggiamento, con rischi elevati. Un terzo rischio è la composizione, di un governo di destra vittoriosa alle elezioni. Salvini non sopporta i tecnici e i competenti, a malapena ha sopportato Giancarlo Giorgetti, e vuole il Viminale per sé e i propri uomini fidati in altri dicasteri. Su eventuali innesti esterni, Berlusconi, forte di dieci anni complessivi di premierato, pretende l’ultima parola, a prescindere dai voti che prenderà. L’ideale per la Meloni sarebbe dunque arrivare alla definizione del programma e della composizione del governo con un certo numero di competenti anche senza partito e di propria fiducia, come argine alle pretese dei suoi alleati: ma su questo tutti i vertici di Fratelli d’Italia tengono le bocche cucite, e bisogna diffidare delle invenzioni giornalistiche.

Un dubbio vero riguarda poi la compatibilità con quanto detto sopra rispetto a una scelta che non viene invece negata. L’accettazione dell’euroarea è diventata un non-problema. Ma Fratelli d’Italia resta tenacemente convinta che l’Unione europea debba restare confederazione, diffida di ogni vera ulteriore cessione di fette di sovranità che sono premessa necessaria, se davvero si crede che la Ue debba diventare unione vera, con un bilancio proprio assai più esteso, un debito comune a scopo mutualistico, competenze comuni sulla difesa e sicurezza, acquisti unificati in pool su energia e commodities, e gradualmente un mercato del lavoro sempre più unificato con regole comuni. Ma questa posizione alla fine genera contraddizioni logiche: chiedere con una mano più fondi alla Ue per rimediare ad asimmetrie e gap italiani e nuovi interventi alla Bce per sostenere il nostro debito, e con l’altra mano rifiutare condizionalità decise a livello europeo per beneficiarne e negare insieme più risorse proprie a Bruxelles per gestire tale competenze, è una aporia che alla prima crisi vera non farà che riesplodere le diffidenze verso l’Italia. Va evitato vieppiù oggi, quando la Germania è in crisi non solo per la dipendenza dal gas russo ma come modello di massima brandizzazione con propri marchi di prodotti realizzati sommando enormi volumi di componenti e semilavorati che copiosamente poteva procurarsi a buon mercato in Europa e Cina, finché la globalizzazione non ha preso a frenare. Una Germania indebolita, e che cammina a passi veloci verso la recessione, è meno disposta alla solidarietà di una che corre: citofonare al ministro dell’Economia Lindner, se avete dei dubbi e siete lì pronti  a godere della maxi frenata tedesca. Anche per noi è un male, visto l’elevatissima interdipendenza tra molte filiere del nostro sistema produttivo e quelle germaniche. I dubbi e i rischi restano: e se vince la destra a traino Meloni li scopriremo solo con la prova del budino. 

 

La spinta della vera e alta “economia di destra”, quella della scuola storica tedesca, in Italia non ha mai attecchito, e ora i suoi sparuti epigoni hanno lasciato l’agone. Ecco. Se siete lì a pensare che quella destra liberale rigermoglierà con la Meloni, permettete una umile chiosa: vuol dire che non avete letto abbastanza libri. Tremonti?  Andiamo oltre

 

E poi resta un’altra questione da sciogliere: economia di destra, si dice, ma in che senso? Consentite dunque un’aggiunta che non è un vezzo intellettuale. Ogni tanto bisogna pur alzare lo sguardo, rispetto alle miserie delle campagne elettorali italiane, o di chi ha buttato giù Draghi pensando che fosse preferibile a farsi buttar già dal proprio scranno di capo-partito, come hanno fatto Conte e Salvini uniti nella lotta, con il Cavaliere al seguito come una mesta intendenza. Parliamoci chiaro: nella destra italiana attuale non ci sono tracce di un pensiero economico alto e alternativo, storicamente qualificabile come “di destra”. Ovviamente non sto parlando dei retaggi corporativi fanfaniani degli anni ‘60, quella era mera sopravvivenza delle pretese teorie economiche del fascismo. Sto parlando della destra economica vera, quella che negli ultimi decenni dell’Ottocento per una lunga fase in Germania diede vita al “Methodensreit”, una grande contesa su cosa fosse o non fosse l’economia e su quali strumenti dovesse adottare. Da una parte la scuola che si definiva “storica”, lancia in resta contro quella che definiva “la tradizione”, cioè l’economia classica da Smith e Ricardo in poi che sfociava nel marginalismo. Da una parte Karl Menger che difendeva il modello logico e deduttivo per spiegare le “empirie economiche”. Dall’altra Gustav von Schmoller capofila della scuola storica, induttivista e antideduttivo, per il quale l’economista doveva raccogliere un’infinita serie di materiali psicologici, etnici, geografici, razziali, da interpretare poi non con modelli matematici ma attraverso elaborazioni induttive e intuitive. Il quale von Schmoller  diceva, citando Goethe: “Un uomo nato e cresciuto nelle cosiddette scienze esatte non capirà facilmente, dall’alto della sua ragione analitica, che esiste anche qualcosa di simile a una fantasia sensibile esatta”. A molti sembrerà impossibile, ma la diatriba proseguirà per oltre 50 anni, fino al 1938.

La faccio breve per non annoiarvi. Forse qualcuno di voi avrà letto “La distruzione della ragione” di György Lukács, il politilogo, sociologo e critico della letteratura marxista di ferro, venerato da tutti gli stalinisti. In quel libro il coltissimo e comunistissimo ungherese mise in fila tutti gli economisti e sociologhi che a suo dire erano gli indispensabili preliminari del nazismo, la cultura irrazionale del capitalismo decadente senza cui Hitler non avrebbe potuto esistere. E infilò nella lista consegnata al plotone di esecuzione tutti gli esponenti della scuola storica, Roscher, Knies, Schmoller, Spengler, persino Veblen, che in realtà era un positivista, e poi ancora Simmel, Sombart e Tönnies. Non solo per i keynesiani e post keynesiani successivi, e poi per gli economisti neoclassici fino ai nostri tempi, gli esponenti della scuola storica erano avversari. Per i marxisti erano ovviamente nemici da eliminare. Perché respingevano la metafisica dei valori del capitalismo costruita attraverso i modelli matematici o della lotta di classe, e adottavano una eidetica diversa dal pensare secondo la tecnica. Mentre per gli economisti che hanno dominato le scuole maggioritarie fino ai nostri tempi l’economia è un insieme di fattori produttivi misurabili, per la scuola storica prevale la conoscenza per immagini e il ruolo delle comunità e delle nazioni che non sono riducibili alle seduzioni di Faust, del libero commercio, e dell’aperto conflitto e cooperazione di interessi.

 

L’accettazione dell’Euroarea è diventata un non-problema. Ma Fratelli d'Italia resta tenacemente convinta che l’Ue debba restare confederazione, diffida di ogni vera ulteriore cessione di fette di sovranità che sono premessa necessaria, se davvero si crede che la Ue debba diventare unione vera

 

Ora vi direte: ma che cosa c’entra questo con Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia? Eccovi serviti: la scuola storica di economia fu e resta il recinto per gli economisti di destra organicisti e fedeli ai miti nazionali, lasciate perdere l’orticello corporativo del Duce. Non a caso a loro giudizio la Russia sarebbe sempre stata irriducibile a quella sanguinosa parodia di capitalismo forzato di partito che era il bolscevismo, e sarebbe comunque rinata in un destino post imperiale. In Italia quel filone di contestazione economica si è quasi spento. Nel 1989 un gran libro mi fece trasalire: “Le seduzioni economiche di Faust”, autore un economista vero che lavorava allora alla Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, dove l’aveva portato Paolo Baffi. Il suo nome è Geminello Alvi, e se rileggete quel libro troverete la più colta e alta contestazione di tutto ciò che sarebbe accaduto nelle crisi finanziarie occidentali dei decenni a venire fino ai nostri tempi. Tremonti ha tentato spesso di vestire i panni della scuola storica, di qui la veste tra il profetico e l’aforismico dei suoi libri. Ma la spinta della vera e alta “economia di destra”, quella della scuola storica tedesca, in Italia non ha mai attecchito, e ora i suoi sparuti epigoni hanno lasciato l’agone. Se pensate che rigermoglierà con la Meloni, permettete una umile chiosa: vuol dire che non avete letto abbastanza libri. E buona campagna elettorale a tutti, se invece avete avuto la pazienza di leggere fino a qui.