la crisi perenne

Draghi se ne va, è il colpo di sole dell'Italia-Italia

Michele Masneri

Chi ha avuto la sfortuna di nascere negli anni Settanta ne ha passate di ogni. Eccone un'altra: gli istinti peggiori del paese hanno fatto fuori un presidente del Consiglio finalmente e raramente presentabile

Qual è il momento che ci ha fatto capire che eravamo fottuti come generazione? Tangentopoli? Ammazzamento di Falcone? Mattanza di Genova? Era un giochino che si faceva l’altro giorno in spiaggia. Chi ha avuto la sfortuna di nascere negli anni Settanta in Italia ha l’imbarazzo della scelta e ne ha passate di ogni: Mafia e sterminio di giudici antimafia; Mani Pulite (entusiasmo e seguente delusione e orrore); vent’anni di berlusconismo; poi antiberlusconismo; terza repubblica farlocca e delinquenziale (bastava vedere le facce, e i discorsi, e gli accenti, e gli abiti, ieri in diretta ma già cinque anni fa). Poi ancora sovranismo demente, infiltrato da insalate russe e arance cinesi (siamo pronti per la prossima via della seta, o della setola).

 

Nel mezzo, mille crisi economiche. La nostra generazione cresciuta con le pubblicità terrorizzante con l’alone viola ha imparato che "Spread" era più pericoloso di "Aids", che “titoli di Stato”, parola magica su cui la generazione prima della nostra aveva campato, magari vendendo fabbrichette per ottenere rendimenti a doppia cifra, era adesso materia radioattiva, e termometro del fallimento imminente. Chi poteva scappava all’estero approfittando degli Erasmus neonati; lì, succedevano delle cose. Intanto il concetto stesso di “crisi”, te ne rendevi conto abitando fuori, era qualcosa di molto specifico nostro, e non universale come si credeva. L’abitudine agli ultimatum di banche centrali e le ansie per i Bot (Buoni ordinari del Tesoro, prima che strumenti tossici russi); e “finanziarie” sempre sull’orlo del baratro, erano qualcosa che gli altri paesi non capivano, loro noiosi, grigi, privi del genio mediterraneo ma anche degli scostamenti di bilancio su cui è fondata la Repubblica, altro che lavoro.

Una tremenda abitudine alla crisi. Chi è venuto dopo ha meno o zero speranze, ma noi, diplomati nei primi Novanta, laureati alla fine di quel decennio, siam venuti su che l’Italia è un grande paese (si diceva ancora prima che “sovranismo” fosse una parola usata seriamente). Eravamo membri fondatori dell’Ue, eravamo nel sistema monetario europeo, nel G8, eravamo stati bambini negli anni Ottanta. Poi, man mano, si è sgretolato tutto. Gli stipendi si sono fermati alle nostre adolescenze e non si sono più mossi, e così la modernizzazione del paese, e se oggi siamo in mano a balneari che sbraitano contro la cattiva Europa e ai tassisti che sbraitano contro le cattive multinazionali, chi è abituato a viaggiare (in Uber o ancora meglio in Lyft) e torna magari per le vacanze assaporerà un amaro retrogusto vintage nell’Italia che non cambia mai.

 

E’ l’Italia che per complessi atavici proprio non ce la fa ad assomigliare a questo “prestigioso estero”, che preferisce sonnecchiare in una eterna serie B (col rischio di finire in C). E’ l’Italia del discorso del principe di Salina al cavaliere Chevalley (sempre reminiscenze liceali): noi non vogliamo migliorare, noi preferiremo sempre l’oblio. E’ insomma l’-Italia-Italia, come oggi si dice “destra destra”, perché dire estrema pare brutto, quella che ci governerà dopo le urne con la trucetta Meloni, colei che piace tanto in terra di Spagna (come la Carrà, come la Pausini, un altro destino, non avere mai successo nei paesi anglosassoni). 

 

E’ l’Italia così diversa dall’Italia sognata, l’Italia vista dall’estero, l’Italia che dopo mille crisi, ansie, delusioni, sembrava essere rinata a media presentabilità con Draghi, uno senza il sangue agli occhi di chi ha messo le mani sul malloppo. C’è una speciale grazia negli italiani che hanno vissuto e avuto successo all’estero, hanno preso il meglio da fuori e hanno imparato ad amare l’Italia di un amore diverso e più vero, è quello con cui la amano gli stranieri, ridendo bonariamente dei difetti e vedendo le cose che andrebbero sistemate, senza tanto girarci attorno, senza l'inutile chiacchiericcio che invece qui è core business.

 

Ma adesso per l’ennesima volta ha vinto l’Italia-Italia, quella delle corporazioni, quella che non vuole cambiare, quella già eccitata per i dibbbattiti della campagna elettorale (daje a ride). Avevamo un presidente del Consiglio finalmente e raramente presentabile, ma il Parlamento al di sotto di ogni sospetto proprio non ce l’ha fatta; hanno prevalso i lati peggiori dell'Italia-Italia, il cinismo calcolatore, il tassametro e il lettino prendisole (ombra psicanalitica dell’Italia del “piccolo e bello” e della furbata. Un paese da spiaggia). Persino il Berlusca, amato da taluni e detestato da molti più altri, che ci aveva cresciuti coi Drive In, orripilati con le sue bandane, inteneriti con le sue false nozze, e si avviava a un finale di partita di tranquillo vecchietto quasi statista, ha tirato fuori forse a sua insaputa (ultimi giorni di Ludwig) la faccia feroce e furbesca in una villa autodefinita "grande", da medio catering. Italia-Italia. Ecco, se si dovesse dire qual è il momento che definisce una generazione, o almeno qual è il momento che definisce il sentimento definitivo nostro verso un paese, eccolo qua, è quello venuto fuori con un colpo di sole di fine luglio 2022.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).