Il caso

I tormenti di Conte: "Se strappo non sarò mai più premier". Ma il M5s lo spinge fuori dal governo

Simone Canettieri

L'ex premier è stretto in una morsa: il Colle, il Pd, Grillo e il deep state. Ma i parlamentari vogliono l'addio a Draghi. Tensioni sul voto di fiducia in Senato la prossima settimana: "Usciremo dall'Aula"

E’ tormentato. “Perché se esco dal governo, non tornerò più a Palazzo Chigi”. Giuseppe Conte in queste ore fa anche questi calcoli: spera di essere prima o poi ancora premier. E sa, come racconta agli amici, che passare davanti al Quirinale, all’Europa e Oltreoceano come un irresponsabile  in questo momento così delicato per l’Italia potrebbe essere esiziale per la sua ambizione più recondita. Teme che il famoso deep state non possa perdonargli lo strappo. “Io sono un uomo delle istituzioni”, ripete con sempre più affanno a tutto il mondo M5s che lo spinge, anzi lo strattona fuori dal governo. “Non voglio passare per quello del Papeete 2”. E però la sede del suo partito è un comitato di guerra permanente. Dispaccio dei colonnelli: “Stiamo scomparendo”. 


“Basta penultimatum”, scrivono al capo del M5s i militanti sui social, in piena linea Di Battista. Sicché Conte ondeggia, prende tempo, aspetta “segnali di discontinuità da Palazzo Chigi”. Tangibili. Da rivendersi subito. Ma sembra avere le vertigini: Sergio Mattarella, Enrico Letta, Beppe Grillo, l’America, la Ue, le bollette, la benzina. Ci sono mondi istituzionali ed economici, portatori di interessi e di relazioni (quasi tutte interne: da quando non è più premier non è mai andato all’estero) che mettono piombo responsabile sulle ali della fuga dal governo. E però ci sono il partito e i parlamentari: circa il 70 per cento del gruppo vuole lo strappo. Per vari motivi e magari anche calcoli personali, come nel caso degli eletti al primo mandato che sperano nel bis nel nome della riscossa.  

Anche per questo un governista per vocazione come Stefano Buffagni ha il suo da fare a frenare i bollenti spiriti dei colleghi: “Non bisogna compiere scelte affrettate sull’onda dei sondaggi”.

Ma sembra essere la più classica vox clamantis in deserto, quella di “Sbruffagni”, come viene soprannominato l’ex sottosegretario, uno abituato a coltivare dubbi, ad alzare il dito per dire “uè, raga’, io non sono d’accordo”.     Allora bisogna andare in Senato, la fossa del contismo d’assalto, dove nei corridoi i 5 Stelle parlano male di Beppe Grillo e della sua infatuazione per Draghi, dove capita di ascoltare Vito Crimi ed Ettore Licheri fare ragionamenti del tipo: “O adesso o mai più. Non abbiamo agibilità politica”. A Palazzo Madama la pensano tutti, o quasi, così. Bisogna uscire, fare e disfare, battere e levare. L’occasione ghiotta si presenterà la settimana prossima quando arriverà  il Dl Aiuti per la fiducia. Ieri alla Camera 28 deputati (giustificati per missioni e non) non hanno votato la fiducia al governo. E si asterranno lunedì sul testo del provvedimento.

Al Senato la settimana prossima non si potrà dividere il voto. Al momento la strategia, che cambia di ora in ora a seconda dei tormenti di Conte, prevede l’uscita dall’Aula al momento della fiducia. Solo questo sarebbe un fatto politico enorme. Mariolina Castellone, capogruppo M5s in Senato, ha il compito in queste ore di portare avanti una strategia morbida. Che suona così: “Abbiamo fatto richieste dettagliate e di merito a Draghi: ora il premier ci ascolti e soprattutto ci dia risposte”. Niente di aggressivo, anzi. E però il gruppo è in fibrillazione: la scissione di Di Maio, i sondaggi sotto le due cifre. “Dobbiamo costruire un percorso serio per salutare questa esperienza”, è il ragionamento della “pochette magica”, il cerchio di fidatissimi dell’ex premier. Conte però non riesce a mettere un punto. Sembra sotto a uno stress politico non secondario. Anche dal punto di vista della comunicazione. Uscito da Palazzo Chigi mercoledì ha detto che si aspetta “entro luglio” risposte da Draghi. Ieri a chi gli chiedeva se il M5s voterà la fiducia ha sganciato un sibillino “vediamo”.  Mercoledì sera davanti ai parlamentari in assemblea se n’è uscito con questa frase: “Le urgenze che abbiamo posto non sono urgenze che richiedono una pronta risposta. A noi non serve una pronta risposta, occorre però una risposta in tempi ragionevoli”. E’ il manifesto di uno stato confusionale in cui tutto può ancora succedere. Occhio al Senato. 
 

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.