La minaccia spuntata di Conte sul Superbonus. Draghi concede il minimo sindacale

Valerio Valentini

Niente proroghe, costano troppo. Apertura sulla cessione dei crediti, ma restano molti vincoli (anche su Poste e Cdp). La rigidità di Palazzo Chigi, la mediazione del Mef, la rabbia dei grillini. Lunedì si va in Aula. "E potrebbe essere la tempesta perfetta", dicono i contiani

Siccome ormai si vive di paranoie, alla corte del fu avvocato del popolo, ecco che il riflesso pavloviano dei deputati contiani, martedì sera, è stato quello di accusare Di Maio. “E’ la Castelli che su ordine di Luigi ci pone dei veti”. In verità sul Superbonus la questione era assai più semplice: “Questione di soldi”. E infatti era così che anche il leghista Federico Freni, il sottosegretario al Mef che insieme alla viceministra ex grillina gestisce il traffico sul dl Aiuti alla Camera, l’aveva spiegata a Matteo Salvini: “Mezzo milione per finanziare le proroghe non c’è”. Ma caduto il primo tabù, restava il secondo. E su quello spinge ora chi, nella cerchia di Conte, invoca l’uscita dal governo. 

I margini per legittimare l’estremo gesto, in effetti, non dovrebbero esserci: perché l’emendamento governativo che stamane arriverà a Montecitorio, e a cui ieri Via XX Settembre ha lavorato d’intesa coi relatori, prevede  l’accoglimento di alcune istanze  dei partiti di maggioranza. Nessuno spazio per una dilazione dei tempi sui lavori di ammodernamento per villette, case popolari e impianti sportivi, ma una sostanziale apertura sull’estensione della cedibilità dei crediti, che potranno ora essere ricomprati da chiunque abbia una partita Iva, o quasi.
Basterà? Per rassicurare i costruttori, forse sì. Per evitare che il M5s si eserciti in nuove pantomime, chissà. “La verità è che il provvedimento cadrà nel mezzo della tempesta perfetta”, spiegavano ieri i senatori contiani, aizzati da chi, come Gianni Girotto e Agostino Santillo, del Superbonus rivendica la paternità, e dunque non accetta mediazioni se non quelle che deve subire. E però lunedì, quando il dl Aiuti approderà in Aula, oltre che la misura sull’efficientamento energetico degli immobili conterrà anche l’inceneritore romano. E in quegli stessi giorni si varerà il  nuovo invio di armi all’Ucraina. E poi l’affaire De Masi, le telefonate bollenti tra Draghi e Grillo, Conte che prima accusa e strepita, poi però riconferma la sua volontà di stare nei ranghi. “Sul Superbonus la gente mi ferma per strada, ricevo lettere degli operatori del settore: dobbiamo fare qualcosa”, predica ai suoi. 

Qualcosa, però, che non si sa cosa sia. Riccardo Fraccaro, che alla Camera fa da regista sul dossier, allarga le braccia coi colleghi. E’ tra quanti credono che qualsiasi scelta sia peggio del non scegliere. Ma non scegliere è la cifra del contismo: per cui si resta così, a cavallo tra lo stare al governo e l’uscirne, con la tentazione della fuga nella vaghezza dell’appoggio esterno. 

Il tutto, peraltro, aggravato da una rigidità, da parte di Palazzo Chigi, che sul Superbonus viene riconosciuta anche dal Pd. “Con la legge di Bilancio si era delineato un percorso di progressiva uscita dal 110 per cento, e credo vada rispettato anche per dare chiarezza alle imprese”, spiega Antonio Misiani, responsabile economico del Pd. “E non allargare la cessione dei crediti sarebbe una scelta che ricadrebbe soprattutto sulle famiglie più povere”. Eppure martedì sera, per vincere le resistenze dei collaboratori del premier, c’è voluta tutta la pazienza e l’arte diplomatica di Giuseppe Chinè, il capo di gabinetto del ministro Franco, che con un orecchio sentiva le lamentele dei rappresentanti dei partiti riuniti a Montecitorio per un vertice d’urgenza, e con l’altro ascoltava gli interlocutori a telefono da Palazzo Chigi.

A Draghi del resto la misura non piace: ne aborre gli illeciti riscontrati dalla Guardia di finanza (connessi in verità più ad altri bonus edilizi), ne contesta la natura regressiva, la considera eccessivamente dispendiosa. E poi, soprattutto, condivide i timori di chi, al Mef, come in Banca d’Italia, evidenzia come di fatto, col meccanismo della compravendita dei crediti, si crei una moneta fiscale, una specie di moneta parallela, che è un processo che a Bruxelles (e a Francoforte) piace assai poco.

Per questo alla fine ha concesso, per ora, il minimo sindacale. I crediti potranno essere ceduti a tutti gli operatori di mercato che non siano semplici consumatori, ma su Cdp e Poste, che potrebbero in teoria giocare un ruolo decisivo nel rilevare i crediti, resteranno i moniti che già mesi fa il governo ha rivolto loro, quando la leggerezza con cui le partecipate statali s’erano buttate nel grande gioco del Superbonus stava rischiando di creare problemi seri nei loro bilanci. Figurarsi, allora, se in questo clima sia possibile parlare di proroghe. “Manco a pensarci”, hanno messo in chiaro al Mef, martedì sera. In una riunione in cui, a un certo punto, il renziano Luigi Marattin ha proposto:”Ma se dobbiamo spendere miliardi per prorogare un’agevolazione, non faremmo meglio a farlo per Industria 4.0?”. C’è mancato poco che il grillino Luca Sut desse in escandescenza. E sì che alla legge di Bilancio mancano ancora quattro mesi. Ci sarà da ballare.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.