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“Occhio all'identità della Lega”. Così Zaia striglia Salvini

Francesco Dalmazio Casini

Le sconfitte del Carroccio alle amministrative hanno riacceso l'insofferenza della base leghista. Il presidente del Veneto: "Ora pensare all'autonomia, sarebbe un fatto storico"

La Lega zoppica. Le amministrative deludenti sono solo l’ultimo episodio di una crisi di identità che si trascina stancamente dall’estate fatale del Papete. Dalla creazione del governo Draghi si è parlato tanto di “Lega di lotta” e “Lega di governo”, individuando la frattura più probabile sulla faglia tra populisti anti-sistema e governisti. Il discorso identitario, territoriale, del partito è rimasto sullo sfondo, quasi che la metamorfosi salviniana da Lega Nord a Lega nazionale fosse passata senza far storcere il naso a nessuno.

 

Intervistato dal Corriere, Luca Zaia ricorda a Salvini che quel partito, nordista e autonomista, esiste ancora. Lo fa gentilmente, senza esporsi a critiche dirette verso il suo leader, ma lancia un messaggio preciso: “Credo che un partito debba essere identitario, costruire la propria fisionomia con gli anni e con le scelte. Credo che quando passerà l’autonomia sarà un fatto che cambierà la storia”. Due rimandi in due righe, l’identità tradita e la questione delle autonomie. Poi l’intervistato torna a parlare dei risultati delle amminsitrative, in chiave assolutoria, di quel che si può fare ora e di come ricucire la coalizione.

 

Ma quel “prima il nord” che Zaia sembra suggerire al Matteo nazionale non è da sottovalutare. Soprattutto perché a ripeterlo non è solo il governatore veneto, ma, a giorni alterni, anche i due colleghi più importanti del Settentrione: Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana. Per il primo l’autonomia “è un’opportunità nazionale”, mentre per il secondo “una riforma che migliorerà il paese”. Anche per Salvini, almeno a parole, ma l’impegno del Capitano – su questo i leghisti sono abbastanza d’accordo – in sede governativa si è fatto sentire poco e niente.

 

Le inquietudini degli amministratori locali della Lega ricordano un copione, lapidario, già suggerito da Giancarlo Gentilini, sceriffo di Treviso e “combattente leghista” della prima ora: “Devono essere i presidenti di regione, a cominciare da Zaia, a dire al segretario che è meglio fare un passo indietro perchè davanti alla Lega oggi c’è un precipizio”. Una confessione importante, rilasciata al Corriere del Veneto, specie se si pensa che Gentilini è uno dei “vecchi” che non aveva mai fatto mancare la propria benedizione alla svolta salviniana.

 

È la cartina al tornasole di un partito che ha lasciato da parte molto in fretta le sue parole d’ordine, da “Padania” a “federalismo”. Una mutazione coronata dal successo delle politiche 2018 e delle europee 2019, ma ora che lo sfondamento a sud ha perso tutta la sua carica, usurpata quasi completamente da Giorgia Meloni, la Lega delle origini torna a farsi sentire. Una Lega forse depurata dagli improperi dei Bossi e dal folclore di Pontida, che però riconosce ancora nel grande nord e nei suoi ceti produttivi – quel padanissimo popolo delle partite Iva – i suoi interlocutori principali.

 

Il bivio di Matteo Salvini è doppio. Da una parte bisogna decidere se si è populisti oppure governisti. Dall’altra c’è la scelta sull’identità territoriale. Una ritirata, almeno parziale, a nord, come sembrano suggerire i governatori, oppure continuare sulla strada nazionale che tanti dispiaceri sta regalando a via Bellerio. In caso contrario, si può sempre scegliere di non scegliere. Approccio che Salvini ripropone ormai con regolarità di fronte ad ognuna delle sfide del partito e i cui risultati sono noti. Certo è che il crollo dei consensi non può continuare in eterno senza .che gli amministratori leghisti facciano qualcosa - da sondaggi oggi Salvini conta meno che nel 2018 - e che prima o poi dovrà pur essere convocato un congresso nazionale per discutere di scelte e responsabilità - l'ultimo è del 2017. 

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