Jacques-Louis David, "Giuramento della pallacorda", dipinto tra il 1790 e il 1794 mostra uno degli eventi fondamentali della rivoluzione francese

L'eresia liberale

Che fine ha fatto il liberalismo? Girotondo di idee sul modello politico più occidentale che c'è

Una dottrina sempre controvento nella storia italiana. Una parabola stretta per anni fra le due chiese, cattolica e comunista, e che oggi soffre l’invadenza dei populismi. Ne parliamo con Camurri, Ferrara, Panebianco e Teodori

Che fine ha fatto, negli anni dei populismi d’ogni colore, il buon vecchio liberalismo? Che fine ha fatto a maggior ragione oggi, quando quelle tendenze  cominciano a sembrare merce politica che non si porta più? E del liberalismo si possono ancora cantare, almeno in astratto, le virtù? Il compito non è dei più facili in un paese come il nostro, che storicamente lo ha visto per una lunga fase schiacciato dalle due chiese contrapposte, quella democristiana e quella comunista. Trovarsi intorno a un tavolo per la presentazione di un libro (“La parabola della Repubblica. Ascesa e declino dell’Italia liberale”, edito da Solferino) è stata l’occasione per un gran dibattito sullo stato di salute di una dottrina politica e un poco anche dell’Italia dei nostri anni. Vi hanno preso parte i due autori del saggio, Angelo Panebianco e Massimo Teodori, Giuliano Ferrara e Edoardo Camurri. Che è stato il primo a parlare.

   

Edoardo Camurri

Sei anni fa se ne andava Marco Pannella, una delle figure chiave del pensiero e dell’azione liberale in Italia e in Europa, imprescindibile sia dal punto di vista biografico per quanto riguarda la storia di Massimo Teodori, sia dal punto di vista dell’azione e del pensiero liberale, rispetto a cui Massimo Teodori e Angelo Panebianco discutono e dibattono in un punto importante del libro. Massimo Teodori parla di Pannella da un certo punto in poi della sua vita politica, dagli anni Ottanta, con la nascita del Partito radicale transnazionale che aveva posto come simbolo il volto del Mahatma Gandhi. Parla cioè di un pensiero liberale che diventa sciamanico. Un termine interessante, teniamolo presente come elemento chiave.

  

Il pensiero liberale da un certo punto di vista è un bel problema ancora adesso, perché fondamentalmente difficile, impossibile, per certi versi utopistico: presuppone per esempio l’esistenza della libertà

   
Il pensiero liberale da un certo punto di vista è un bel problema ancora adesso, perché fondamentalmente difficile, impossibile, per certi versi utopistico: presuppone per esempio l’esistenza della libertà. E’ un’idea anglosassone, che esista la libertà e che sia un elemento chiave dell’azione politica. Un problema sia dal punto di vista filosofico in senso stretto, sia dal punto di vista delle conoscenze scientifiche e di quello stesso metodo empirista e scientifico su cui si fonda tradizionalmente la storia della cultura liberale. Un problema affascinante dal punto di vista politico. Pensate che le ultime ricerche nel campo della neuroscienza stanno confermando che il libero arbitrio, la nostra idea di libertà e quindi la facoltà di scegliere, e su questa scelta dare valore e fondare il pensiero politico e l’azione morale, è un’illusione del nostro cervello. Questi sono risultati a cui è approdata la ricerca neuroscientifica: una costruzione del nostro cervello che ha bisogno di creare l’illusione della libertà per fini evoluzionistici.

   

    

C’è una contraddizione tra il sistema del cervello, un sistema fisico e quindi deterministico, e poi la coscienza che prende atto di tutto questo. Questo tipo di riflessione e di ricerca scientifica ha creato in questi ultimi anni un dibattito nel mondo del pensiero politico profondo perché se è così dobbiamo ripensare da capo il Codice penale. Nulla avrebbe più senso. Ed è un discorso pericolosissimo, perché se questa consapevolezza dell’assenza di libero arbitrio dovesse poi passare, crollerebbe tutto in un solo istante. Tutto sarebbe giustificato e ci troveremmo nella situazione di “Jacques e il suo padrone” di Diderot, in cui ci si trova all’interno del paradosso di un mondo in cui non c’è più la libertà. Quindi la prima operazione difficile, controversa e teoricamente discutibile del pensiero liberale è fondare sé stesso sull’idea di libertà.

 

Liberale è innanzitutto un modo di stare al mondo. Presuppone una classe dirigente istruita, sensibile, colta, non che si appropri di questa etichetta per giustificarsi all’interno del dibattito politico più vieto

    

Altra operazione difficile del pensiero liberale (per cui poi si capisce perché possa essere anche visto come un pensiero utopista) è l’idea dell’individuo. Mi ricordo da ragazzino le discussioni che facevo con Alberto Mingardi (un importante studioso del pensiero liberale e liberista in Italia) riguardo all’individuo: lo si presuppone ma non si sa bene cos’è, e a questo si ricollegano tutte le vecchie riflessioni degli anni 60, 70 e 80 riguardo al soggetto: da Klossowski a Nietzsche, passando per Saussure. Di cosa parliamo quando parliamo di individuo? Il pensiero politico liberale si fonda quindi su alcune astrazioni e su alcuni desideri e proiezioni di quello che dovrebbero essere l’uomo e la società, estremamente difficili da padroneggiare e da governare. Il liberale in questo senso è eroico perché va contro, accetta, si prende sulle spalle una forma di astrazione profonda e radicale, e nonostante questo prova a costruire un’azione e un pensiero politico. Oggi per certi versi non riusciamo a capire se esistano i liberali, perché lo sono tutti e quindi nessuno.

   

Mi affascina e avrei voglia di difendere quell’elemento sciamanico di Marco Pannella, quel suo essere liberale in senso classico, certo, per certi versi da Destra storica. Ma poi la grande intuizione: innestare all’interno della tradizione classica la grande controcultura americana, gli anni 60

  

Liberale è innanzitutto un modo di stare al mondo. Presuppone una classe dirigente istruita, sensibile, colta, non che si appropri di questa etichetta per giustificarsi all’interno del dibattito politico più vieto. Dunque non c’è più un pensiero liberale, non c’è più una manifestazione forte e profonda di quelle istanze pensate anche in modo radicale e contraddittorio. In questo senso mi interessa, mi affascina e avrei voglia di difendere quell’elemento sciamanico di Marco Pannella, quel suo essere  liberale in senso classico, certo, per certi versi da Destra storica. Ma poi la grande intuizione: innestare all’interno della tradizione classica la grande controcultura americana, gli anni 60, Timothy Leary, la programmazione cerebrale, il confronto con Pasolini e poi la non violenza gandhiana. Insomma rendersi, come diceva Pannella, perennemente irriconoscibili, muoversi all’interno dei significati profondi dell’esistenza e non semplicemente “stare” liberali in una normale cornice politica – in cui i liberali sono quelli che si mettono la giacca e la cravatta – ma innervare il pensiero classico in modo folle, utopistico. Metterlo in pericolo attraverso l’innesto di altre riflessioni e trasformarlo. Associargli per esempio la non violenza gandhiana è un tipo di sensibilità che non può che essere anche una forma di spiritualità. Una scelta su come stare al mondo. Queste sono alcune notazioni “appese” per aprire la nostra discussione, per affrontare in maniera esistenziale il problema di essere e dirsi liberali, con un’impostazione anche molto biografica da parte di Massimo Teodori e di Angelo Panebianco. Entrambi mettono in campo nel libro la loro vita, la loro storia e le scelte, le compagne e i compagni di viaggio – dove il termine compagno, come usava Marco Pannella, indica chi “divide il pane”. Un elemento spirituale, profondo ed esistenziale. Questo elemento biografico si scontra con l’orizzonte della parabola della Repubblica, che si chiude sempre di più a queste istanze liberali, matte e spirituali e che poi tutto sommato si tiene i liberali come un modo di fare politica, un po’ uguale agli altri, un po’ insignificante, semmai utile come etichetta per ottenere qualche piccolo risultato di tattica politica. Penso che tutto questo, a sei anni dalla morte di Marco Pannella, il pensiero liberale non se lo meriti affatto.

  

La libertà, una convenzione difficile. Radicata con una certa idea della persona, genera la cosa più accettabile che la storia umana abbia potuto produrre. La svolta di Pannella e lo sciamanesimo libertario che ci ha cambiato

  

Giuliano Ferrara

Io me la vorrei cavare con un paio di battute, la prima delle quali è che quando sento parlare di neuroscienza, come faceva Bombacci quando sentiva parlare di cultura, metto mano alla rivoltella. In realtà questo sottile e anche devastante attacco avanguardistico, postmoderno, che passa attraverso le pretese della neuroscienza, portato da Edoardo Camurri al liberalismo come dottrina e come politicantismo, ha naturalmente un suo fascino. Perché è un modo di rinverdire, di nascondere la polvere e non sotto il tappeto, ma dissolverla con un soffio forte. Quindi l’ho apprezzato, adesso sentiremo che cosa ne dicono due personalità politiche, culturali e civili che intorno al liberalismo come dottrina hanno costruito parte della loro identità personale, come loro stessi raccontano in questo libro. Io osservo soltanto che purtroppo per i neuroscienziati a un certo punto c’è stato un monaco che, forse per un equivoco, forse perché era troppo cattolico, insieme a Machiavelli fondò il mondo moderno con una frase: “Hier stehe ich, ich kann nicht anders”, “io sto qui, la mia coscienza non mi permette di formulare altre ipotesi”. E disse questa frase di fronte a Carlo V, che come epitome del potere imperiale, del potere in generale, non era secondo a nessuno. La disse al rischio della propria esistenza e di qualche equivoco, naturalmente, la disse in nome della fede. Quindi non in nome della ragione, ma di una interpretazione critico-biblica di un versetto, “Il giusto vivrà per la fede”, contenuto nella lettera di San Paolo ai romani. C’è stato Lutero insomma, quindi è difficile oggi dire che la coscienza ha come semplice compito quello di prendere atto dei dati che deterministicamente le offre il cervello. Seconda battuta: il cervello umano è notoriamente – lo dicono anche i neuroscienziati – una cosa troppo complessa perché altri cervelli possano pretendere di decifrarlo.

 

Noi possiamo invece decifrare la storia, le consuetudini, i costumi, la politica, l’arte. Possiamo cioè essere ciò che siamo, con attenzione a queste che Camurri, collegandole al giudizio di Teodori su Pannella, ha chiamato “proiezioni sciamaniche”, con attenzione a tutto quello che di nuovo, di impossibile, di ultramoderno più ancora che postmoderno, si può pensare della realtà. Ma anche con un certo rispetto della realtà così com’è, insomma, non voglio fare il Von Ranke dei poveri, però le cose come sono effettivamente accadute hanno un loro peso, e hanno un peso anche nel libro, resoconto per certi aspetti formidabile degli anni in cui è cresciuta su sé stessa, con risultati naturalmente ambigui, quella repubblica che è richiamata nel titolo. Più a fondo, il saggio è un tentativo di riflettere su come sia stato possibile che vivesse e sia sopravvissuto – perché è così, e gli autori ne danno testimonianza in modi diversi, uno stile e un approccio diversi ai temi anche molto personali – un elemento che non è il liberalismo dottrinale classico – quello naturalmente è consegnato ai libri, agli archivi, alle biblioteche, allo studio critico, insomma non stiamo parlando di John Stuart Mill – ma come è possibile che sia vissuto e sopravvissuto un liberalismo di cui ancora si può parlare, sia pure per devastarlo sciamanicamente, e lo fa Edoardo Camurri nella scia di una intuizione forse fatale che fu di Marco Pannella. Il quale a un certo punto disse “no, qui non si va avanti col ‘gruppo del Mondo’. Io sono quella cosa lì e lo testimonierò fino al giorno della mia morte, con tutti i miei comportamenti, con tutte le parole, tante, torrenziali, affabulatorie, che sono in grado di affidare alla mia radio, alla mia gente, ai miei amici e ai miei amori, alla mia vita personale. Io sono quella cosa lì, però siccome sento che il mare si prosciuga, l’acqua manca, l’ossigeno si rarefà intorno alla prospettiva di una riforma liberale, cerco nuovi orizzonti. E quindi faccio lo sciamano”.

  

I grandi esiti post razionalisti della filosofia moderna mettono in discussione quelle certezze sublimi che sono state generate nell’Inghilterra fra Sette e Ottocento e che hanno portato al liberalismo e ai suoi strumenti: la libera stampa, l’organizzazione degli intellettuali, dei saperi

    

Come sia stato possibile che invece sia sopravvissuto un liberalismo? Sopravvissuto a che cosa, poi? All’atto fondativo di questo paese, che è la combinazione tra il 18 aprile e il varo della Costituzione del ’48. Da lì al caso Moro, che è la fine di una prima fase eroica, passano trent’anni. Dal caso Moro a oggi sono altri quarantaquattro, un sacco di tempo. Sembra non contare più niente di fronte a quello che succede in Europa – i confini violati, la guerra convenzionale, questo spettacolo osceno al quale stiamo assistendo – però in realtà è un tempo che è passato. E cosa è passato? Il liberalismo? Si dice che ci vuole lo sciamanesimo perché il liberalismo come dottrina è una cosa arida, secca, che non dice più nulla, perché appunto è difficile definire i confini della libertà visto che c’è un pensiero deterministico che si cumula nelle ricerche scientifiche, si moltiplica. E poi i grandi esiti post razionalisti della filosofia moderna mettono in discussione quelle certezze sublimi, sovrane che sono state generate nell’Inghilterra fra Sette e Ottocento e che hanno portato al liberalismo e ai suoi strumenti, di cui qui si parla molto: la libera stampa, l’organizzazione degli intellettuali, dei saperi, eccetera.

    
Ora io vorrei fare un’osservazione non critica, non polemica, ma se posso dire così, da “ricercatore aggiunto” a Massimo Teodori e Angelo Panebianco, su una questione di fondo del loro saggio. Non è che il liberalismo sia sopravvissuto e adesso deve ridefinirsi come dottrina o post dottrina, o deve diventare movimento, polo politico, insomma tutti i problemi delle terze forze.

    

Tutti questi problemi dell’unità delle forze laiche e dell’unità laica delle forze, tutti i problemi generati dal congresso per la libertà della cultura, dal rapporto col Partito comunista, con il suo “bigottismo” diciamo così, il suo particolare incontro con i ceti medi da un lato, e con la dimensione cattolico confessionale di una parte della società italiana di quegli anni dall’altro. Ora, tutte queste cose qui sono passate di lato a un inveramento assoluto del liberalismo. L’Italia è un paese, se posso dirlo provocatoriamente, devastato dal liberalismo. Il liberalismo ha preso una curvatura per cui, se penso che il mio amico Edoardo Camurri, con buone ragioni intellettuali, lo capisco, in un senso sottile però, si definisce libertario in opposizione al comune sentire, la cosa mi fa quasi sorridere. Perché l’Italia è diventata nel corso di questi prima trenta poi altri quarantaquattro anni, insomma in quasi un secolo di repubblica – di repubblica civile, dei partiti, dell’antipolitica, dello sciamanesimo, delle terze forze, e ovviamente soprattutto della Democrazia cristiana e fino a un certo punto anche del Partito comunista, di repubblica riformista, di repubblica che non fa mai le riforme e che però cambia, di repubblica trasformista – perché la vera virtù del sistema politico italiano è da sempre il trasformismo senza il quale non avremmo fatto un passo avanti…

  
Ma in tutto questo evolvere, quello che noi vediamo è il profondo mutamento della dimensione individualistica, del concetto stesso di genere, il radicamento, ormai fin quasi ai limiti, del tentativo di costruire una dottrina ufficiale nel sistema dell’istruzione di nuovi grandi pregiudizi di tipo libertario. Insomma, siamo il paese della pillola e dell’Humanae vitae, l’enciclica di un papa come Paolo VI che cercò di costruire un argine e fu lapidato praticamente nella stessa Chiesa cattolica, che lo costrinse al mutismo fino al giorno della morte. Siamo il paese del divorzio, ma non tanto del divorzio come tecnica procedurale, bensì del divorzio come costruzione mentale, psicologica e sociale, di cambiamento dei costumi, di una nuova idea di famiglia, di educazione dei figli. Andando avanti dal divorzio all’aborto – e Pannella e il suo sciamanesimo hanno qualcosa a che fare con questo – l’Italia è diventata anche il paese in cui la generazione di esseri umani a mezzo di esseri umani ha cambiato profondamente natura. Voi mi direte che sono fenomeni civili, diritti, legislazioni, opzioni liberali che in tutto il mondo si sono affermati senza scandalo, che anche nella storia del mondo – divorziavano pure i romani – hanno un loro statuto e una loro cittadinanza che non si può revocare in dubbio. Ma non è che revoco in dubbio, non voglio mettermi a fare il bigotto, non sono nel mio “momento Kirill”, però se noi non capiamo che questo è quello che è successo – fino appunto al problema di che cosa dire ai bambini e ai ragazzi sulla identità sessuale, come proporre un’apertura mentale a scelte fluide – se noi non capiamo che la bioingegneria e la biotecnologia hanno delle implicazioni radicali sul significato di generare un figlio, se non vediamo la libertà “che non esiste”, però è l’unico orizzonte di fronte al quale noi oggi siamo, e non ce ne sono altri… allora facciamo un errore. Questo è il mio punto. 

  
Panebianco è oltre che una persona stimabilissima, uno dei pochi, nella funzione dell’editorialismo politico, di cui si leggono con interesse le cose che scrive. In più, presenta qualcosa che potrei dire di avere orecchiato nei problemi che ho cercato di illustrare finora: è la questione per cui “noi delle terze forze liberali non abbiamo capito che abitavamo in un paese cattolico”. In un paese dove il cristianesimo esprime degli elementi fondativi della realtà. Per esempio: l’individuo è ormai pienamente dispiegato e realizzato con tutto il suo corteggio dei diritti, compreso il diritto di morire, figuriamoci, però questo è un paese che ancora fondamentalmente crede nella persona più che nell’individuo, cioè in un individuo collocato in un sistema relazionale, che quindi assume una maschera, diventa cittadino, bourgeois gentilhomme. Insomma mi pare che Panebianco abbia centrato un punto importante che invece a Massimo Teodori non gliene può fregare di meno, come si dice volgarmente, e che appunto è il rapporto con la Chiesa cattolica. Anche perché il battesimo delle terze forze di tutti i tipi, in tutti i partiti, in tutte le correnti intellettuali, in tutte le riviste, in ogni sfumatura del pensiero liberale è stato la divisione sull’articolo sette, cioè la decisione o meno di mettere il Concordato nella Costituzione della Repubblica, che fu affermata da Togliatti anche contro qualche piccolo mugugno interno, e fieramente contrastata da tutta la filiera che esprimeva il meglio del liberalismo italiano. 

  
In libreria c’è un libro di Carlo Calenda, che sarebbe riconosciuto come un tecno-liberale della nuova generazione, un uomo appena maturato che ha fatto le sue prime battaglie importanti prendendo questo 20 per cento da solo a Roma, che non è poco, e comunque dandosi molto da fare per per costruire una nuova prospettiva riformista liberale laica. Però questo libro che si chiama “La libertà che non libera”, sottotitolo “Ritornare al senso del limite”, è introdotto da un manifesto ideologico che cita Mazzini, John Stuart Mill – il “Saggio sulla libertà” – e studiosi come Remo Bodei ed Emma Fattorini, di varia ascendenza e di varia discendenza, che si sono mossi nell’ambito della riflessione sull’identità e la condizione esistenziale del moderno uomo occidentale. Non cita certo i Padri della Chiesa, comincia con una tirata di Mazzini contro l’individualismo materialistico in favore dei doveri contenuta nel suo saggio sui doveri dell’uomo. Quindi cose anche vecchie, molto rétro. Questo tecno-liberale in apparenza, al quale per il suo curriculum non attribuiresti questa piattaforma, questa idea di ciò che oggi noi siamo e di ciò che dovremmo essere, fa un manifesto quasi sovrapponibile all’omelia di Joseph Ratzinger sul sagrato di San Pietro quando si diede addio a Giovanni Paolo II. Sostanzialmente si candidò a fare il Papa, nei modi specifici in cui lo fanno gli uomini di Chiesa, con un discorso fortissimo contro la dittatura del relativismo etico e contro l’idea che non esista un ordine, che non esista una gerarchia di criteri dell’esistenza e che si possa perseguire la felicità senza una bussola morale, “in nome – diceva – dell’io e delle sue voglie”. Sovrapponete il manifesto di Calenda all’omelia di Ratzinger e vedrete che sono perfettamente “overlapping”, per usare un termine da manager. Questo per dire che evidentemente c’è un problema.

  

La libertà è una convenzione. Radicata però, se la si sposa con un’idea dell’individuo, della persona e forse anche con la prospettiva di un futuro di un’umanità che possiede una coscienza “luterana”. Questa convenzione della libertà, se è sposata con tutto questo, genera il meglio

  
L’attacco allo sciamanesimo: si capisce perché Teodori abbia divorziato dal modo in cui Pannella ha aperto una nuova frontiera. Perché Teodori è un solido liberale conservatore, un radicale attaccato alla radice e lo si vede quando parla della sua infanzia, di Ascoli Piceno, quando parla delle sue esperienze in diverse età della vita fino a quelle più importanti, civili, politiche, di parlamentarismo attivo, di movimento eccetera. Da questo punto di vista è un garante astuto, accorto, non ingenuo di una ortodossia radicale liberale. Benissimo. La polemica con lo sciamanesimo viene ripresa e rilanciata, sia pure polemicamente, da Edoardo Camurri in nome di queste idee che naturalmente si sono guadagnate un diritto di cittadinanza, io ho scherzato quando ho detto che metterei mano alla pistola quando sento parlare di neuroscienze. Angelo Panebianco mi sembra l’unico di noi che ha capito per tempo e non ha più mollato la comprensione di questo aspetto dalla realtà: la libertà è soltanto una convenzione difficile. Sarà per il proceduralismo tipico della sua funzione accademica, sarà per aridità di studioso, però questa cosa l’ha capita, e credo sia la verità delle cose: la libertà è una convenzione. Radicata però, se la si sposa con un’idea dell’individuo, della persona e forse anche con la prospettiva di un futuro di un’umanità non riducibile a ciò che oggi pensa la neuroscienza, e quindi un’umanità che possiede una coscienza “luterana”. Questa convenzione della libertà, se è sposata con tutto questo, genera il meglio o comunque la cosa più accettabile che la storia umana abbia potuto produrre. Invece noi viviamo con questa convenzione che sta nella nostra Carta costituzionale, con una storia politica che corrisponde largamente a questo afflato originario, e contemporaneamente però con fenomeni di sciamanesimo libertario diffuso che hanno totalmente cambiato il senso della natura delle nostre vite. Questi libri, queste biografie, queste idee sul liberalismo, introdotte da questo “assassino intellettuale” che è Edoardo Camurri, con grande grazia, in modo molto brillante, sono qui a disposizione di tutti. Dobbiamo capire se e come possono progredire.

  

Angelo Panebianco

La prima osservazione che vorrei fare è che i neuroscienziati fortunatamente non sono tutti d’accordo e non è già dato per scontato che il libero arbitrio non ci sia. Ma se anche fosse questa la teoria vincente, possiamo tranquillamente disinteressarcene. Isaiah Berlin raccontava un episodio degli anni Cinquanta: si trovava a Oxford con un filosofo determinista che negava il libero arbitrio. Allora Berlin a un certo punto si alza in piedi e fa finta di dargli una sberla, con grande scandalo di tutti. Questo si arrabbia e Berlin risponde: “Ma come ti permetti di arrabbiarti? Hai appena teorizzato che il libero arbitrio non esiste, quindi io sono obbligato a farlo”. Noi dobbiamo necessariamente muoverci come se la libertà esistesse, anche ammesso che i neuroscienziati arrivino a un accordo su un punto, e io non sono affatto sicuro che questo possa essere vero. 

 
Ci sono vari modi di intendere il tema della libertà, alcuni molto minimalisti. Si parla del “liberale eroico”, ma forse è più eroico quello che in un posto dove non c’è nessun tipo di libertà alza il dito e dice che non è d’accordo. Il liberale non è necessariamente eroico, perché in realtà vuole semplicemente che vengano posti dei limiti all’azione arbitraria e violenta degli altri. Quello che ne risulta è la libertà? No: è una cosa che possiamo per convenzione chiamare libertà, ma che certamente ha mille limitazioni e vincoli. Come dice il “Federalist”, abbiamo bisogno di una serie di istituzioni di un certo tipo perché non siamo angeli: lo fossimo, non avremmo nemmeno il bisogno di porci il problema della libertà. Siamo continuamente alle prese con la possibilità che qualcuno più forte di noi, che ha il denaro, il potere o le risorse di violenza, ci colpisca. 

  

A un certo punto  Pannella va per un’altra strada. Però era anche il modo in cui ragionavano i maestri di Pannella. Alla fine si tratta di una cosa molto prosaica, una libertà con la minuscola. Non c’è da nessuna parte lo stato di diritto perfetto o la “rule of law”, sono aspirazioni. Nella realtà trovi mille violazioni pratiche

  
Questo naturalmente è anche un modo piatto di intendere la libertà: a un certo punto Marco Pannella ritiene di non starci più dentro e va per un’altra strada. Però era anche il modo in cui ragionavano i maestri di Pannella. Alla fine si tratta di una cosa molto prosaica, una libertà con la minuscola. Mentre Marx insegue la libertà con la maiuscola. Non c’è da nessuna parte lo stato di diritto perfetto o la “rule of law”, sono aspirazioni. Nella realtà trovi mille violazioni pratiche.

   
Per quanto riguarda il problema del cristianesimo io credo che qui ci sia un rapporto tra sordi. All’atteggiamento liberale di chiusura a oltranza ha corrisposto una chiusura altrettanto forte dall’altra parte. C’è tutto un mondo cattolico che non ha mai valorizzato i cattolici liberali – e anche i liberali non l’hanno fatto: De Gasperi quando lesse la “Storia d’Italia” lamentò il fatto che Benedetto Croce avesse trattato con sufficienza, se non con disprezzo, i cattolici liberali. Però questo avviene anche all’interno della Chiesa. Quindi non solo i liberali non hanno mai colto bene che se ci si muove in un paese pluriconfessionale, si hanno certe possibilità per rivendicare spazi di libertà; se ti muovi in un paese monoconfessionale devi muoverti in modo diverso. Non puoi fare il liberale americano a Roma. Naturalmente è anche vero che per un lungo periodo, negli anni Cinquanta i liberali facevano il loro mestiere andando contro certe posizioni clericali molto soffocanti. All’epoca l’adulterio implicava condanne penali, stiamo parlando di un’epoca molto pesante.

  
Poi, molto tempo dopo, succede che il concetto di individuo viene in qualche modo tirato e stirato oltre un certo livello. Anche se so bene che appartengono a tradizioni culturali diverse, tendo a non tenere distinto il concetto di individuo dal concetto di persona. So bene che dietro la “persona” c’è il cristianesimo e la filosofia greca, mentre dietro l’“individuo” c’è il pensiero liberale. Ma se si va verso l’estremizzazione dell’individualismo come se avesse a oggetto una sorta di atomo che non interagisce con gli altri, allora bisogna tenere distinte radicalmente le due cose. Se invece si assume che l’individuo esiste per il semplice fatto che ha interagito con altri individui e che non può assolutamente fare a meno del rapporto con altri individui, allora c’è la possibilità di tenere insieme queste due tradizioni.

  
Questo per dire che fino a quando i diritti civili erano semplicemente la rivendicazione di una responsabilità individuale davanti alle scelte, questi potevano stare insieme a un rapporto con la comunità, cioè con gli altri individui. Poi qualcosa cambia, non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale. Secondo me il posto da cui partono queste cose è la California, poi sei mesi dopo arrivano a New York, e quattro mesi dopo sono arrivate anche a Palermo. Un cambiamento che certamente è figlio di quella cosa lì, però non è necessariamente quello che si immaginava e si voleva: l’individuo irresponsabile, che dice che i suoi diritti vengono prima del rapporto con gli altri. Questo cambiamento scassa anche quel sistema liberale di cui dicevo prima perché va a travolgere quel minimo di ostacoli che si sta cercando di porre alla sopraffazione e alla distruzione di quel poco di libertà che ciascuno riesce a garantirsi in questa vita.

  
E’ un problema di equilibri, e se arriviamo alla traduzione pratica, la cosa diventa molto difficile in un paese in cui questa tradizione è sempre stata debole. Una debolezza che c’era anche prima. Teodori ha sempre sostenuto, e ha ragione, che i piccoli partiti liberali qualcosa di importante lo hanno fatto, però dobbiamo sempre dire che erano piccoli. Un mio amico mi ha ricordato che suo padre, che era un repubblicano storico, diceva sempre: “Siamo quattro gatti, speriamo di non diventare tre”. E lo diceva negli anni Cinquanta-Sessanta. Nel nostro paese la cosa è stata più complicata che altrove, anche se perlomeno qui si può dire che certe istituzioni che dovrebbero garantire un po’ di libertà sono più deboli che altrove. Laddove sono più forti e si verificano queste degenerazioni, il problema diventa particolare: infatti gli americani più intelligenti sono molto angosciati da certe degenerazioni che mai immaginavano e che certamente i Padri fondatori non avrebbero mai pensato. 

 

Massimo Teodori

Vorrei riprendere il filo secondo il dialogo che Angelo e io abbiamo intrattenuto in questo tentativo di confronto a quattro mani non incrociate, ma tra loro dialettiche. Do qualche sciabolata. La prima: noi non ci occupiamo per nulla di neuroscienze, di dottrine, di storia delle dottrine e di altre cose del genere. E molto marginalmente, direi quasi per nulla, di pensiero liberale. Noi ci occupiamo della storia della Repubblica e di ciò che le forze chiamiamole liberali – ma questa è una grande famiglia, meglio usare il termine “liberaldemocratico”, che è un’eccezione rispetto a quello liberale – hanno svolto nella storia della Repubblica rispetto alle grandi famiglie che hanno tenuto banco dal 1945 a oggi: la famiglia comunista e postcomunista, e la famiglia cattolica.

 
Di questo si occupa questo libro, soprattutto per quel che mi riguarda, in relazione alla mia biografia: quella di una persona che per sessant’anni è stata un “animale politico”, per tre quarti della sua personale, del suo tempo, delle sue energie e del suo pensiero. Quindi una storia della Repubblica, non storia del pensiero liberale, che compare solo sullo sfondo.

   

C’è un punto che ho ripetuto molto chiaramente negli ultimi venti-trent’anni: la svolta sciamanica di Pannella è stata una sciagura per la Repubblica oltre che per sé stesso. C’è stato un momento in cui la Repubblica andava alla deriva e le famiglie politiche tradizionali, tutte a eccezione di quella comunista e di quella neofascista, venivano annullate, cancellate o facevano harakiri. Pannella era un personaggio che negli anni Settanta e solo negli anni Settanta aveva svolto un ruolo incisivo nella storia della Repubblica, tant’è vero che tutte le cose che si ricordano del mondo radicale di Pannella sono quelle degli anni Settanta.

 

Ebbene, nel momento in cui Pannella poteva arrivare ad avere una funzione di leader e raccogliere tutto quello che veniva massacrato dall’assalto da destra, da sinistra e dalla magistratura, invece si ripiegò su sé stesso a fare delle cose che hanno assunto sempre di più un carattere ridicolo. Quindi diciamo molto chiaramente che quella che definisco svolta sciamanica di Pannella è stata una sciagura, non per il pensiero, ma per la storia della Repubblica, che da quel momento in poi non ha avuto più nessun rappresentante della variegata famiglia liberale, liberal-democratica, laica eccetera. Non c’è rimasto più nulla, ed è da quel momento che sono esplosi i populismi e i sovranismi. Tra le due cose c’è una correlazione molto stretta: il mondo liberale, liberal-democratico, riformatore occidentale è stato abbattuto dalle due famiglie dell’estrema destra e da quella che era l’estrema sinistra, comunisti e post comunisti, e in quel momento c’è stata l’esplosione del populismo, che prima ha ricevuto il suo carattere dalla magistratura, dal sistema giudiziario, con Tangentopoli. Quello è il padrino del populismo.

 

Il populismo non nasce con la Lega e con i Cinque stelle, ma nasce nel ‘92-93 con Tangentopoli. Quando dico che Pannella è stata una sciagura – in quel momento, non intendo la gloriosa epopea dei radicali fino agli anni Ottanta - non penso alle sorti personali o di gruppo, penso alle sorti del paese. Ditemi voi che cosa è rimasto dal ‘93-94 di una storia gloriosa che andava avanti dall’antifascismo alla Costituzione e in avanti, pur essendo storia di gruppi fra di loro divisi, invidiosi l’uno dell’altro, individualisti.

  
In questo libro affrontiamo il problema ognuno dal proprio punto di vista: quello di Angelo evidentemente è diverso dal mio, come diversa è la sua storia personale. Anche se le nostre storie per trent’anni sono andate molto insieme. Nel ‘76 abbiamo scritto un libro a quattro mani, abbiamo fatto una rivista, la nostra consuetudine amicale è stata una consuetudine di grande parallelismo e affinità elettiva sotto ogni aspetto. Ma quello di cui qui ci occupiamo è la parabola della Repubblica. Il filo rosso che viene esplicitato soprattutto nell’ultima parte del libro – i giudizi personali qualche volta su singoli episodi divergono, ma nella maggior parte dei casi sono abbastanza convergenti – è che la decadenza della vita pubblica e politica italiana è data negli ultimi venti o trent’anni dalla scomparsa di questo filone, di questa famiglia politica. In concreto, non nel pensiero o nella dottrina, ma nell’incidenza della vita pubblica e politica italiana. Ed è contemporaneo l’emergere di un’altra forza fortissima, quella di populismo e sovranismo. Questo è accaduto in Italia e in tutto l’occidente, ma la differenza fra l’Italia e la Francia o la Germania, e non parliamo dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, è che lì sono rimaste delle forze presenti e attive di contrasto del populismo. Magari si alternano, magari vanno sotto, ma la scelta continua a esserci. Nel resto dell’occidente sono rimaste delle forze liberal-riformatrici, anche se con caratteristiche diverse… Macron sostanzialmente è questa cosa, come come per altri versi il socialismo riformista di Germania o  Spagna. In Italia non è rimasto nulla di tutto questo, mentre per la prima volta in un paese occidentale alle elezioni del 2018 le forze populiste, Lega e Cinque stelle, hanno conquistato la maggioranza parlamentare con una grande presa diretta sul paese.

  
Sui problemi che ha sollevato Ferrara io sono d’accordo, sono contrario alla tecno-biologia, chiamiamola così. Sono un laico ma non trinariciuto, sono un “separatista” nella tradizione cavouriana. E poi la Chiesa con la gerarchia ecclesiastica è una cosa, il mondo cattolico è un’altra. In Italia dobbiamo sempre capire chi abbiamo di fronte: la chiesa con la sua gerarchia e le sue interferenze negli affari politici, o il mondo cattolico in tutte le sue sfumature? Sfumature che vanno da quelle più illiberali, che poi sono quelle di sinistra di ascendenza dossettiana, a quelle cattoliche la cui ascendenza da De Gasperi esaltiamo nel libro. Sono il primo a dire che il periodo migliore della storia italiana è stato quello degli anni Cinquanta, quando De Gasperi ha resistito all’attacco clericale di Luigi Gedda e di altri come lui, e ha resistito grazie al sostegno di quei quattro gatti sgangherati che erano liberali, repubblicani e socialdemocratici. E poi, se siamo entrati nell’alleanza occidentale, lo dobbiamo a un grande personaggio del socialismo riformista come Giuseppe Saragat, una figura di primo piano nella storia dell’anticomunismo italiano. 

  
Non è vero quello che una vulgata storiografiche pubblicistica debordante in Italia ritiene: che la Costituzione è stata fatta solo dai cattolici e dai comunisti. Adesso non parliamo di quali altre parti ci fossero, ma c’era un’impronta di quel mondo “terzoforzista”, un mondo abbastanza precedente nella storia culturale italiana. Tant’è vero che il nemico culturale di Togliatti, contro cui il leader del Pci si è scagliato per anni, era proprio il mondo laico terzoforzista, era Benedetto Croce, a cui Togliatti dedicava tutti i corsivi sulla sua Rinascita.

  
Questo libro vuole innanzitutto guardare all’interno delle nostre storie, a che cosa hanno significato: le storie individuali contano se sono inserite in dimensioni più ampie. Come questa “famiglia” in concreto ha inciso nella storia repubblicana e perché dalla stessa storiografia è stata sempre messa da parte, emarginata: questo è il punto fondamentale di questo libro. Che si chiude poi con questo interrogativo: è possibile oggi, con tutte le riforme possibili e immaginabili, con tutto ciò che è necessario rivedere, l’esistenza della democrazia liberale in occidente di fronte all’assalto del  populismo e del sovranismo? Questo è il nodo. 

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