La febbre

La "draghite", il premier non apprezza che si faccia abuso del suo nome

Carmelo Caruso

Sempre distante dai partiti, Draghi mal sopporta che si parli di "area Draghi". I partiti che vogliono preparare il loro futuro devono farlo senza di lui

Lo “usano” e ne abusano. Devono adesso spiegare cosa intendono per “noi siamo draghiani”, “occupiamo l’area Draghi”. Cosa vogliono dire? Cosa vogliono fare? E’ scattata la corsa a brevettare uno stile che non vuole essere replicato in serie e neppure commercializzato alle prossime elezioni. Si sta facendo un largo consumo del cognome “Draghi” e non c’è bisogno di attribuire un certo fastidio a Palazzo Chigi o a fonti di governo. “Draghi” è di Draghi.  Bastano le sue passate dichiarazioni per parlare di un malessere.


C’è una febbre che sta salendo e che deve essere adesso misurata, controllata. Non c’è solo Luigi Di Maio che, “in nome di Draghi”, ha costruito una sua formazione che dovrà guadagnarsi un consenso, costruire un’agenda che vada oltre al “siamo atlantisti, siamo con l’Ucraina, siamo con Draghi”.

 

Nelle scorse settimane c’è stata un’eccessiva libertà nel maneggiare il “marchio” Draghi anche da parte di Matteo Renzi che sta cercando una nuova collocazione al centro. Tutti possono riconoscersi in una lingua, in una maniera. Non si può certo impedire a chi legge Manzoni di definirsi “manzoniano” o a chi ama Sciascia di dirsi “sciasciano”. Ma, a volte, il fenomeno assume i contorni della malattia. Giovanni Russo, un amico di Ennio Flaiano, l’aforista più citato quanto poco letto (riprendetevi, ma sul serio, il “Frasario essenziale per passare inosservati in società”, Henry Beyle) l’aveva chiamata, nel caso in questione, “flaianite”. E’ diventato addirittura un sostantivo: “Tendenza a citare o ad attribuire, talvolta anche a sproposito battute dello scrittore Flaiano”.

 

Qualcosa di simile sta accadendo con Draghi. E’ la draghite. Chiunque abbia avuto modo di occuparsi in questi anni di lui sa che Draghi non sopporta che gli vengano attribuiti pensieri che non siano suoi discorsi diretti. Chi ha scritto libri su Draghi  si è sempre cautelato chiedendo una revisione concordata. La presa di posizione del premier, nei mesi scorsi, quando circolava con insistenza la possibilità di un suo eventuale futuro in politica, serviva a pulire l’aria da illazioni ma era anche un modo per tutelare il suo cognome, il suo patrimonio.

 

La fiducia degli italiani nel suo operato, secondo i sondaggi altissima, viene motivata dalla distanza dai partiti e dalla sua “severità” nei momenti drammatici. Esemplare è stato l’intervento alla Camera quando ha “redarguito” gli strateghi al mascarpone, quelli che per il premier non “vogliono che l’Ucraina non si difenda, perché la Russia è troppo forte, lasciamo che la Russia entri, lasciamo che l’Ucraina si sottometta”.

 

Draghi sta assistendo a una scomposizione politica a sinistra, e non si esclude neppure a destra, ma da osservatore e tale vuole restare. Apolidi, homeless dell’identità hanno compreso che quelle sei lettere D-r-a-g-h-i rappresentano il solo biglietto da visita per accedere al nuovo tempo salvo trascurare che nel nuovo sarà Draghi a decidere se e come vuole entrarci.

 

E’ un problema di domanda e offerta politica, ma credere di coprire questo sfascio di idee, servendosi di chi, come Draghi, non vuole fare politica è la testimonianza di una resa. E’ una soluzione per non riflettere. Il Pd è chiamato, ad esempio, a rispondere a una domanda decisiva:  c’è ancora una ragione per cercare l’alleanza con Conte, il Perelà del M5s, l’uomo di fumo?

 

E’ bene che tutti i nuovi partiti che nasceranno siano davvero “insieme per il futuro” semplicemente e che non facciano abuso di Draghi. Russo, l’autore della “flaianite”, a tutti quelli che gli chiedevano “ma oggi Flaiano cosa direbbe?”, rispondeva che Flaiano, che aveva da dire su tutto, oggi che straparlano tutti, si sarebbe difeso non dicendo nulla. 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio