Damiano Tommasi (Ansa)

Verso le amministrative

Il campo largo di Tommasi a Verona per sfidare gli "sceriffi" del centrodestra

Marianna Rizzini

Candidato sindaco, l’ex calciatore corre da indipendente, con l’appoggio di Pd e altre liste, contro Tosi e Sboarina. L’ambizione di far tornare i giovani alla politica e di ridare fiducia alla città

Loro – i leader dei partiti di centrosinistra – volentieri si farebbero fotografare con lui, Damiano Tommasi, candidato sindaco di Verona ed ex calciatore che, all’età di 48 anni, di vite ne ha già vissute almeno tre: da promessa mantenuta dello sport a genitore (sei figli) a uomo impegnato nel sociale, a fondatore di una scuola di modello “Don Milani”, ma internazionale. E se il segretario del Pd Enrico Letta, arrivando a Verona, qualche giorno fa, ha magnificato, da una piazza con mercato, “il Veneto che guarda al dopo”, in assenza però di Tommasi (che accetta naturalmente l’appoggio, ma con il vezzo o la volontà di apparire più civico possibile), Giuseppe Conte si è recato in città per sostenere l’uomo con qualche giro di parole (“non ci sarà il nostro simbolo ma speriamo i nostri due candidati possano dare un contributo”, ha detto il leader del M5s).

 

E la sfida è lì, nella città di Giulietta e Romeo e ora della lotta “tra Montecchi e Capuleti a destra”, scherza un osservatore veronese, alludendo alla scelta del sindaco uscente e ricandidato Federico Sboarina, un anno fa, di aderire a Fratelli d’Italia, e adesso di correre sostenuto da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini, mentre Forza Italia e i moderati appoggiano l’ex sindaco Flavio Tosi, scelto anche da Italia Viva di Matteo Renzi. Qualcuno aspetta il ballottaggio, qualcuno vuole osservare al varco il “campo largo” immaginato da Letta: Tommasi infatti si presenta come indipendente, con attorno un’alleanza composta dal Pd e da varie liste, tra cui quella di Azione e Più Europa, Europa Verde, le sinistre (in città è giunto anche il leader di SI Nicola Fratoianni) e il nucleo delle civiche. 

 

Eppure il candidato si tiene lontano dagli appuntamenti che abbiano connotazione molto partitica, e coltiva invece un’attitudine post politica, pur restando attivo nel sociale come quando era centrocampista, lodato anche da Carlo Verdone in “Vita da Carlo”, come ha ricordato Stefano Lorenzetto sul Corriere della Sera, nella scena in cui l’attore, parlando con Massimo Ferrero detto “Er Viperetta”, inanella la sequela di giocatori e allenatori solitamente nominati quando si nomina la Roma – e perché mai si dovrebbe dimenticare Tommasi, dice Verdone, alludendo a colui che era in campo quando la Roma ha vinto lo scudetto, nel 2001, prima e dopo la carriera nell’Hellas e nella Nazionale. 

 

E oggi non è certo il lontano 1993, quando un Tommasi diciannovenne, contrario alla leva militare, approdò come obiettore di coscienza alla Caritas (che a sua volta lo mandò a Telepace, fondata da monsignor Guido Todeschini, non per niente grande sostenitore dell’ex calciatore, definito da sempre  “ragazzo semplice”). E non è neanche il 2018, anno in cui Tommasi, già presidente dell’Associazione italiana calciatori, si candidò, “sicuro di non vincere”, così disse, alla presidenza della Federcalcio. Stavolta, cioè oggi, l’ex calciatore ha invece la sicurezza di essere in ottima posizione, intanto per il probabile ballottaggio, sostenuto com’è da una compagine trasversale di imprenditori e professori, cattolici e no, e da giovani e meno giovani attirati da quello che Letta ha chiamato “il suo voler parlare di domani”. E domani, cioè intanto oggi, Tommasi, dalla sede del comitato della sua “Rete!”, ha spiegato che per lui fare politica non significa giocare sulle “emozioni” e “sullo slogan più efficace negli ultimi due giorni prima del voto”.

 

Non sono fatto così, ha detto. Voglio prima parlare con le persone, farle lavorare insieme. Detto e fatto, tanto più che Enrico Letta, due mesi fa, gli aveva consigliato di essere se stesso: “Sei una persona che ha raggiunto importanti traguardi, i cittadini di Verona sceglieranno la persona e quella persona sei tu” (gli sportivi, a Verona e a Roma, ricordano intanto al cronista che Tommasi è quello che quando si è infortunato ha chiesto una paga sindacale da 1.500 euro al mese in segno di gratitudine per la squadra che lo aveva aspettato). 

 

“Sii te stesso” l’avevano detto, a Tommasi, anche quando, nel 2009, il centrocampista aveva deciso di accettare l’offerta del Tianjiin Teda, squadra che giocava nel campionato cinese, e chissà se quello è stato anche il passaggio definitivo di vita e di carriera: dall’anno dopo Tommasi, tornato a Verona, ha abbandonato il professionismo in campo per passare al “dietro le quinte”. E dietro le quinte sembra muoversi anche adesso che è in prima linea, e fa “campagna elettorale come se non la facesse”, scherza un conoscente, sottolineando “l’attitudine e l’abitudine di Damiano di far parlare, più che se stesso, i temi a cui è legato”. E cioè, in questo caso, quelli sviscerati negli undici tavoli programmatici. Primo tra tutti: far tornare i giovani alla politica, ambizione del candidato sindaco nella città dove ci si è trovati, prima rispetto ad altre zone d’Italia, a dover gestire il fenomeno delle baby gang. “Verona deve lavorare sulla sua autostima”, dice Tommasi quando gira per la città. Che cosa voglia dire l’ha detto, il candidato, ai politici che lo sostengono: Verona si sottovaluta, ha doti economiche importanti. Anche Tommasi si sottovaluta, dicevano a inizio anno nel Pd, quando il balzo in avanti in politica non era certo ma loro, i dem, erano certissimi che quello dell’ex giocatore fosse il profilo giusto per mettere alla prova il campo largo lettiano. Anche perché Tommasi non è digiuno di trattative e diplomazie, essendo stato l’ex sindacalista dei calciatori che un giorno ha minacciato di fermare il campionato a monte della firma sul contratto collettivo della categoria, anche se il rischio era di essere considerato un Robin Hood al contrario che difende i ricchi da altri ricchi. Fatto sta che quella fase ha invece fatto emergere il Tommasi possibile papa straniero di altre battaglie, specie in epoca post-populista, anche per via del suo diverso modo di porsi quando era calciatore e si dissociava dai calciatori schiavi dei tifosi: “La violenza sugli spalti, in campo, negli spogliatoi, in sala stampa, e gli insulti, i cori razzisti e gli striscioni mi amareggiano enormemente. Non vale la pena vivere solo per il calcio”, diceva quando i compagni lo chiamavano “anima candida” e “chierichetto”, vista la religiosità ma anche l’impegno nelle campagne contro il razzismo, il doping, la slealtà. 

 

E in effetti Tommasi, nato a Negrar, alle pendici dei monti, e marito di una donna conosciuta a scuola quando aveva quindici anni, non ha vissuto solo per il calcio, tantomeno oggi, che con sua moglie gestisce la Don Milani Bilingual School e intanto prova a far dialogare i solitamente inconciliabili Carlo Calenda e Giuseppe Conte. Da ragazzo, chiamato nelle giovanili del Verona, si è trovato a dover attingere a una prematura forza di volontà per andare bene a scuola, come da richiesta della famiglia, stando però lontano dal controllo familiare, viste le tante trasferte. Suo padre Domenico lavorava il marmo, e la tenacia, dice un amico, “gliel’ha insegnata lui, abituato alla durezza della pietra”. Diventato più volte genitore, Tommasi non ha inseguito la perfezione del voler fare per forza tutto tutti insieme, viste anche le età diverse dei sei figli (che però si riuniscono rigorosamente a tutti i compleanni di fratelli, zii e parenti). Intervistato dall’Arena, alla domanda sul perché tante coppie non seguissero quel modello, ha spiegato la sua visione: “Oggi l’aspetto economico orienta le scelte. Se ho tre figli non posso andare in vacanza, mi deprimo. Idem quando non riesco a garantirgli lo smartphone, il tablet e un abbigliamento all’altezza delle loro aspettative. Inoltre non si procrea perché è più facile lasciarsi, quando non c’è di mezzo la prole”.

 

Tuttavia Tommasi è anche paladino dei “diritti” nel senso di: ognuno è libero di pensarla come vuole su famiglia e famiglie. Né è necessariamente buonista, tanto che quando gli chiedono se sia favorevole a fissare un tetto per i compensi dei calciatori risponde che allora bisognerebbe stabilire anche se sia giusto che nel mondo esistano persone che hanno quattro case e altre che dormano per strada. 

 

Il resto è storia di una famiglia, la sua, in cui per molti anni Tommasi tornava a casa il lunedì, dopo la partita, ma dopo gli allenamenti e i gol trovava il tempo per progettare con la moglie Chiara e una coppia di amici d’infanzia la scuola la cui chat collettiva ha il nome evocativo di “soci di sogni” e i cui metodi, dicono a Verona, “sono molto anglosassoni”, pur nella vicinanza alla Valpolicella. Oltre al bilinguismo, nell’istituto viene coltivato il rapporto non evidente tra robotica e arte, e tra educazione emotiva e tecnologia, il tutto con lavagne multimediali e tende avveniristiche usate anche nella fase post lockdown per garantire lezioni all’esterno, nella speranza di poter mantenere nei mesi difficili la “classe infinita” a distanza (“classeinfinita.com” è infatti la piattaforma in cui si sperimenta una didattica “in continua evoluzione” per aiutare “lo spirito critico e il lavoro collettivo” per un’istruzione anche virtualmente presente tutti i giorni). Tutti i giorni, in ogni caso, i coniugi Tommasi si confrontano come coppia che è tale dal giorno di fine anni Ottanta in cui lui ha sorriso a lei dal terzo banco e lei ha ricambiato dal secondo. Sono seguite alcune timide chiamate dal telefono di casa, quello con i primi pulsanti automatici, in tempi in cui non esistevano i cellulari, e poi altri ancor più timidi appuntamenti pomeridiani. E’ stata lei a dirgli,  dopo qualche anno: a un certo punto o ci si sposa o ci si lascia. Era il 1996: si sono sposati e mai più lasciati. 

 

Più di mezzo secolo dopo, nel gennaio del 2022, Damiano Tommasi ha deciso di sfidare quelli che vengono scherzosamente chiamati, dai detrattori, “gli sceriffi” (Tosi e Sboarina). Mia moglie, ha detto al Corriere della Sera, non tifa per l’elezione. Nessuno ci crede, naturalmente. Intanto lui, il candidato, solleva i cerchi gialli di cartone, logo della sua “Rete!” e va incontro al 12 giugno con spirito sereno: “La mia proposta per Verona è l’unica credibile dopo quindici anni di declino”. E gli altri, dice, cioè i partiti che lo sostengono, hanno “deposto le bandierine identitarie”. 

 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.