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L'editoriale

Sugli abusi del clero verità senza pregiudizi: bel colpo, caro Zuppi

Giuliano Ferrara

La guerra culturale continua, ma per la prima volta da vent’anni una impegnativa decisione della Chiesa sul contrasto al fenomeno non si presenta come una resa al mondo secolare

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Il segnale dato da Matteo Zuppi, appena eletto capo dei vescovi italiani, è nuovo, preciso, clamoroso. Per la prima volta da vent’anni, visto che con questo secolo partì da Boston (2002) la campagna generalizzata contro gli abusi sessuali del clero cattolico, una impegnativa decisione della Chiesa sul contrasto al fenomeno non si presenta come una resa al mondo secolare. La Chiesa in questi due decenni ha fatto molto, ha diradato con atti concreti e pertinenti la zona grigia tra cura d’anime e autotutela dei preti, ha reso i vescovi e il Vaticano responsabili di una linea di ascolto e di favore alla denuncia, di testimonianza aperta e presa in carico da parte delle autorità di giustizia secolari degli abusi, trattati in modo sistemico come reati e non soltanto come peccati; non si contano i riconoscimenti dello scandalo, le scuse piene di vergogna alle vittime, da parte di cardinali, vescovi e papi, in particolare con gli appelli all’espiazione e gli incontri con gli abusati di Benedetto XVI; non si contano le azioni ecclesiastiche di rettifica di norme, costumi e abitudini relative alla formazione del clero, fino alla eliminazione del segreto pontificio decisa da Francesco.

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Il segnale dato da Matteo Zuppi, appena eletto capo dei vescovi italiani, è nuovo, preciso, clamoroso. Per la prima volta da vent’anni, visto che con questo secolo partì da Boston (2002) la campagna generalizzata contro gli abusi sessuali del clero cattolico, una impegnativa decisione della Chiesa sul contrasto al fenomeno non si presenta come una resa al mondo secolare. La Chiesa in questi due decenni ha fatto molto, ha diradato con atti concreti e pertinenti la zona grigia tra cura d’anime e autotutela dei preti, ha reso i vescovi e il Vaticano responsabili di una linea di ascolto e di favore alla denuncia, di testimonianza aperta e presa in carico da parte delle autorità di giustizia secolari degli abusi, trattati in modo sistemico come reati e non soltanto come peccati; non si contano i riconoscimenti dello scandalo, le scuse piene di vergogna alle vittime, da parte di cardinali, vescovi e papi, in particolare con gli appelli all’espiazione e gli incontri con gli abusati di Benedetto XVI; non si contano le azioni ecclesiastiche di rettifica di norme, costumi e abitudini relative alla formazione del clero, fino alla eliminazione del segreto pontificio decisa da Francesco.

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Su questioni decisive la Chiesa aveva però mostrato una timidezza eccessiva e perfino uno spirito di resa a quella che si profilava non tanto come ansia di giustizia quanto come una guerra a sfondo ideologico. Questa guerra culturale era ed è condotta con mezzi impropri in un circuito mediatico e giudiziario privo di elementari garanzie liberali, alimentato da quel cancro demagogico che è la inesistente “giustizia delle vittime”, cioè dei comitati e delle organizzazioni capaci, per ragioni culturali o di interesse risarcitorio, di trasformare dolore e comprensibile ansia dell’opinione pubblica, dentro e fuori la Chiesa, in un baccano giustizialista. A questo si aggiungeva regolarmente il tentativo di promuovere la riforma del modo di essere della Chiesa e del clero con il mezzo devastante del sensazionalismo e dello scandalo morale e penale.

 

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Cardinali, vescovi e preti sono caduti come birilli nella decimazione secolarista e anticattolica, e nessuno per esempio ha pagato per la gogna e i tredici mesi di carcere inflitti al numero due o tre del Vaticano, il cardinale Pell, per accuse risibili, perfino grottesche, poi rivelatesi per tali. Le riabilitazioni degli innocenti sono state monche, cautelose, parziali. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, la Chiesa si è fatta mettere in fuga o in ginocchio molto al di là delle sue chiare omissioni e colpe.

 

Alla base di questa fuga orante dalle responsabilità c’era qualcosa che le decisioni di Matteo Zuppi a nome dei vescovi italiani vanificano. Mentre la Chiesa faceva il possibile per lenire la ferita, denunciare i fatti e aprirsi alla trasparenza, delegando giustamente al diritto civile e penale la gestione dei reati, e combattendo la chiusura degli apparati diocesani, si diffondeva l’idea che solo strutture e commissioni indipendenti, del laicato estraneo alla gerarchia, fossero autorizzate a ricercare e stabilire la verità, e che la verità era definibile con metodi sociologici, psicologici, giuridici, teologici e filosofici in base a ricognizioni statistiche, spesso sfornite della minima qualità probatoria, proiettate su quasi un secolo, settant’anni almeno, di abusi potenziali.

 

A queste commissioni promosse e finanziate dalla gerarchia, ovviamente, era demandato anche il compito di rappresentare pienamente il popolo di Dio, che è il corpo della cattolicità, nelle richieste di riforma del modo di essere della sua casa. Il nuovo presidente della Cei ha invece detto: siamo seri, facciamo il dovuto, manteniamo la nostra autonomia, scegliamo una via italiana all’accertamento e stabiliamo regole e limiti temporali all’indagine che abbiano consistenza e coerenza con procedure di ricerca della verità non contraffatte dal pregiudizio. Bel colpo, e auguri, perché la guerra culturale continua in tutto il mondo  e non sarà facile che la via italiana si affermi come il nuovo modo di aprirsi al dolore delle cose senza lasciarsene sopraffare per ragioni ideologiche e demagogiche.

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