Il ricordo

Il tempo lungo di Ciriaco De Mita

Marco Damilano

Maniaco della puntualità, fu del partito “del fare più lento e sicuro”, per questo non s’intendeva con Craxi. Il demitismo, un raffinato pensiero politico coniugato alla più attenta pratica del potere

Con questo articolo, Marco Damilano inizia la sua collaborazione con il Foglio.
 

Era un maniaco della puntualità. Quando arrivava in un luogo, scendeva dalla macchina, alzava il polsino della giacca e mostrava l’orologio per far vedere che aveva spaccato il minuto. Per Ciriaco De Mita, come per Aldo Moro, era prima di tutto una questione di tempo. Il tempo che è la misura esatta della politica, come dell’esistenza. Epici, infatti, i suoi scontri nei congressi con la presidenza dell’assise di turno che lo richiamava a rispettare i tempi dell’intervento, invano. Da segretario della Dc, nel 1984, lesse una relazione di trecento pagine per cinque ore. Poi, nella replica, fu più asciutto. Minacciò il leader della Cisl Franco Marini che lo aveva attaccato: “Se continui così, caro Franco, non interesserai più i democratici cristiani”. E provocò una rissa durata nove minuti, con un delegato, Quaglini Federico di Varese, sollevato dai facinorosi e agitato sulla platea come un oggetto contundente, scaraventato addosso al fronte avversario.


Il tempo maledetto o benedetto. Il tempo “che ci è stato dato da vivere”, predicava Moro, che non può essere rallentato o accelerato, non può essere evitato, saltato, che può essere soltanto vissuto, fino in fondo, con tutte le sue difficoltà. Per questo De Mita aveva sempre detestato i politici veloci, fin troppo rapidi, “uno che si cambia sempre il vestito non ha il tempo di pensare”, e le promesse di decisioni definitive, “se illudi la gente che i problemi saranno risolti in poco tempo, la realtà ti dimostrerà che non è così”, e l’immediatezza, la politica senza mediazione, e senza tempo. Per questo, era destinato a scontrarsi con Bettino Craxi. Tra i due partiti in cui secondo Benedetto Croce si dividevano gli italiani, “il partito del fare rapido e arrischiato, e l’altro del fare più lento e sicuro”, negli anni Ottanta Craxi aveva incarnato il primo, De Mita il secondo. Entrambi gareggiavano per rappresentare l’Italia della seconda modernizzazione, dei ceti medi innovativi, produttivi e rampanti, entrambi avevano inchiodato il Pci alla conservazione, provando nei vari frangenti a utilizzarlo o a svuotarlo, entrambi erano usciti dalle aree tradizionali di consenso per comunicare direttamente con l’elettorato di opinione: De Mita aveva scelto la Repubblica di Scalfari, Craxi le tv di Berlusconi. E entrambi erano arrivati alla fine del decennio estenuanti, paralizzati, entrambi sconfitti ben prima dell’uscita di scena.

 

“Non volevo governare. Volevo organizzare la rappresentanza politica”, disse in uno degli ultimi incontri pubblici, all’università di Salerno nell’autunno del 2019. E raccontò che, invece, gli era capitato di guidare il paese e da presidente del Consiglio aveva incontrato Mitterrand, Kohl e Gorbaciov. “Mitterrand mi chiese perché fossi un democristiano, dato che la pensavo come lui. Kohl mi anticipò l’unificazione delle Germanie. L’incontro con Gorbaciov fu l’evento più straordinario della mia vita. Parlammo di comunismo. ‘L’uomo senza spiritualità cos’è?’, mi chiese. La moglie disse che amava la canzoni napoletane e lui si stese in macchina e accennò ‘Dicitencello Vuie’”. Era il 1989, la parte dimenticata dell’anno cruciale, il tempo sospeso che anticipava il cambiamento. Alla vigilia del passaggio epocale, De Mita perse tutto nel giro di tre mesi, a febbraio lasciò la segreteria della Dc, a maggio cadde il governo. Al posto suo, la Dc scelse Forlani e Andreotti. E, senza accorgersene, terminò la sua funzione, prima della caduta del Muro, di Maastricht e di Tangentopoli, così come era successo nello stesso periodo a Craxi.


Per otto anni era stato “O’ padrone ‘e l’Italia”, come lo definisce senza giri politologici in “FF.SS. - Cioè: ...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?” nella parte dell’impresario Onliù Caporetto, originario di Nusco. Il paese nativo, il luogo dello spirito: “Il mio indirizzo? Ciriaco De Mita-Nusco…”, tipo il Papa e il Vaticano, Elisabetta e Buckingham Palace. “Ricordati. Primo: non confondere la politica con il desiderio. Secondo: nei momenti di difficoltà ritirati dove sei più forte. Se è la tua regione, fai il leader regionale. Se è la tua città, fai il sindaco. Se non sei forte da nessuna parte, torna a casa da tua moglie. E aspetta”. Il luogo, il tratto identitario per il leader venuto su da solo in quell’ascensore sociale di massa che erano i partiti della Prima Repubblica. Il padre sarto, i dieci figli, gli studi all’università Cattolica vantati dagli agiografi negli anni belli, l’incontro con la cultura laica, leggeva il Mondo e l’Espresso e intanto costruiva una macchina politica in grado si sbaragliare il suo antico padrino politico, il ministro Fiorentino Sullo, l’uomo della mancata riforma urbanistica del centrosinistra negli anni Sessanta. Nel 1958 Sullo aveva fatto mancare a De Mita cinquemila preferenze decisive per essere eletto deputato, nel 1969 il capo quarantenne ricambiò la cortesia. Le cronache riferiscono di Sullo che girava il collegio a bordo di una Maserati 3500 Sebring di colore blu per vincere il congresso della Dc provinciale in cui si giocava tutto, tra bandierine sulle 167 sezioni dc della provincia, risse, tessere sospette. Al bar Lanzara, tra corso Vittorio Emanuele, piazza della Libertà e piazza Matteotti, davanti al circolo della Stampa, sede della Dc, il centro di Avellino, dunque dell’Irpinia, dunque dell’Italia, al bar Lanzara vinse De Mita. Che intanto, a Roma, aveva già discusso con il comunista Pietro Ingrao di riforme costituzionali, si era fatto sospendere dalla Dc (con Donat Cattin) per insubordinazione nelle elezioni del presidente della Repubblica del 1964, era diventato uno dei capi della corrente di Base, la sinistra politica della Dc, dove convivevano il più raffinato pensiero politico e la più attenta pratica del potere, perché nel demitismo non c’è mai stata una cosa senza l’altra. “Gava si è circondato di una massa di fessi, De Mita ha attorno a sé gente in gamba”, ammettevano i nemici di Ciriaco con Giampaolo Pansa in una inchiesta per il Corriere della Sera dedicata ai “giovani manager della miseria”.


Nel 1982, con la Dc in crisi per la questione morale, lo scandalo P2, la concorrenza di Craxi e la perdita di Palazzo Chigi ceduto al repubblicano Giovanni Spadolini, lo elessero segretario a 54 anni con i voti diretti dei delegati, senza passare dal parlamentino dc, il Consiglio Nazionale, dove comandavano le correnti: l’antenato delle primarie del Pd, del leaderismo e del presidenzialismo di partito, anche se De Mita si arrabbiava moltissimo quando glielo ricordavi. Con l’obiettivo di trasformare il vecchio partito cattolico in un agile e moderno partito centrista “Destra e sinistra sono schemi mistificanti. Non ci si distingue più in quel modo. La vera dialettica è tra vecchio e nuovo”, spiegò De Mita a Scalfari su Repubblica l’11 aprile 1983. “Questa astratta stratificazione sociale e politica che procede da destra verso sinistra darebbe luogo alla distinzione politica tra conservatori, progressisti, moderati, riformisti. In questo quadro immaginario, i comunisti starebbero al fianco della classe operaia, portatrice di tutte le novità e depositaria del bene; e la Dc, naturalmente, con i padroni, i moderati, i timidi, i corrotti, i corruttori, i baciapile, i vecchi e le casalinghe non ancora folgorati dal femminismo. Non è così, invece. L’innovazione, l’esigenza verso una gestione moderna e efficiente, esiste in tutti i gruppi sociali e in tutti i gruppi sociali trova ostacoli. Chi sta a destra e chi sta a sinistra? Non ci si distingue più in quel modo. La vera dialettica è tra vecchio e nuovo”.
Nelle elezioni 1983, il nuovo predicato da De Mita sarà rovinosamente sconfitto: due milioni di voti in meno, il sei per cento in percentuale, una sconfitta storica della Dc che passa da una cifra di poco sotto al 40 per cento a una di poco sopra al 30, e non si rialzerà mai più da lì. Eppure in quell’intervista De Mita aveva consegnato a Scalfari una preoccupazione lungimirante, più lungimirante della questione morale elaborata da Berlinguer sempre con il direttore di Repubblica: “Facciamo attenzione: se gli uomini politici continueranno a usare termine formule inconcludenti, la gente rifiuterà la politica. Temo il rifiuto della politica per colpa dei politici. Badi, il qualunquismo di trent’anni fa riguardava gruppi sociali culturalmente impreparati, ma oggi il rifiuto della politica è un campanello d’allarme molto più preoccupante perché proviene da gruppi sociali avvertiti, culturalmente e professionalmente qualificati”.


L’antipolitica dall’alto. Nel 1983 Beppe Grillo faceva il comico, era il personaggio televisivo del momento, lanciato dal demitiano Pippo Baudo nella Rai del demitiano Biagio Agnes, e commentò negli studi Rai allo speciale Tg1 il tracollo elettorale della Dc, in un’atmosfera da lutto televisivo nazionale: “Calma, ci sono gli ultimi seggi di Lourdes e Fatima, chissà, un miracolino…”, diceva Beppe saltando da un lato all’altro dello studio, con Bruno Vespa che lo inseguiva e Enrico Mentana che leggeva i risultati. Sull’anti-politica De Mita ha rotto con Francesco Cossiga che aveva portato al Quirinale: “Francesco collezionava i soldatini, li aveva di fronte a sé sul tavolo, io ne prendo uno e glielo punto contro: ‘Posizione d’attacco’, gli dico. ‘Allora mi metto in difesa’, reagisce lui e ne muove un altro”, mi raccontò. “‘Hai fatto cose ai limiti della legalità costituzionale’, lo accuso. Cominciò un parapiglia”. Fu sempre ostile a Berlusconi più che a Grillo: “L’ho seguito con simpatia, ma ha indicato il desiderio, non la soluzione”. E nel 2016, da quasi novantenne lucido e combattivo, si ritrovò in tv da Mentana a duellare con Matteo Renzi sul referendum costituzionale: dalla parte del No, contro il Sì, questa volta, il vecchio contro il nuovo. A sorpresa, vinse lui: il dinosauro democristiano, più dialettico e determinato, perfino più credibile, del suo giovane erede, di cui riconosceva il talento e la dissipazione.


Non ha saputo, o non ha voluto per civetteria, ricordare negli ultimi anni quanto gli sarebbe sopravvissuto. Una certa idea del cattolicesimo in politica, legata alla Lega democratica di Scoppola, Lipari e Ruffilli (ucciso dalle Br pochi giorni dopo il giuramento del governo De Mita), senatori della sua Dc, come anche Augusto Del Noce, ai tempi di scontri furiosi con Comunione e liberazione che lo accusava di aver laicizzato la Dc: “Ruini non crede in Dio. All’inizio mi dava ragione, poi arrivò Andreotti e cambiò pensiero. Oggi la dimensione religiosa coincide con la libertà della persona”. Una classe dirigente formidabile: non solo Mastella, Misasi, Sanza, ma anche i colonnelli Castagnetti, Tabacci, Orlando, il presidente dell’Iri Romano Prodi, Beniamino Andreatta, Giovanni Goria, Leopoldo Elia, i giovani Letta e Franceschini, David Sassoli, e Sergio Mattarella che nel 1983 De Mita portò in Parlamento. Nel 2015, alla vigilia della prima elezione del presidente, si fece rivedere nel Transatlantico di Montecitorio, a prendere sottobraccio giornalisti , il suo modo di mostrare che il tempo non era finito. E che il cattivo carattere con cui affrontava il mondo era infine una attestazione di stima, una forma di conoscenza e di curiosità intellettuale per gli altri. La delicatezza e la sensibilità e la commozione che concedeva a se stesso un uomo come lui, un leader politico.

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